Geopolitica
La Meloni va in Albania a incontrare l’uomo di Soros. E forse anche l’erede di Klaus Schwab
Palazzo Chigi pare non aver dato molte informazioni sul viaggio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Albania.
Le notizie che sono arrivate sono state contraddittorie, e lacunose. Era una visita turistica, poteva sembrare di primo acchito. Poi si è cominciato a vagheggiare di un «buco» di giorni. La comunicazione dello spostamento del premier oltre l’Adriatico dicono sia stata gestita tutta dalla parte albanese, anzi da Edi Rama in persona, sentenzia qualcuno, perché quello che abbiamo visto è stato «il più grande spot dell’Albania di tutti i tempi».
Già: l’Albania non è il Paese da cui forse provengono tante telefonate di inutile telemarketing che interrompono la vostra giornata, e nemmeno la miccia perennemente accesa di una nuova guerra in Kosovo; non è il Paese delle barche dei disperati degli anni Novanta e di certa criminalità, organizzata o meno, di quegli anni (remember Zani). No, l’Albania è dove il nostro premier si prende una pausa di relax, ospite del gentilissimo, sorridente, fotogenico omologo tiranese.
Rama è noto per il videomessaggio in italiano impeccabile con cui annunziava al nostro popolo che avrebbe mandato nell’Italia dei primi mesi di COVID nel 2020 un gruppo di medici albanesi. Come ricordano le cronache, non finì bene: i dottori inviati generosamente da Tirana furono trovati ubriachi a fare festa in hotel dalle forze dell’ordine, un piccolo incidente nel percorso della guarigione del Paese dal morbo cinese.
Ora Rama torna sul palco della grande stampa mainstream italica: dà intervista a destra e a manca, definisce Giorgia «un’amica», minimizza le differenze politiche tra destra e sinistra («siamo nel 2023), racconta di averla ospitata nella sua residenza, di aver cenato unendo le due famiglie, garantisce per la bontà della leader della Garbatella.
A questo punto, è giusto ricordare al lettore chi è Edvin Kristaq Rama.
Altissimo ex giocatore di basket, pittore, scrittore, cattedratico, Rama ha una lunga, densa carriera alle spalle – e, come evidente, non è ancora finita. Già sindaco di Tirana con vittoria schiacciante, nei primi anni 2000 si prende anche il Partito Socialista d’Albania, succedendo a Fatos Nano. Sta qualche anno all’opposizione del Partito Democratico di Albania di Sali Berisha, poi mel 2013 diviene premier, coprendo anche il ruolo di «ministro per l’Europa e gli affari esteri».
E gli affari esteri di fatto vanno bene: lo fanno presidente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OCSE) tra il 2020 e il 2021. Attualmente fa parte del board consultivo dell’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.
Soprattutto, Edi Rama è noto per la sua prossimità con un nome che dice tanto, tantissimo: anzi, come lo ha definito qualcuno «l’unico uomo al mondo ad avere una sua propria politica estera»: George Soros.
Non è un mistero: Rama è stato nel direttivo della celebre Open Society Foundations, l’ente «filantrocapitalista» del discusso finanziere speculatore internazionale George Soros. Il premier albanese era anche uno degli invitati all’esclusivissima festa per il terzo matrimonio di Soros nel 2013, la cui lista degli invitati era praticamente una mappa dei personaggi mondialisti ficcati nella politica di ogni Paese possibile – più Bono Vox, ovviamente.
A quanto dicono, Edi avrebbe un bel rapporto anche con Alex Soros, l’erede designato dell’impero umanitario dello speculatore, che sta tuttavia abbandonando l’Europa («missione compiuta»?) e licenziando il 40% della forza lavoro – magari con benedizione dell’ONG più coriacea, quella del papa, che lo ha ricevuto poche settimane fa con Bill Clinton, che nonostante lo scandalo Epstein e le sue allucinanti ramificazioni si fa ancora vedere in circolazione.
Ma non ci sono solo i Soros nel mondo di Rama. Gli USA sono una presenza costante nell’Albania di questi decenni, e sembrano particolarmente affezionati a Rama.
Nel maggio 2021, il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva annunciato una serie di sanzioni nei confronti del grande rivale di Rama, Sali Berisha, per «atti corrotti» che «hanno minato la democrazia in Albania». Il linguaggio qui è assai riconoscibile.
L’odore di zio Sam a Tirana è tale che il Paese ha problemi con gli iraniani: sia cioè con la Repubblica Islamica (con supposto attacco hacker ed incidente diplomatico) sia con l’organizzazione, solitamente molto supportata dagli americani, che è nemica giurata degli ayatollah, il MEK, che pure era ospitato anche dagli albanesi.
Ricordiamo quindi un’altra cifra americana che passa per Tirana. Nella mappa della Terza Guerra Mondiale, che passa per l’Ucraina, Taiwan e il Niger, sappiamo che un pezzo non indifferente potrebbe toccare proprio vicino a noi: il Kosovo.
E da che parte può stare Edi Rama nella questione della costruzione di uno Stato satellite albanese (quindi, americano), in terra serba? Possiamo dire che sappiamo, quantomeno, come potrebbe pensarla suo fratello.
Torniamo ad uno scandalo balcanico-calcistico forse dimenticato, ma tanto rivelatore dell’ottobre 2014. A Belgrado si giocava la partita di qualificazione per gli Europei 2016 Serbia-Albania. A cinquanta minuti dal fischio di inizio, entra in campo un drone con issata una bandiera albanese con la scritta Kosovo Libero e una mappa in cui l’Albania si mangia quella parte della Serbia.
È la bandiera di quella che chiamano la «Grande Albania».
Il giocatore serbo Stefan Mitrovic acciuffa il drone e la bandiera. Su di lui quindi si avventano due giocatori albanesi: è rissa. Entrano in campo i tifosi locali, che non vanno per il sottile: lo stadio in cui si gioca è quello del Partizan Belgrado. La partita viene fermata una volta per tutte.
Viene arrestato subito Orfi Rama, il fratello di Edi, presente in tribuna VIP: lo accusano di essere l’organizzatore della scenata. Quaranta minuti dopo lo rilasciano. A Pristina, capitale dello staterello albanese leader nel traffico d’organi e nel numero di miliziani ISIS pro-capite, si era nel frattempo scatenata la festa: «Albania, Albania» grida la gente scesa in strada, tra petardi e cori.
Il ministro degli Esteri servo dell’epoca, Ivica Dacic, dichiarò che si trattava di una «provocazione politica premeditata». È chiarissimo che tale grande pagliacciata, che reca seco enormi rischi geopolitici e umani, è fatta da qualcuno che sente di avere le spalle coperte.
Quindi, ecco chi ha visitato Giorgia nelle ultime ore – rammentando che è quella che ora abbraccia Biden con occhio dolce e gli ubbidisce supinamente. Sì, è la stessa che andava oltreoceano a prendersi gli applausi ai CPAC repubblicani, cioè di chi in larga parte non crede nemmeno che il vegliardo demente del Delaware, l’uomo che ci sta portando verso l’abisso atomico, sia il legittimo presidente.
Giorgia è quella che toglie all’Italia armi, carri e missili (difficilmente sostituibili, magari, come i SAMP-T) su ordine della Casa Bianca, per darli alla banda di Kiev.
E quindi, da che parte ci aspettiamo starà il governo italiano, quando riscoppierà la guerra in Kosovo? In parte, la risposta l’abbiamo già avuta quando la Meloni tuonò contro il ferimento di nostri soldati della forza di pace durante manifestazioni in loco tre mesi fa.
La domanda da farsi, quindi, è: anche di questo hanno parlato i due premier in questi giorni? L’Italia è già automaticamente schierata, per ordine americano, per l’Albania e contro la Serbia, come con il governo D’Alema nel 1999?
Non sono questioni da poco.
Tuttavia, potrebbe non essere tutto. Qualche giornalista tira fuori l’idea: non è che la Meloni, nel misterioso viaggio albanese, ha visto anche Tony Blair?
L’ex premier britannico di fatto era in Albania, proprio ospite dell’amico Edi Rama, negli stessi momenti. Rama, che si dilunga in sperticate lodi anche per lo scozzese, dice che no, Tony e Giorgia non si sono visti, perché Blair è partito per il Medio Oriente il mattino presto, Giorgia, dice, sarebbe arrivata dopo.
Gli crediamo oppure no, la possibilità va comunque esplorata, per il significato che assumerebbe: Tony Blair, divenuto dopo gli anni a Downing Street una sorta di agente mondialista che traffica ovunque, è stato da alcuni indicato come possibile successore di Klaus Schwab al World Economic Forum.
La notizia può sembrare esagerata, tuttavia Davos o meno, il Blair in questi anni non ha perso tempo per annunciare la bontà di sistemi di tracciamento continuo degli esseri umani. Come riportato all’epoca da Renovatio 21, Blair aveva iniziato due anni fa a parlare di microchip per identificare i cittadini e tracciare il loro «stato di malattia» poi ha continuato dichiarando che i passaporti vaccinali sono «inevitabili». In pratica, un apostolo del green pass globale ed eterno.
En passant, segnaliamo suoi discorsi nel corso dell’ultimo anno in cui in scioltezza parlava dell’uso delle atomiche occidentali nel conflitto russo-ucraino, cioè tra l’Occidente e l’Ucraina.
Lo abbia incontrato o meno, la Meloni è da quella parte della storia che si sta mettendo: lo dimostra la sua firma, a Bali, per il passaporto vaccinale digitale internazionale, o gli abbracci a Zelens’kyj, a Roma, a Kiev e – molto in tema – ad Hiroshima.
Noi avevamo già dato ai lettori altri puntini da unire, per esempio il plateale, vergognoso inchino a Moloch: prima cosa da fare quando eletti, dichiarare che non si toccherà l’aborto.
Oppure gli imbarazzi sull’immigrazione, cioè la sostituzione etnica, concetto non più nominabile nemmeno da un partito e da un governo di destra.
Oppure l’assist alla Corte Costituzionale sull’obbligo vaccinale: Renovatio 21 vi disse immediatamente di cosa si trattava.
Da un governo che si prende come ministro della Sanità un tizio del Comitato Tecnico-scientifico che ci ha chiuso in casa e costretti alla vaccinazione mRNA, cosa volevate aspettarvi?
Accusano la Meloni, bonariamente, di essere divenuta democristiana, dicono che sogna di prendere il posto della Merkel negli equilibri europei.
La DC, lo sappiamo, è il partito che ha spalancato le porte dell’Inferno su questo Paese. Compromesso dopo compromesso, l’Italia è divenuta, degradata nella morale e nella materia, la catastrofe che è sotto i nostri occhi, un pericolo mortale, fatto di anarco-tirannia e terapie geniche forzate, per il futuro dei nostri figli.
Ora abbiamo un potere democristiano che non deve nemmeno più dirsi tale, liberandosi per sempre della finzione «democratica» e «cristiana».
E un potere che non è democratico, e non è cristiano, come volete chiamarlo?
Roberto Dal Bosco
Immagine screenshot da YouTube
Geopolitica
Le parole di Putin sul rischio della guerra
In un viaggio a San Pietroburgo del 12 settembre, il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato un avvertimento all’Occidente riguardo all’uso di missili a lungo raggio per colpire in profondità la Russia. Renovatio 21 riporta qui le sue parole esatte traducendo dal sito del Cremlino, dove la dichiarazione, posta da un giornalista, è stata pubblicata nella sua interezza – a sottolineare che non si tratta di parole al vento, ma di un vero avvertimento alla NATO, una linea rossa tracciata pubblicamente, oltre la quale con probabilità c’è la Terza Guerra Mondiale.
Domanda: negli ultimi giorni abbiamo sentito dichiarazioni ad altissimo livello nel Regno Unito e negli Stati Uniti secondo cui al regime di Kiev sarà consentito colpire obiettivi all’interno della Russia utilizzando armi occidentali a lungo raggio. A quanto pare, questa decisione sta per essere presa o, per quanto possiamo vedere, è già stata presa. Questo è in realtà abbastanza straordinario. Potrebbe commentare cosa sta succedendo?
Risposta del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin: Ciò a cui stiamo assistendo è un tentativo di sostituire le nozioni. Perché la questione non è se al regime di Kiev sia consentito o meno di colpire obiettivi sul territorio russo. Sta già effettuando attacchi utilizzando veicoli aerei senza pilota e altri mezzi. Ma usare armi di precisione a lungo raggio di fabbricazione occidentale è una storia completamente diversa.
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Il fatto è che – ne ho parlato e qualsiasi esperto sia nel nostro Paese che in Occidente lo confermerà – l’esercito ucraino non è in grado di utilizzare i sistemi a lungo raggio all’avanguardia e ad alta precisione forniti dall’Occidente. Non possono farlo. Queste armi sono impossibili da utilizzare senza i dati di intelligence provenienti dai satelliti di cui l’Ucraina non dispone. Ciò può essere fatto solo utilizzando i satelliti dell’Unione Europea o quelli degli Stati Uniti, in generale i satelliti della NATO. Questo è il primo punto.
Il secondo punto, forse il più importante, addirittura il punto chiave, è che solo il personale militare della NATO può assegnare missioni di volo a questi sistemi missilistici. I militari ucraini non possono farlo. Pertanto, non si tratta di consentire al regime ucraino di colpire o meno la Russia con queste armi. Si tratta di decidere se i Paesi della NATO saranno direttamente coinvolti nel conflitto militare oppure no.
Se questa decisione verrà presa, significherà niente meno che un coinvolgimento diretto: significherà che i paesi della NATO, gli Stati Uniti e i Paesi europei saranno parti della guerra in Ucraina.
Ciò significherà il loro coinvolgimento diretto nel conflitto e cambierà chiaramente l’essenza stessa, la natura stessa del conflitto in modo drammatico.
Ciò significherà che i paesi della NATO – gli Stati Uniti e i Paesi europei – sono in guerra con la Russia. E se questo è il caso, allora, tenendo presente il cambiamento nell’essenza del conflitto, prenderemo le decisioni appropriate in risposta alle minacce che ci verranno poste.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
Geopolitica
Tremendo avvertimento di Putin alla NATO: guerra imminente?
‼️🇷🇺🏴☠️ President’s Response on the Potential Use of NATO Long-Range Weapons Against Russia
“This would mean that NATO countries, the United States, and European nations are at war with Russia. And if that is the case, considering the fundamental shift in the nature of this… pic.twitter.com/UO03dRUl44 — Zlatti71 (@Zlatti_71) September 12, 2024
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Geopolitica
L’Armenia offre un accordo di pace all’Azerbaigian
Il governo armeno si è offerto di firmare un accordo di pace di 16 articoli con l’Azerbaigian, ha annunciato mercoledì il primo ministro Nikol Pashinyan durante una sessione parlamentare.
Secondo il leader armeno, Yerevan e Baku non possono attualmente firmare un trattato che risolverebbe tutti i problemi tra i due paesi. Invece, ha proposto di firmare un accordo che coprirebbe aree su cui le due parti hanno già concordato.
L’offerta di Pashinyan arriva dopo mesi di colloqui tra Armenia e Azerbaigian in seguito all’escalation del conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh e al ritiro armeno da essa l’anno scorso. Le due parti sono state in disaccordo per decenni sul controllo del territorio conteso e sono state coinvolte in una serie di sanguinosi conflitti per il suo controllo.
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Prevalentemente popolata da armeni etnici, la regione era in precedenza sotto il controllo de facto di Yerevan. Tuttavia, nel 2023, Baku lanciò un’offensiva su larga scala e prese il controllo del territorio, sciogliendo in seguito l’autoproclamata Repubblica del Nagorno Karabakh. La maggior parte degli armeni che vivevano nella regione fuggì in seguito.
Da allora, Yerevan e Baku hanno tentato di raggiungere un accordo di pace conclusivo.
Durante una visita a Baku il mese scorso, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca è pronta a svolgere un ruolo nel contribuire a risolvere l’annosa faida tra i due Paesi.
«Se potessimo fare qualcosa per facilitare la firma di un accordo di pace tra Azerbaigian e Armenia, per avvicinare la questione alla delimitazione e alla demarcazione del confine, per sbloccare… la logistica e l’economia, saremmo molto felici di farlo», ha detto il leader russo ai giornalisti.
Come riportato da Renovatio 21, in questi mesi tra i due Paesi sono continuate le tensioni.
Come riportato da Renovatio 21, l’esodo degli armeni dell’Artsakh (così chiamano l’area del Nagorno-Karabakh) a seguito dell’invasione nell’énclave delle forze azere arriverebbe a contare 100 mila persone, in una zona dove la popolazione armena ha un numero di poco superiore. Le immagini del corridoio di Lachin intasato da vetture di famiglie che fuggono sono a dir poco impressionanti.
Il primo ministro Pashinyan, cedendo alle lusinghe dell’Ovest, ha irritato giocoforza la Russia, che è l’unico Paese che si era impegnato davvero per la pace nell’area. Mosca non può aver preso bene né le esercitazioni congiunte con i militari americani (specie considerando che Yerevan aderisce al CSTO, il «Patto di Varsavia» dei Paesi ex sovietici) né l’adesione dell’Armenia alla Corte Penale Internazionale, che vuole processare Putin.
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Bisogna aggiungere anche i rapporti dell’Occidente con Baku, considerato un fornitore energetico affidabile e ora piuttosto necessario all’Europa privata del gas russo. L’Azerbaigian è una delle ex repubbliche sovietiche ritenute più strategicamente vicine all’Occidente: si consideri inoltre le frizioni con l’Iran e quindi il ruolo nel contenimento degli Ayatollah.
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi è morto in un incidente di elicottero a seguito di un incontro al confine con il presidente azero Aliyev.
Dietro all’Azerbaigian vi è l’appoggio sfacciato della Turchia e, si dice, quello militare-tecnologico di Israele. È stato detto che la Turchia avrebbe impiegato nell’area migliaia di mercenari siriani ISIS per combattere contro i cristiani armeni.
Come riportato da Renovatio 21, il clan Erdogan farebbe affari milionari in Nagorno-Karabakh e la Turchia, come noto, è già stata accusata di genocidio per il massacro degli armeni ad inizio Novecento.
Baku invece accusa la Francia di essere responsabile dei nuovi conflitti con l’Armenia. Il dissidio tra i due Paesi è arrivato al punto che il ministro degli interni di Parigi ha accusato l’Azerbaigian di aver avuto un ruolo nelle recenti rivolte in Nuova Caledonia.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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