Pensiero
Rapture mRNA

Facciamo un racconto di fantasia. Facciamoci un piccolo film.
L’altra sera, mentre lavoravo, arriva il messaggino di un’amica.
«E comunque io sono più inquieta ora dell’anno scorso. Prima ti tenevano lontano perché avevano paura (una paura idiota, ma pur sempre paura); ora ti odiano, perché sanno di essere stati degli imbecilli mentre tu hai resistito e hai avuto ragione. È odio allo stato puro».
È tardi, e durante il giorno non c’eravamo sentiti. Quindi deve essere una cosa, come dire, meditata, sentita nel profondo.
Io ostento sicumera.
«Stai tranquilla, non succede nulla. A parte le morti a raffica».
Proseguo.
«È facile che chi ti odia muoia senza che tu abbia il tempo di augurarglielo».
Infine mando un altro messaggio con un consiglio: metti un gregoriano bordone in sottofondo e non pensarci più.
La realtà è che, nell’ora successiva, quello inquietato sono diventato io. Stanno morendo in quantità indicibili. Serque, branchi, sciami. Non è chiaro se statisticamente riusciranno ad insabbiare, anche perché stanno cascando a terra stecchiti ovunque, e in pubblico, in diretta TV: nei campi di calcio, nei teatri, alle maratone, in televisione, ai concerti.
Ho negli occhi le immagini messe in fila dal documentario Died Suddenly, di cui Renovatio 21 vi ha parlato pochi giorni fa. In particolare, ci inquieta quella strana danza che precede gli attacchi: i malcapitati alzano un braccio verso il cielo, cominciano a girare su stessi avvitandosi, poi cadono a terra, tra qualche convulsione – oppure, come si vede nel film, magari finiscono sotto le rotaie della metropolitana…
Li avete visti?
Sempre dallo stesso documentario, non posso a non pensare ai calamari, che per la prima volta vediamo estratti a favor di telecamere, tentacoli fibrosi (attenzione: non sono coaguli di sangue) lunghi anche un metro, che crescono dentro di noi, perfino attorno al cuore (si vede anche quello…).
Li avete visti?
Sì, ci stanno uccidendo. Sì, è un progetto di depopolazione mondiale. È mio diritto pensarlo. È mio dovere pensarlo.
Ci ritroveremo in un mondo in cui sono spariti tutti. Le strade vuote. Le piazze vuote. Le case vuote. Sto pensando a quanto ho visto in una bella serie recente vista in streaming, The Peripheral (in italiano Inverso), tratta da un romanzo di William Gibson: viene mostrata una Londra sopravvissuta a disastri eco-nuclear-pandemici multipli, quindi depopolata, dove tuttavia è rimasta una parvenza di ordine sociale, perfino di agio, tra tecnologia di controllo e crudeltà delle autorità. I sopravvissuti, algidi e eleganti, proiettano ologrammi di persone che passeggiano per il lungo Tamigi deserto, famigliole, coppiette, come quelle che si vedono la domenica – lo fanno, ovviamente, per ingannare il proprio cervello riguardo alla loro solitudine, che non può essere curata da nessun androide, per quanto perfettamente realizzato esso sia.
L’iniezione di mRNA su tutto il pianeta lo svuoterà a questo punto? Dobbiamo abituarci all’idea di veder sparire per malori improvvisi così tante persone che conosciamo?
Qui mi viene in mente un’altra cosa, il Rapture. È un concetto escatologico sconosciuto a cattolici, ortodossi e perfino anglicani, ma molto vivo tra battisti e pentecostali americani: al liminare dell’apocalisse vi sarà un «rapimento» – Rapture in inglese – come annunciato dalla prima lettera ai Tessalonicesi:
«Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Tes 4,17)
Orde di evangelici americani credono quindi in un evento in cui i credenti in Cristo verranno «rapiti» in cielo lasciando sulla terra il resto dell’umanità che dovrà invece affrontare le tribolazioni di cui parla l’Apocalisse di San Giovanni.
L’idea, che è ben presente nell’America fondamentalista, da noi è conosciuta solo tramite film e cultura popolare prodotti sull’argomento. C’è una serie di romanzi, vendutissimi, che tratta esattamente di questo. Si chiama Left Behind, e descrive questo mondo dove d’improvviso milioni di persone spariscono, lasciando lì solo i vestiti (compresi piloti d’aereo che stanno guidando un Jumbo con centinaia di passeggeri). L’Anticristo, nella storia, è un funzionario ONU di origine romena, che considerato un santo umanitario dalla popolazione, riesce a mettere in piedi un governo mondiale – quello predetto nella rivelazione.
Dei romanzi Left Behind hanno tentato di fare dei film. Una serie di tre film di una ventina di anni fa con Kirk Cameron, il ragazzo belloccio della sit-com Genitori in Blue Jeans, che nel frattempo è diventato stempiato e fondamentalista protestante. La qualità si dirada, la credibilità pure. Ecco che, immaginiamo con capitale protestante, hanno rebootato la serie cinematografica con protagonista Nicholas Coppola, conosciuto come Nicholas Cage, il quale è in eterna bancarotta quindi ogni tanto fa dei film, diciamo così, alimentari.
In verità, il Rapture non è un concetto che si relega alla sottocultura. Nel 1991 sull’argomento ci fece un film il regista intellettuale Michael Tolkin (Sacrificio finale, in italiano; in originale si chiama invece proprio Rapture), ed è una visione abbastanza sconvolgente. In anni recenti hanno poi provato a riformattare la Rapture per il pubblico secolare millennial, con la HBO, canale che produce zozzerie e Finestre di Overton ammille, che ci ha imbastito un serial cerebrale e sentimentale, enigmatico fino allo schifo, che si chiama Leftovers, dove dall’evento di sparizione improvvisa di gran parte dell’umanità viene sottratta ogni possibile radice religiosa e soprannaturale.
Ecco. La gente sparisce. Forse che la gente sparirà fino a che interi Paesi saranno evacuati?
La gente che se ne va, andranno «incontro al Signore nell’aria»? Difficile che ve lo diciamo noi, che da più di un lustro, da prima della pandemia, abbiamo strillato in tutti i modi che i sieri contengono pezzi di sacrificio umano, al punto che su queste colonne abbiamo chiamato ripetutamente il vaccino come «Battesimo di Satana».
E quindi, noi che restiamo… perché siamo ancora qui?
Riformuliamo: com’è possibile che ci lascino stare, dopo che potrebbero aver lanciato un genocidio del popolo degli obbedienti?
Uno pensa: magari arriva il momento in cui davvero iniziano a morire in massa, come dice qualche complottista, come in una Rapture mRNA. E noi, che facciamo?
Potrebbe essere che ci tocca una situazione stile L’alba dei morti viventi, con i sopravvissuti che vanno a vivere nei centri commerciali, e, in pochi, tirano avanti nel tempo con le abbondanti risorse lasciate dalla catastrofe umana.
Oppure potrebbe toccarci una situazione stile I figli degli uomini (libro e film troppo poco citati in un momento in cui quantità spaventose di donne hanno il ciclo alterato) in cui, nel mondo biologicamente collassato, tra i sopravvissuti esiste una parvenza di ordine, tenuto dall’autorità con violenza pervasiva, ma dove a nessuno importa più nulla, né del lavoro, né delle relazioni, né di vivere.
E allora, spingiamo ancora un po’ in là la fantasia. E ricordiamoci che in un mondo spopolato, coloro che hanno programmato il processo di morte mondiale saranno ancora vivi e reclameranno il pianeta.
Quindi, la presenza di noi scampati al grande apocalittico rapimento mRNA programmato, è un fastidio da non poco.
Cosa sarà di noi?
Beh, non è immaginazione se vi diciamo che potrebbero scatenarci dietro dei robot killer. Voi sapete che la cosa è già realtà – istituzionale – in varie parti del mondo. Robocani o carrarmati, aerei militari, androidi assassini bipedi o droni slaughterbots: basta che vi diano la caccia.
Oppure, potrebbero farci altro?
Potrebbero, chessò, oscurarci il sole, magari dopo averci fatto convertire tutti al fotovoltaico?
Potrebbero far uscire un nuovo virus chimerico, magari un Ebola a lungo rilascio, così da sterminare noi ultimi?
Tutto questo, chiaro, sempre che in realtà non siamo anche noi già stati vaccinati anche senza siringa, come sta cominciando a temere qualcuno: mRNA che si propaga per via area, ho sentito dire ad un dottore in un video che sta impazzando nelle chat. Non crediamo sia possibile. Tuttavia, lo abbiamo scritto più volte qui: l’idea dei «vaccini autopropaganti» c’è eccome. E gli esperimenti in materia, pure.
Quindi, schiatteremo anche noi, così, di botto, per il malore diffuso?
Oppure, come si vede in altri film fantastici – Predator, The Hunt, o il classicone dell’ignoranza anni Ottanta American Ninja – ci lasceranno in giro per darci la caccia per spirito venatorio?
Non sappiamo. Sappiamo però una cosa, che il nostro Paese, il nostro mondo, la nostra casa, il nostro corpo non ci appartengono più.
Davanti alla distruzione della nostra libertà e della nostra stessa esistenza non posso che tornare a pensare alla Parola del Signore.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. (…)
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. (…)
Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono.
Queste parole dovrebbero ricordarle anche i nostri nemici. Perché nonostante il massacro e l’afflizione, nonostante la tortura e l’orrore, nonostante la prepotenza e la crudeltà, il loro fallimento è certo.
Nel momento del giudizio, essi non saranno rapiti in cielo per essere risparmiati: anzi, è molto facile che prima dovranno rispondere alla giustizia terrena – dovranno rispondere a noi. E non siamo sicuri che ci troveranno di buon umore.
Diremo allora che il film è finito.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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