Eutanasia
La “Morte cerebrale” e l’industria dei trapianti

Si è tenuto nel cuore di Roma, dal 20 al 21 maggio scorso, un importante convegno internazionale di bioetica organizzato dalla JAHLF (John Paul II Accademy for Human Life and the Family) avente come oggetto il controverso tema della cosiddetta “morte cerebrale”: «Brain Death – A Medicolegal Construct: Scientific & Philosophical Evidence».
L’Accademia, diretta dal Prof. Josef Seifert, si è costituita in sovrapposizione alla Pontifica Accademia per la Vita per difendere quei valori morali che l’Accademia diretta da Mons. Vincenzo Paglia, attuale presidente, ha abbandonato da tempo. Diversi membri della JAHLF, infatti – primo fra tutti il Prof. Seifert – erano membri della PAV – poi fuoriusciti a causa delle evidenti derive bioetiche, teologiche e morali.
Uno degli argomenti che hanno portato molti membri dell’attuale JAHLF a prendere le distanze dalla PAV è proprio quello inerente all dibattito sulla “morte cerebrale” (MC) argomento dato per assodato e in effetti nemmeno più dibattuto fra i bioeticisti seguaci di Harvard e delle logiche del mondo pro-morte.
Medici, ricercatori, filosofi e ricercatori si sono dunque seduti al tavolo di questo importante convegno (potremmo dire l’unico a trattare un così poco esplorato argomento, bypassato anche da un certo ambiente pro-life) per portare a galla una verità davvero sconvolgente.
Il Dr. Byrne, durante la sua esperienza professionale come medico, ha girato il mondo per salvare bambini dalla macchina della morte che avrebbe voluto espiantare organi a cuore battente a bambini considerati «morti cerebralmente» o a sospendere supporti vitali per uccidere piccoli innocenti.
Fra i relatori, oltre al prestigioso nome del Prof. Seifert, filosofo austriaco e rettore di diverse cattedre universitarie di filosofia, spiccava il Dr. Paul Byrne, uno dei più importanti pediatri nel mondo, padre di 12 figli, nonno di 36 nipoti e di 7 pronipoti, Fondatore di Life Guardian, fra le più grandi fondazioni cattoliche pro-life americane.
Il Dr. Byrne, durante la sua esperienza professionale come medico, ha girato il mondo per salvare bambini dalla macchina della morte che avrebbe voluto espiantare organi a cuore battente a bambini considerati «morti cerebralmente» o a sospendere supporti vitali per uccidere piccoli innocenti. Uno degli ultimi casi in cui il Dr. Byrne è stato coinvolto – purtroppo, a differenza di altri casi, senza successo – è stato quello riguardante il piccolo Alfie Evans, il bambino inglese condannato a morte dal braccio dello stato e della sanità, con l’imprimatur silenzioso ma eutanatico del Vaticano intero.
Diverse relazioni sono state tenute dalla Prof.ssa Doyen Nguyen, ematopatologa e docente in diverse università americane. E ancora il Dr. Thomas Zabiega e il Dr. Cicero Coimbra, entrambi neurologi. Altri i relatori con interventi di alto livello scientifico sul tema. Molti di questi nomi sono peraltro raccolti in un libro fondamentale per capire il problema che stiamo andando a trattare: Finis vitæ. La morte cerebrale è ancora vita?, edito per Rubbettino e curato dal Prof. Roberto De Mattei, anch’egli membro della JAHLF.
Scopo dell’evento, appunto, decostruire tutto il costrutto falsamente inoculato e tristemente accettato nelle accademie di bioetica sulla «Brain Death», compito che veramente nessuno si è dato di fare.
Origini fallaci della «Morte Cerebrale»
Nel secolo scorso, a partire dai primi anni ‘50, i neurologi specialmente europei iniziarono a richiamare l’attenzione su un nuovo stato di coma in cui il cervello sarebbe risultato irreparabilmente leso, cessando di funzionare pur continuando a mantenere la funzionalità cardiaca insieme a quella respiratoria. I neurologi francesi Mollaret e Gonion, nel 1959, ridefinirono questo stato di coma come «coma dépassé», cioè uno stato «oltre il coma». Fu sostanzialmente l’inizio della nuova ridefinizione di morte così come precedentemente conosciuta, ovvero attraverso il criterio dell’arresto cardiocircolatorio.
Nel 1967 , in Sud Africa, il team chirurgico del Dr. Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto di cuore al mondo, celebrato dal governo sudafricano come un semi-miracolo – nonostante la morte del paziente ricevente avvenuta dopo 18 giorni.
Il 3 dicembre 1967, tre anni dopo, al Groote Schuur Hospital di Città del Capo, in Sud Africa, il team chirurgico del Dr. Christiaan Barnard effettuò il primo trapianto di cuore al mondo, celebrato dal governo sudafricano come un semi-miracolo – nonostante la morte del paziente ricevente avvenuta dopo 18 giorni.
Poco tempo dopo, alla Harvard Medical School di Cambridge (Massachusetts), precisamente nel 1968, veniva istituto un Comitato ad hoc composto da 10 medici (anestesisti, neurologi, psichiatri ed esperti in trapianti), un teologo, un avvocato ed uno storico, incaricati di ridefinire mondialmente ed una volta per tutti la morte come come «morte cerebrale», giudicando il c.d. «coma irreversibile» come criterio per accertare ed accettare la morte.
Alla Harvard Medical School nel 1968, veniva istituto un Comitato ad hoc composto da 10 medici, un teologo, un avvocato ed uno storico, incaricati di ridefinire mondialmente ed una volta per tutti la morte come come «morte cerebrale»
Il Comitato di Harvard impiegò solo sei mesi per completare il lavoro, pubblicando il rapporto nel Journal of the American Medical Association il 5 agosto dello stesso anno e proponendo, senza ostacolo alcuno, che lo stato di irreversibilità del paziente in stato comatoso doveva, da lì in avanti, essere diagnosticato su basi prettamente funzionali [1].
Il team di Harvard approfittò inoltre del superamento degli ostacoli legali per il trapianto, presenti negli Stati Uniti per ridefinire la morte: «criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto» [2].
Aspetti clinici contro la «Brain Death»
Durante il convegno di Roma, particolarmente negli interventi della Prof.ssa Doyen Nguyen, si sono trattate le evidenze cliniche e scientifiche contro chi vuole sentenziare che la«morte cerebrale» esista per sistematicità scientifica.
La morte è anzitutto un evento, non un processo che può condursi attraverso una graduale cessazione delle funzioni principali dell’encefalo.
La morte è anzitutto un evento, non un processo
Molti casi di continuazione di gravidanza e poi nascita del feto si sono verificati in persone venutesi a trovare, per gravi incidenti od emorragie cerebrali più in generale, in stato di coma profondo e giudicato alle volte irreversibile. Ma come potrebbe una vita umana continuare a formarsi, e addirittura a nascere in un soggetto morto? Tutto questo è ovviamente impossibile e contro ogni logica dettata dalla stessa legge naturale.
Qualcuno vorrebbe addirittura asserire che la ventilazione artificiale è uno dei mezzi utilizzati per tenere in vita pazienti che altrimenti morirebbero. Anche ciò, è assolutamente falso: la ventilazione attraverso tracheostomia può funzionare solo se il paziente è vivo ed ha la sola funzione di ossigenare il sangue e di supportare, ma non per forza sostituire, la respirazione del paziente.
Come potrebbe una vita umana continuare a formarsi, e addirittura a nascere in un soggetto morto? Tutto questo è ovviamente impossibile e contro ogni logica dettata dalla stessa legge naturale
Al piccolo Alfie Evans, quando fu rimossa la ventilazione, avevano dato pochi minuti di vita perché si sosteneva che fosse il ventilatore meccanico a tenerlo in vita. Con grande stupore di tutti, invece, il piccolo continuò a respirare autonomamente e senza ossigeno per circa trenta ore, fino al punto che gli operatori sanitari dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool furono costretti a ridare un poco di ossigeno al piccolo, contrapponendo poi, nell’imbarazzo più generale per la resistenza autonoma del bambino, la cessazione di ogni nutrizione enterale così da farlo letteralmente morire di fame.
Il Dott. Coimbra, intervenuto durante il convegno ha mostrato, riportando studi scientifici e con dati alla mano, che molti degli importanti farmaci che dovrebbero essere somministrati a pazienti incorsi in gravi lesioni cerebrali e pronti per essere dichiarati «morti cerebralmente» non vengono somministrati, primo fra tutti l’ormone tiroideo, indispensabile per i centri respiratori. Non somministrando questi importanti farmaci si compromette il circolo ematico e gli stessi centri respiratori che così non rispondo ai test di apnea utilizzati per cercare di constatare la «Brain Death».
Questi test, che vengono sostanzialmente proposti come diagnosi, finiscono in realtà per danneggiare in modo irreversibile l’intero tronco encefalico.
Ci troviamo davanti ad una vera e propria inversione dell’etica medica e biologica quando ci riferiamo a questi metodi di prova della MC, in particolare l’apnea-test, in cui tutta la ventilazione viene sostanzialmente sospesa nella persona gravemente cerebrolesa per un massimo (sic!) di dieci minuti, in modo da constatare se è «cerebralmente morta” e incapace di respirazione spontanea, la quale può essere supportata da un ventilatore, riguardando solo la funzione di pompa muscolare del diaframma e non i polmoni e la respirazione.
Questi test, che vengono sostanzialmente proposti come diagnosi, finiscono in realtà per danneggiare in modo irreversibile l’intero tronco encefalico
Nel processo di un tale test, che potremmo paragonare alla richiesta fatta ad un uomo appena operato ai polmoni di fare una corsa campestre, si mostra un totale disinteresse per il donatore di organi, quasi come non fosse nemmeno una persona umana ma solo un raccoglitore di organi scissi fra loro.
In realtà, a causa dei test di apnea, fortemente controindicati dal punto di vista medico, molti muoiono di morte reale. Pertanto, applicare questo test clinico come diagnosi, prescritto dai codici etici e dalle leggi mediche prima della dichiarazione di «morte cerebrale» è irresponsabile e persino una negligenza criminale dell’interesse dei pazienti.
La realtà è che come veniva scritto nel protocollo di Pittsburgh nel 1993, hanno «bisogno di organi», di organi che siano conservati bene e, quindi – unica modalità possibile – in corpi vivi.
Ci troviamo davanti ad una vera e propria inversione dell’etica medica
Infatti, se ci si pensa, una persona morta viene solitamente portata in obitorio, o nella camera ardente che sia; i pazienti cui è stata dichiarata la «morte cerebrale», chissà perché, vengono portati in sala operatoria. Una volta raggiunto il macello, prima di sventrare un corpo dichiarato morto il cui cuore ancora batte e la cui temperatura corporea ancora corrisponde ai parametri vitali nella norma, gli anestesisti procedono alla somministrazione di potenti dosi di farmaci antidolorifici per via endovenosa a causa della responsività , motivo per il quale, dopo la somministrazione farmacologica, si immobilizza il «corpo morto» per evitare le contrazioni durante lo squartamento corporeo pro-espianto. In sintesi: un paziente morto che ha bisogno di farmaci antidolorifici, anestesie e immobilizzazioni per non contorcersi sa di tutto fuorché di morto.
Con una piena circolazione, conditio sine qua non per l’integrazione integrativa dell’organismo nel suo insieme, e non la parte cerebrale, si fa a brandelli un essere umano vivo e responsivo, come mostrato in un video presentato al convegno di Roma dal Dr. Byrne, dove durante lo sventramento chirurgico di un costato di un paziente per espiantare un organo si vedeva nitidamente il cuore battere e pulsare normalmente.
Gli anestesisti procedono alla somministrazione di potenti dosi di farmaci antidolorifici per via endovenosa a causa della responsività , motivo per il quale, dopo la somministrazione farmacologica, si immobilizza il «corpo morto» per evitare le contrazioni durante lo squartamento corporeo pro-espianto
Carta d’identità pro-morte
L’organo-mercato ha però bisogno di strategie serie e allo stesso semplici per inserire quante più persone possibili nel Sistema Informativo dei Trapianti (SIT) del Centro Nazionale dei Trapianti (CNT), una vera e propria anagrafe di papabili donatori pronti all’uso, al quale nessuno ha accesso, se non, ovviamente, ventiquattro ore su ventiquattro, i medici del coordinamento espianti-trapianti. E così, attraverso la nuova Carta d’Identità elettronica verso la quale tutti, presto o tardi, per un fattore di validità, dovremo passare, viene fatta esplicita richiesta per la donazione di organi.
All’anagrafe, prima di qualsiasi altra cosa, viene presentato un modulo prestampato ingannevole, come se fosse obbligatorio (ma in realtà non lo è né per il Comune né per il cittadino) dove si chiede di dare o meno la propria approvazione per il prelievo degli organi. Se si firma il modulo, esso sarà raccolto negli archivi dell’anagrafe e la volontà del cittadino, a prescindere da quale essa sia verrà trasmessa telematicamente al Sistema Informativo dei Trapianti e al Centro Nazionale Trapianti.
Un paziente morto che ha bisogno di farmaci antidolorifici, anestesie e immobilizzazioni per non contorcersi sa di tutto fuorché di morto
Come riporta il sito italiano di antipredazione.org, associazione che da anni combatte contro la macchina di morte «tale modulo non esplicita che si tratta di espianto su persona in cosiddetta “morte cerebrale” a cuore battente, perpetuando la falsità del “dona dopo la morte” […]? degli espianti, «La propaganda fa passare questo imbroglio come una “opportunità in più” ma non è così: è invece il turpe tentativo di intrappolarci, di fatto, uno alla volta (donatori, NON-donatori ed astenuti) nel database del Centro Nazionale Trapianti, ponendo anche gravi problemi di privacy».
Bisogna perciò, in tutto e per tutto, rifiutarsi di firmare tale modulo all’anagrafe durante il passaggio alla Carta d’Identità elettronica. Il fatto che sia la prima cosa ad essere richiesta la dice lunga sull’insaziabile sete di organi che aleggia nell’aria.
All’anagrafe, prima di qualsiasi altra cosa, viene presentato un modulo prestampato ingannevole, come se fosse obbligatorio (ma in realtà non lo è né per il Comune né per il cittadino) dove si chiede di dare o meno la propria approvazione per il prelievo degli organi
Filosofia cerebrolesa
Se gli argomenti medici, clinici e amministrativi contro la «MC» sono molti, non ne mancano nemmeno di filosofici. Da un punto di vista filosofico, infatti, la non funzione del cervello non può essere argomento per confermare la morte di una persona.
A trattare in modo approfondito il tema durante il convegno di Roma è stato ovviamente il Prof. Seifert, fra le altre cose cofondatore della Accademia Internazionale di Filosofia (IAP).
Seifert, durante l’introduzione iniziale al convegno, ha esordito ribadendo ciò che la fede cattolica e la stessa filosofia classica insegnano: «Noi abbiamo un’anima spirituale, e la vita umana esiste prima ancora della formazione del cervello».
Questo primo dato essenziale sarebbe già sufficiente per comprendere quanto la «Brain Death» sia una totale invenzione, essendo il cuore il primo e sostanziale organo a formarsi subito dopo il concepimento. Da questo possiamo comprendere come una persona, finché viva biologicamente, è viva anche spiritualmente. La tendenza utilitarista secondo la quale la persona è ridotta alle sue azioni, in base alla sua «qualità di vita», espone a considerare la persona non per ciò che realmente è, ma per ciò che fa. Questo va contro il disegno di Dio, che ha creato l’uomo, nella sua essenza, a Sua immagine e somiglianza.
«Noi abbiamo un’anima spirituale, e la vita umana esiste prima ancora della formazione del cervello»
Abbiamo inoltre già detto che la morte è un evento e non un processo.
Un evento che ha segni biologici evidenti, primo fra tutti la cessazione del battito cardiaco, delle stesse funzioni cardiache e, quindi, della circolazione ematica e del respiro. Pensando al Vangelo potremmo meditare sulla «scrupolosità» di Nostro Signore Gesù Cristo, che prima di risuscitare l’amico Lazzaro attese ben tre giorni per esser certo che fosse davvero morto. Morire vuole infatti dire cessare di vivere, in tutto e per tutto, ma questi due elementi – la vita e la morte – non possono essere oggetti strettamente legati alla scienza, quest’ultima non potendo approfondire gli aspetti sovrannaturali della questione.
Come diceva il grande filosofo cattolico Robert Speamann, venuto a mancare non molto tempo fa e citato nel convegno romano durante l’intervento di un altro interessantissimo relatore, Padre Waldstein, un monaco circestense, «l’anima è ciò che dà vita al corpo, è la prima attualizzazione dell’essere umano, la forma sostanziale che costituisce l’uomo nella sua totalità».
Se ne evince allora che nessuna parte del corpo in sé può rappresentare il tutto se non si tiene conto dell’anima e se non si guarda all’uomo nella sua totalità integrativa biologica, psicologica e spirituale.
«L’anima è ciò che dà vita al corpo, è la prima attualizzazione dell’essere umano, la forma sostanziale che costituisce l’uomo nella sua totalità»
Potrebbe mai l’anima scindersi dal corpo, abbandonare il corpo per una disfunzione del cervello? La risposta è ovviamente negativa, poiché questo si porrebbe in palese contraddizione con l’unità integrale di anima e di corpo: ovverosia l’essere umano stesso.
Qualcuno, anche fra presunti filosofi cattolici ma in realtà figli di una filosofia materialista, ha tentato di risolvere ed arrivare alla conclusione che l’anima risiederebbe nel cervello. Questa conclusione però risulta assurda sia da un punto di vista biostorico che da un punto di vista evolutivo: se l’anima è presente sin dal concepimento, quando ancora il cervello non è presente, come può l’anima risiedere nel cervello? L’anima risiede, piuttosto, in tutto il corpo.
Chiesa predatrice, chiesa espiantatrice
La poca conoscenza dell’anima e dell’interesse per la sua salvezza, è prerogativa della chiesa vatican-secondista. Non stupisce, quindi, che il lascia passare per alcune delle teorie che vorrebbero far risiedere l’anima nel cervello in modo da scavalcare eventuali ostacoli filosofici e teologici per uccidere le persone sia pervenuto proprio dai modernisti.
I discorsi di Wojtyla sui trapianti sono infarciti, come il solito modernismo insegna, da una agghiacciante ambiguità
Nonostante l’Accademia Giovanni Paolo II porti proprio il nome di Papa Wojtyla, non sono mancate, durante il convegno, critiche obiettive ad alcuni suoi pronunciamenti a proposito della «MC», in particolare nei discorsi rivolti ai partecipanti del Congresso Mondiale per i Trapianti, la fine degli anni ’90 e il 2000.
Se è vero che la Chiesa ufficiale non si è mai pronunciata in modo autorevole sul tema (e questo certo non è un bene), è altresì vero che i pochi discorsi e i pochi documenti esistenti a cui si può fare riferimento – come ad esempio i capitoli dedicati ai trapianti presenti nella Nuova Carta degli Operatori Sanitari del 2017 – sono infarciti, come il solito modernismo insegna, da una agghiacciante ambiguità.
Prendiamo appunto ad esempio uno stralcio di discorso che Giovanni Paolo II pronunciò il 29 agosto del 2000 ai partecipanti al Congresso Internazionale sui trapianti:
«La morte della persona, intesa in questo senso radicale, è un evento che non può essere direttamente individuato da nessuna tecnica scientifica o metodica empirica. Ma l’esperienza umana insegna anche che l’avvenuta morte di un individuo produce inevitabilmente dei segni biologici, che si è imparato a riconoscere in maniera sempre più approfondita e dettagliata. I cosiddetti “criteri di accertamento della morte”, che la medicina oggi utilizza, non sono pertanto da intendere come la percezione tecnico-scientifica del momento puntuale della morte della persona, ma come una modalità sicura, offerta dalla scienza, per rilevare i segni biologici della già avvenuta morte della persona».
Era il 1999 quando, in un’ intervista rilasciata a La Repubblica l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Joseph Ratzinger dichiarò apertamente di essere iscritto all’albo dei donatori di organi
In particolare nell’ultima frase, si può facilmente individuare una ambigua definizione di nuovi «criteri di accertamento della morte», affidando sostanzialmente il rilevamento dei segni biologici per constatare la morte ad una «modalità sicura offerta dalla scienza».
Il discorso continua poi con una sostanziale ammissione ed accettazione della «concezione antropologica» della «morte cerebrale»:
«Di fronte agli odierni parametri di accertamento della morte, – sia che ci si riferisca ai segni “encefalici”, sia che si faccia ricorso ai più tradizionali segni cardio-respiratori -, la Chiesa non fa opzioni scientifiche, ma si limita ad esercitare la responsabilità evangelica di confrontare i dati offerti dalla scienza medica con una concezione unitaria della persona secondo la prospettiva cristiana, evidenziando assonanze ed eventuali contraddizioni, che potrebbero mettere a repentaglio il rispetto della dignità umana».
«In questa prospettiva, si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte sopra menzionato, cioè la cessazione totale ed irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica».
Una totale impreparazione su di un argomento che avrebbe poi fatto breccia, di lì in avanti, in tutte le accademie «pro-Life» della Chiesa Cattolica.
È ora di finirla con i falsi buonismi secondo il quale donare organi è un atto di bontà
Anche Ratzinger – quando ancora era Cardinal Ratzinger -, non sfuggì.
In pochi sanno che il prelato bavarese ci tenne a fare un notevole coming-out. Era il 1999 quando, in un’ intervista rilasciata a La Repubblica l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò apertamente di essere iscritto all’albo dei donatori di organi, definendo tale «donazione» come «un atto d’amore moralmente lecito, che deve però essere fatto volontariamente». Fu poi cancellato una volta eletto al Soglio, giacché ai papi gli organi non possono essere « almeno per ora » estratti. La cosa in effetti fungerebbe da perfetta analogia: la Chiesa predata dalla neo-chiesa predatrice.
Tornando all’atto di amore: si può parlare di «atto di amore» per la donazione di organi?
Evidentemente, viste le condizioni e le argomentazioni sin qui espresse circa il concetto di «morte» per gli addetti ai trapianto, no. Ma non solo per questo, e a spiegarlo è stato sempre il Dr. Paul Byrne, a Roma, quando con coraggio ha detto chiaro e tondo che è ora di finirla con i falsi buonismi secondo il quale donare organi è un atto di bontà. Byrne ha argomentato questa sua presa di posizione sostenendo, giustamente, che il nostro corpo è una cosa inviolabile e disposta da Dio, e che per nessuna ragione può essere privato di ciò che lo compone.
Il nostro corpo è una cosa inviolabile e disposta da Dio, e che per nessuna ragione può essere privato di ciò che lo compone
Conclusioni
Da tutte queste considerazioni fatte possiamo arrivare ad una sola conclusione: la definizione ed il criterio di «morte cerebrale» deve essere considerato come aberrante sotto ogni punto di vista: clinico, etico, filosofico. Dobbiamo continuare a combattere per affermare che l’unica nozione a cui si può far riferimento è quella di morte clinica o naturale. Tutto il resto è una nebulosa di parole creata ad arte per permettere gli espianti a cuore battente, una vera e propria industria di organi e di corpi macellati, che si stima frutterà 51 miliardi di dollari dal 2017 al 2025 [3].
La morte non è legata ad un giudizio arbitrario poiché porta con sé caratteristiche evidenti e potenti. È totalmente arbitrario, invece, identificare un evento così lampante come la morte con la «morte» del tronco encefalico.
Una vera e propria industria di organi e di corpi macellati, che si stima frutterà 51 miliardi di dollari dal 2017 al 2025
Opponiamoci ai necrocultori del nuovo millennio, fedeli eredi di una cultura pagana riemersa e pronta a fare il proprio mortifero proclamo: ritornare al sacrificio umano, ovvero all’idea di «aiutare qualcuno» uccidendo e sacrificando qualcun altro. Ucciderne uno per salvaguardare la collettività.
Tutto questo non è null’altro che la sovversione bioetica. Ma, soprattutto, è un satanico rovesciamento della Croce di Cristo, che con il Suo Sacrificio perpetuo ha distrutto ogni tentativo di sacrifico umano ai dei gentium, riabilitando l’uomo nella sua nobiltà spirituale e corporea, dal suo concepimento sino alla morte naturale.
Un satanico rovesciamento della Croce di Cristo, che con il Suo Sacrificio perpetuo ha distrutto ogni tentativo di sacrifico umano
Citando uno splendido riadattamento latino del Prof. Joseph Seifert, possiamo concludere dicendo: Ceterum censeo definitiones mortis cerebrali esse delendam.
Cristiano Lugli
NOTE
[1] M GIACOMINI, “A Change of Heart a d a Change of Mind? Technology and the Redefinition of Death in 1968”, in «Social Science and Medicine», 44, 10, 1997, pp. 1465-1482.
CICERO GALLI COIMBRA, “Il test di apnea: un ‘disastro’ letale al capezzale del malato per evitare un ‘disastro’ legale in sala operatoria”, in «Finis vitæ. La morte cerebrale è ancora vita?, p.144.
[2] “A Definition of Irriversible Coma. Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School of Examine Brain Death”, in «Journal of the American Medical Association», 205, 1968, pp. 337-340.
[3] https://www.grandviewresearch.com/press-release/global-transplantation-market
Articolo apparso anche su Tradizione Cattolica.
Eutanasia
I medici cattolici britannici prendono posizione contro l’eutanasia

Un disegno di legge di iniziativa parlamentare, presentato dalla deputata Kim Leadbeater, è stato approvato in seconda lettura il 29 novembre 2024 con 330 voti favorevoli e 275 contrari. È stato approvato dalla Complementary Medical Association, il 18 gennaio 2025. La British Catholic Medical Association (UK MCA) si è espressa ampiamente in merito il 17 gennaio.
Il 7 aprile 2025, la CMA del Regno Unito ha rilasciato una dichiarazione contenente la posizione dell’Associazione su questo disegno di legge. Questo testo inizia con un’affermazione fondamentale: «La CMA si impegna a rispettare gli insegnamenti morali della Chiesa cattolica nella loro applicazione al campo dell’assistenza sanitaria. Per questo motivo si oppone a questo progetto sulla morte assistita».
E «l’insegnamento morale cattolico sostiene che è sempre sbagliato danneggiare direttamente la vita umana innocente». Ora, «il suicidio assistito costituisce un attacco di questo tipo e pertanto non può mai essere tollerato». La dichiarazione cita il diritto fondamentale alla vita sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Questo diritto «è insito» nella nostra appartenenza alla famiglia umana.
La Dichiarazione attacca il termine «morte assistita» perché in realtà la legge propone il «suicidio assistito». Ricorda che «il suicidio è stato depenalizzato nel 1961», aggiungendo che «il suicidio assistito resta un crimine punibile con una lunga pena detentiva». Ciò «riflette l’opinione della società» e inoltre «il Governo sta di fatto dedicando notevoli risorse alla sua prevenzione».
Il testo prosegue affermando che il disegno di legge «richiede che vengano adottate misure per accertare che la persona che richiede il suicidio assistito abbia una volontà chiara, consolidata e informata di porre fine alla propria vita. La decisione deve essere presa volontariamente, senza coercizione o pressione da parte di terzi».
Ma «alti avvocati, giudici e medici» affermano che «sarà difficile, se non impossibile, stabilire che queste disposizioni siano state rigorosamente rispettate». Il testo si basa «sull’esperienza dei Paesi che hanno legalizzato il suicidio assistito», dove gli abusi non sono rari. Ciò ridurrà la fiducia dei pazienti nei servizi sanitari.
Conclude che «la revisione di questo disegno di legge è stata inadeguata e faziosa, il che lo ha reso pericolosamente imperfetto». Aggiunge: «sia per i cristiani che per i non cristiani è sempre stato difeso ufficialmente l’antico e fondamentale principio del rispetto assoluto della vita umana», ricordando il giuramento di Ippocrate: «non darò né consiglierò veleno a nessuno».
Una conseguenza tragica sarebbe che «la legalizzazione del suicidio assistito sconvolgerebbe i fondamenti etici della medicina e delle altre professioni sanitarie, costringendole a togliere la vita ai loro pazienti. L’AMC non tollererebbe in alcun modo tale pratica e difenderà sempre il diritto degli operatori sanitari ad agire in conformità con i propri principi cristiani».
«Il vero significato etico dell’aiuto a morire è racchiuso nella medicina e nelle cure palliative», afferma la Dichiarazione. La CMA si compiace «del fatto che questo settore dell’assistenza sanitaria nel Regno Unito sia ampiamente riconosciuto come il migliore al mondo”, ma deplora che “le cure palliative siano finanziate in modo estremamente scadente dal governo».
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La sostenitrice delle cure palliative Cicely Saunders ha assicurato ai morenti che «siete importanti perché siete voi, e lo sarete fino alla fine della vostra vita. Faremo tutto il possibile non solo per aiutarvi a morire serenamente, ma anche per permettervi di vivere fino alla morte».
Tuttavia, il testo sottolinea che «le prove dimostrano l’effetto negativo che la legislazione sul suicidio assistito può avere sulla fornitura di cure palliative. Gli ospizi hanno espresso serie preoccupazioni riguardo a questa legislazione e all’incertezza che crea per le loro attività future».
La dichiarazione conclude che «detesta e respinge la legislazione proposta nel disegno di legge di Kim Leadbeater e chiede invece ingenti investimenti nei servizi di cure palliative, in modo che siano accessibili a tutti coloro che ne hanno bisogno nel Regno Unito, 24 ore su 24».
Articolo previamente apparso su FSSPX.News
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Immagine di Ank Kumar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
Autismo
L’eutanasia olandese per malattie mentali aumenta del 60%, compresi gli adolescenti con autismo

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Il messaggio dei tanti bambini – in Gran Bretagna, soprattutto – uccisi negli ospedali è molto preciso: siamo autorizzati a «pensare che si possono ammazzare i bambini anche già nati… i bambini danneggiati si possono ammazzare». «Quindi io mi chiedo, e sono conscio della forza di questa mia domanda: quanti anni ci vorranno prima che i bambini autistici finiranno in questo calderone?» domandava al pubblico il fondatore di Renovatio 21. «La famiglia, la cellula primaria della società nella quale visse lo stesso Dio incarnato, il cuore della legge naturale, viene pervertita in modo sanguinario» ha scritto Renovatio 21 ancora un anno fa. «È il Regno Sociale di Satana: parte dalle siringhe dei sieri e, dopo dolore e malattia, torna alle siringhe, ma dello sterminio biomedico di Stato. Dalla siringa al sacrificio umano. Lo Stato moderno fa così».Autismo ed eutanasia infantile. Intervento di Roberto Dal Bosco dal convegno di Renovatio 21 «Vaccini fra obbligo e libertà di scelta», Reggio Emilia, 9 settembre 2017 pic.twitter.com/5aYBo27Gb8
— Renovatio 21 (@21_renovatio) April 17, 2024
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Eutanasia
Suicidio assistito, diritto manipolato e distruzione della società

La legge sul suicidio assistito di recente approvata dalla Regione Toscana, è di certo l’approdo di fattori concomitanti e connessi.
Fattori che hanno a che fare, nella società contemporanea omogeneizzata, sia con la perdita dei principi etici fondamentali e con l’allontanamento da quelli religiosi che ne erano interpreti privilegiati, sia con le manipolazioni e le distorsioni di un’opinione pubblica sempre più in balia di suggestioni indotte mediaticamente, con le inclinazioni individualistiche e nichilistiche che hanno offuscato, fino quasi alla cancellazione, il senso e la idea stessa del bene comune ormai totalmente fagocitata da quella della priorità dei desideri e delle esigenze individuali.
Ma l’impoverimento culturale diffuso e generalizzato, ha travolto inevitabilmente, insieme alla politica, all’etica e all’estetica, in modo particolare anche il diritto, sotto ogni profilo formale e sostanziale, E bisogna subito mettere in luce come la sua crisi sia anzitutto una crisi di identità, cioè di sfaldamento delle sue basi concettuali, di ‘offuscamento delle sue finalità costitutive, della sua tecnica costitutiva, e dei confini entro i quali è chiamato ad operare.
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La crisi del diritto si dispiega inoltre, sia all’interno, nello scadimento della sua funzione regolatrice della società, sia all’esterno, nella percezione distorta che di quella funzione si fa strada nel sentire comune. Mentre la distorsione investe tanto il diritto soggettivo, cioè la pretesa individuale riconosciuta meritevole di tutela nell’interesse della collettività (ecco la creazione di «diritti» che non possono essere considerati tali proprio perché non hanno nulla a che fare con il diritto soggettivo), quanto il diritto oggettivo, cioè l’insieme delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico, di cui la società si dota per proteggersi, consolidarsi ed espandersi culturalmente e materialmente.
Questa crisi del diritto che investe sia la sua produzione e attuazione, sia la sua percezione generalizzata, si avvale del fenomeno dello slittamento semantico anch’ esso generalizzato, spesso forgiato ad arte, per cui sono le parole a creare la realtà e non viceversa, e sotto la loro cortina fumogena viene eliminato l’ingombro del pensiero.
Su questo sfondo va letta dunque la vicenda che qui ci interessa, del cosiddetto «suicidio assistito» nella quale tutti questi aspetti si riassumono in modo esemplare: la degenerazione normativa, la distorta percezione del fenomeno giuridico, il travisamento dei suoi contenuti e delle sue finalità nel comune sentire, ovvero in quel senso comune di manzoniana memoria, venutosi a creare sotto la pressione della rieducazione mediaticamente imposta.
Occorre perciò richiamare alcuni concetti elementari quanto fondamentali.
Il diritto, e quello penale in particolare, è lo strumento che una società organizzata si dà per potersi garantire una convivenza ordinata e pacifica.
La legge penale in primo luogo assolve questa funzione ordinatrice e pacificatrice individuando i valori fondamentali che debbono essere tutelati per consolidare i fondamenti etici irrinunciabili su cui si può reggere la società.
La tutela come è noto avviene attraverso la minaccia di una sanzione che andrà a colpire chi mette in pericolo questi valori, che chiamiamo «beni giuridici» perché appunto riconosciuti meritevoli di tutela dalla legge penale, in quanto fondativi di una convivenza pacifica e ordinata.
Fra questi va individuata altresì la rosa dei «diritti indisponibili», ovvero di quei valori, quali la vita, la integrità fisica, la libertà personale etc. che sono ritenuti tali per la loro importanza capitale, e vanno difesi ad oltranza erga omnes, anche nei confronti di chi ne sia titolare particolare, perché stanno a presidio della conservazione e persino della stessa sopravvivenza della intera comunità organizzata.
Etiamsi deus non daretur, secondo la locuzione di Grozio ricordata più volte da Benedetto XVI, a proposito dei «valori non negoziabili».
Qui bisogna sottolineare, appunto, come l’indisponibilità da parte del titolare particolare sancita dall’ordinamento, deve essere riconosciuta da ogni società che non voglia votarsi alla autodistruzione.
Inoltre la necessità di una difesa avanzata di questi beni, è bene sottolinearlo, opera non soltanto nei confronti di chi fra i consociati li possa aggredire, ma anche nei confronti dello stesso potere politico che potrebbe violarli abusando degli strumenti di coercizione di cui dispone.
In altre parole, la tutela dei valori fondamentali rappresenta anche un baluardo nei confronti della entità statuale che, attraverso un uso arbitrario del potere, operi non per il bene comune ma per la propria perpetuazione, violando proprio le norme destinate a regolare i comportamenti del cittadino comune. Il potere politico può utilizzare gli apparati di cui dispone, per fini contra legem.
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Sicché quanto più strette sono le maglie della norma penale in tema di diritti indisponibili, tanto più forte sarà la funzione difensiva della legge anche nei confronti del potere politico, in quel quadro di stato di diritto che tanto viene invocato a sproposito nei giorni nostri da chi ne ignora proprio il significato.
Alla luce di queste considerazioni dovrebbe essere letta l’esigenza di non ammettere deroghe di sorta alla punibilità delle violazioni delle norme poste a difesa della vita umana con la sola eccezione della legittima difesa, che introduce il criterio del bilanciamento degli interessi, dove il valore della vita di chi si è messo al di fuori delle regole dell’ordinamento, cede il passo al valore della vita messa in pericolo dall’aggressore.
Se passiamo a considerare la norma dell’articolo 580 C.P., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni, «chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, se il suicidio avviene» vediamo come il legislatore abbia inteso difendere l’attacco al valore della vita umana anche quando esso sia portato dal soggetto che ne è titolare particolare.
Proprio perché si tratta della difesa oggettiva di un bene al quale l’ordinamento assegna un valore superiore al valore attribuitogli dal singolo che ne è portatore. In altre parole non viene lasciato spazio alla considerazione soggettiva di questi, perché si tratta di un bene che riguarda l’intera comunità e come tale viene tutelato oggettivamente.
La punizione dell’omicidio del consenziente conferma in modo incontrovertibile questa base concettuale, infatti il consenso della vittima non esclude l’omicidio anche se ne attenua la sanzione ad un massimo di quindici anni di reclusione.
Ma ecco che l’irrompere del soggettivismo e del nichilismo adottato da forze diventate culturalmente più prepotenti che dominanti, diventa l’ariete volto a scardinare non soltanto un assetto etico, ma anche il sistema giuridico che dovrebbe concorrere a tenerlo saldo. Perché il diritto, se deve essere tenuto concettualmente distinto dalla morale, ha pur tuttavia una funzione etica fondamentale, e che dovrebbe essere salvaguardata per la tenuta stessa della società.
La locuzione, «suicidio assistito», divenuta corrente, tradisce già l’aggiramento della norma di cui all’articolo 580 che è già stata aggredita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 243 del 2019.
Da questa ha preso le mosse la recente legge regionale toscana, salutata dal governatore Giani, come «un forte messaggio di civiltà».
Non si tratta di negare che il divenire dei tempi comporti mutamenti oggettivi del comune sentire di cui si deve tenere conto. Ma questi mutamenti, che possono interessare aspetti secondari e a volte quasi folcloristici della vita comunitaria, come il sempre fluttuante e frivolo mutare dell’abbigliamento e delle abitudini quotidiane, non ha nulla a che fare con i fondamenti della vita comunitaria. Qui infatti, anche piccole incrinature sono destinate ad allargarsi fino alla distruzione totale di un edificio che è indispensabile tenere saldo per la sopravvivenza di una qualunque società umana civilizzata.
Come nella antica favola del piccolo buco nella diga olandese che il bambino tenta di chiudere col proprio ditino, conscio dell’immane pericolo che da quella falla può derivare. Ma ecco che, e qui entriamo nel vivo del nostro tema, la falla viene prodotta e poi allargata proprio dagli organi che dovrebbero mirare alla salvaguardia del sistema normativo.
E non possiamo non fare riferimento alla Corte Costituzionale, istituita per assicurare l’aderenza delle leggi dello Stato ai principi fondamentali fissati come intangibili dalla Carta Fondamentale.
La Corte ha elaborato nel tempo, in perfetta e intoccabile autonomia, l’autopotenziamento, ovvero lo allargamento dei propri poteri decisori che dal controllo sulla legittimità delle leggi esistenti ha finito per sconfinare, e continua a sconfinare sempre più vistosamente, verso l’appropriazione di poteri sostanzialmente legislativi. Non senza il farisaico e immancabile richiamo alla necessità di un intervento diretto da parte di quel Parlamento al quale risparmia la fatica di legiferare con generosità democraticamente ostentata.
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La Corte Costituzionale come è noto ha elaborato accanto alla tipologia di sentenze previste dalla legge istitutiva, anche le sentenze cosiddette non per nulla «manipolative» con le quali introduce novità normative dichiarandola incostituzionale per quello che non c’è (sentenze additive), cioè quello che ritiene un vuoto illegittimo. Ma anche aggiungendo direttamente qualcosa a quello che c’è (sentenze sostitutive).
Insomma un paradosso che, al di là delle critiche sparse, è stato accettato per quello che è, sicché una invenzione sostanzialmente arbitraria si è trasformata in prassi riconosciuta. Questo a partire dai lontani anni Sessanta del Novecento quando attraverso una sentenza di tal fatta si estesero all’istruzione sommaria del Pubblico Ministero i diritti già garantiti all’imputato nella istruzione formale tenuta dal giudice istruttore, secondo il rito di allora.
Forse la benevolenza con cui fu accolta la trovata della Corte Costituzionale, mise in ombra la finestra che si apriva su una vera e propria usurpazione di potere nei confronti del Parlamento. E oggi sappiamo berne come il principio della separazione dei poteri consacrato da Montesquieu quale antidoto all’arbitrio, sia diventato un superato pezzo di antiquariato nella contemporaneità del caos istituzionale e istituzionalizzato.
Va aggiunto che se la Corte Costituzionale si sostituisce di fatto al Parlamento, pur invocando farisaicamente un suo successivo intervento «riparatore», mostra di fare da cassa di risonanza di istanze provenienti dalla collettività e quindi rappresentative di esigenze profonde e generalizzate. Quando sappiamo che certi orientamenti, enfatizzati dai mezzi di comunicazione e dettati da poteri sovraordinati impegnati ad imporre idee fittizie spesso in conflitto col sentire comune.
Veniamo dunque alla iniziativa legislativa della Regione Toscana, che il governatore ha definito con orgogliosa sicurezza «un forte messaggio di civiltà».
La Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 2019, ha risposto prontamente alle spinte propagandistiche di una ben orchestrata campagna mediatica. Quella che facendo leva non sulla ragione, sull’etica, e tanto meno sulla logica giuridica, punta sulle «emozioni», la nebulosa che ha sostituito il buon senso con il senso comune e che costituisce il grimaldello capace di scardinare il pensiero, le ragioni dell’etica e del diritto, qualunque spazio di trascendenza e di saggezza, anche religiosamente ispirato.
Ma a dispetto di ogni esigenza superiore, oggi le emozioni si comprano e si vendono a buon mercato nella società del consumo di massa, con la Chiesa in ritirata e la incapacità diffusa di guardare filosoficamente e soprattutto razionalmente, al di là della materialità quotidiana e della prospettiva personale.
Questo il terreno favorevole perché il nuovo zeitgeist facesse sentire i giudici della Corte obbligati a forzare il contenuto e il senso della norma penale che fissa e sancisce la indisponibilità della vita umana.
Anche se non si arriva ancora a introdurre norme penali incriminatrici in via di sentenza, dato che vige ancora, bontà loro. Il principio di legalità «nullum crimen sine lege», viene introdotta tuttavia una causa di non punibilità la quale, se sfugge a quel principio, si presenta comunque come una novità introdotta di fatto nel codice penale. «Non è punibile chi agevola l’altrui suicidio se la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».
Poi con la sentenza n.153 del 2024 la Corte ha indicato i soggetti, all’interno delle strutture ospedaliere competenti ad accertare le condizioni capaci di legittimare la condizione di non punibilità dell’aiuto al suicidio, aggirando l’ostacolo di una inaccettabile e sconveniente invasione normativa in campo penale. Insomma, ha stabilito sempre in via surrettizia, che la decisione sull’assistenza al suicidio venga presa in ambito sanitario, affidata alla direzione e al controllo di organi interni alle strutture ospedaliere.
Questa ospedalizzazione dell’aiuto al suicidio è non solo un escamotage per aggirare gli straripamenti di potere, ma anche per aprire la strada, volontariamente o meno, questo non sappiamo, ad interventi «regionali» come quello puntualmente arrivato dalla Regione Toscana, che si sottraggono apparentemente al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Infatti mentre la materia penale è sottratta alle competenze legislative della Regione, la materia sanitaria rientra nelle competenze concorrenti, per cui a determinate condizioni la Regione può legiferare legittimamente e, appunto così ha preteso di fare, applicando tutte le direttive pratiche indicate dalla Corte, circa la procedura per la «assistenza al suicidio».
Ora non va dimenticato a questo proposito come la strada per legittimare questo marchingegno sia stata inaugurata già nel 2009 col caso Englaro, quando sulla scia dell’altrettanto tragica vicenda dell’americana Terri Schiavo, di qualche anno prima, abbiamo assistito impotenti alla uccisione in sede ospedaliera su autorizzazione del giudice di Cassazione.
Il fenomeno si è poi amplificato in con l’esempio inaudito offerto ripetutamente in questi anni dagli ospedali londinesi e dal sistema giudiziario britannico per cui un giudice ha potuto affidare ai «sanitari» il potere di uccidere impunemente bambini di pochi mesi, ritenuti socialmente inutili perché malati, e nella impossibilità imposta ai genitori di sottrarli a quella «condanna a morte».
Doppia inaudita mostruosità, che mentre esibisce il capovolgimento dei valori morali fondamentali, manda al macero secoli di cultura giuridica sbandierata dall’Occidente come propria conquista distintiva.
Una inedita ferocia praticata impunemente in ambiente sterile (sotto ogni punto di vista) e impunemente imposta ad una società che appare ormai lobotomizzata, perché se non lo fosse si ribellerebbe a tante mostruosità.
Perché si renderebbe conto che il trasferimento in ambito ospedaliero del potere di uccidere da parte di una autorità giurisdizionale, rappresenta in modo esemplare proprio quella micidiale confusione e commistione di poteri in cui si consuma il sopravvento di un potere politico emancipato da ogni principio regolatore e da ogni criterio di legittimazione.
Per questo occorre tenere sempre presente il problema del circolo vizioso della legge che in quanto espressione necessaria del potere politico che la pone, è esposta a divenire oggetto del suo arbitrio anche se nasce proprio per sottrarre la società al caos e all’arbitrio. Insomma il pericolo dello abuso del diritto per finalità contrarie a quelle che il diritto è chiamato a perseguire.
Basterebbe ricordare come tra Settecento e Ottocento sulla scia dell’illuminismo si sia formata quella scienza del diritto penale che, occorre ripeterlo, nell’epoca in cui è ancora in auge la tortura, mirava a proteggere il cittadino, attraverso la precisa determinazione dei delitti e delle pene, e le regole per la applicazione della legge, dallo arbitrio del giudice e dall’arbitrio del potere.
In ultima analisi va detto come si venga consolidando di nuovo uno slittamento semantico volto a creare l’ambiente psicologicamente adeguato per l’accettazione diffusa di questa nuova realtà. Infatti non si nomina più neppure il suicidio, ma genericamente il «fine vita» che oscura «la morte inflitta» a sé o ad altri, per coprirla con il mantello eterno e destinale della natura che fa il proprio corso.
L’ennesimo gioco di parole già messo a segno, perché adottato da molti inconsapevolmente, per l’ennesimo oltraggio al diritto come alla natura e alla dignità immutabile dell’uomo. Perché quest’ultima è cosa diversa dal concetto mutevole e variegato che ogni congrega di nichilisti in carriera, cerca di imporre per riempire il vuoto delle proprie idee con il vuoto delle parole senza copertura di un pensiero vitale, l’unico meritevole di essere trasmesso.
In questo quadro va collocato da ultimo per motivi di cronologia, ma di importanza capitale nel l’ambito delle considerazioni espresse sopra, anche il tema della cosiddetta intelligenza artificiale.
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La nuova sirena in breve tempo ha già acquistato il potere di abbacinare le moltitudini che incantate dai suoi prodigi, sono incapaci di guardare al di là delle luci, una enorme voragine già spalancata.
Nel campo della istruzione come del comune sentire, della guerra come della normale vita di relazione, delle capacità cognitive e del normale sviluppo delle maturazioni esistenziali, nella elaborazione del pensiero in generale.
E se torniamo all’argomento specifico di cui qui si è parlato, questo strumento a dir poco allarmante, dovrebbe presentarsi in tutta la sua inquietante forza distruttiva.
Non so se i giudici, il legislatore, i politici o i vari Cappati, si siano posti il problema di come anche la vita e la morte, oltre al tutto il resto, possano essere allegramente affidati ad un o giocattolo perverso del quale si perde il controllo e al quale vengono affidate le chiavi dell’esistenza. Perché è ad esso che domani sarà delegato il potere soprannaturale di decidere, chi, come e quando e fino a quando si può vivere, morire o sopravvivere.
Il gigante è pronto a divorare i suoi figli come negli antichi miti premonitori.
Patrizia Fermani
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