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Geopolitica

Il crollo di Israele e degli Stati Uniti

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Per la prima volta il mondo assiste in diretta, in televisione, a un crimine contro l’umanità. Gli Stati Uniti e Israele, che da tempo hanno legato i propri destini, saranno ritenuti entrambi responsabili dei massacri di massa a Gaza. Gli alleati di Washington, tranne l’Europa, richiamano gli ambasciatori da Tel Aviv. Domani li richiameranno anche da Washington. Si ripete quanto accadde con lo smembramento dell’URSS e l’esito sarà il medesimo: è minacciata l’esistenza stessa dell’Impero americano. Il processo innescato non potrà essere fermato.

 

Con gli occhi inchiodati sui massacri di civili in Israele e a Gaza, non ci accorgiamo delle divisioni interne in Israele e negli Stati Uniti, né degli importanti cambiamenti che questo dramma sta provocando nel mondo. Per la prima volta nella Storia si uccidono civili in massa e in diretta tv.

 

Ovunque — tranne che in Europa — ebrei e arabi si uniscono per gridare il loro dolore e invocare la pace.

 

Ovunque le popolazioni si rendono conto che questo genocidio non sarebbe possibile se gli Stati Uniti non ripristinassero in tempo reale gli arsenali di Israele.

 

Ovunque gli Stati richiamano gli ambasciatori da Tel Aviv e cominciano a chiedersi se non sarebbe opportuno richiamarli anche da Washington.

 

Inutile dire che gli Stati Uniti hanno accettato a malincuore questo spettacolo, tuttavia non si sono limitati ad autorizzarlo, l’hanno reso possibile con sovvenzioni e armi. Dopo la sconfitta in Siria, la sconfitta in Ucraina e forse quella in Palestina, temono di perdere il Potere: se le armi dell’Impero non fanno più paura quale Paese continuerà a fare transazioni in dollari invece che nella propria moneta? E allora come potrà Washington continuare ad addossare ad altri i costi della sua politica? Come potranno gli statunitensi mantenere il proprio tenore di vita?

 

Ma cosa accadrà alla fine di questa storia? Quale sarà l’esito nel caso il Medio Oriente si ribellasse o Israele schiacciasse Hamas al prezzo di decine di migliaia di vite?

 

Ci si ricordi che in un primo tempo il presidente Biden aveva ingiunto a Israele di rinunciare all’ipotesi di evacuare in Egitto la popolazione di Gaza o, in alternativa, di cancellare il popolo palestinese dalla faccia della Terra; ci si ricordi anche che Tel Aviv non gli ha obbedito.

 

Gli «ebrei suprematisti» si stanno comportando come nel 1948. Quando all’epoca le Nazioni Unite votarono la creazione di due Stati federati in Palestina, ebraico e arabo, le forze armate ebraiche autoproclamarono lo Stato d’Israele prima che le sue frontiere venissero definite. Gli «ebrei suprematisti» espulsero immediatamente milioni di palestinesi dalla loro terra (la Nakhba) e uccisero il rappresentante speciale dell’Onu per la costituzione dello Stato palestinese. Le forze armate dei sette Paesi arabi che cercarono di opporsi (Arabia Saudita, Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Siria e Yemen del Nord) furono rapidamente spazzate via.

 

Anche oggi gli «ebrei suprematisti» non obbediscono ai loro protettori: massacrano di nuovo, senza rendersi conto che questa volta il mondo li osserva e che nessuno correrà in loro soccorso. In un momento in cui gli sciiti ammettono il principio di uno Stato ebraico, la follia dei suprematisti ne mette in pericolo l’esistenza stesa.

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Rammentiamoci di come avvenne il crollo dell’Unione Sovietica. Lo Stato non fu capace di proteggere la popolazione durante un avvenimento catastrofico: 4.000 sovietici morirono alla centrale nucleare di Chernobyl (1986), salvando i loro connazionali. I sopravvissuti iniziarono a chiedersi per quale ragione continuare ad accettare, a 69 anni dalla Rivoluzione di Ottobre, un regime autoritario.

 

Il Primo segretario del PCUS, Mikhail Gorbaciov, modificò la Costituzione per estromettere la vecchia guardia del Partito. Ma le riforme non bastarono: l’incendio si propagò in Azerbaijan, Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia. Il sollevamento dei Giovani comunisti della Germania orientale portò alla caduta del Muro di Berlino (1989). Con la disgregazione del Potere a Mosca cessarono gli aiuti agli alleati, tra cui Cuba (1990). Infine si dissolse il Patto di Varsavia e l’Unione si disgregò (1991). Un Impero ritenuto eterno è imploso in poco più di cinque anni.

 

Lo stesso ineluttabile processo è iniziato per l’«Impero americano». Il problema non è fin dove si spingeranno i «sionisti revisionisti» di Benjamin Netanyahu, ma fino a che punto gli imperialisti statunitensi li sosterranno. Quale sarà il momento in cui Washington riterrà meno conveniente lasciare massacrare i civili palestinesi che mettere in riga i dirigenti israeliani?

 

L’«Impero americano» deve fare i conti con lo stesso problema in Ucraina. La controffensiva militare del governo di Volodymyr Zelensky è stata un fallimento. Ora la Russia non mira più a distruggere le armi ucraine, che sono immediatamente sostituite da quelle inviate da Washington, ma a uccidere i soldati che le usano. Le forze armate russe agiscono come una gigantesca macchina trituratrice che, lentamente e inesorabilmente, uccide tutti i soldati ucraini che si avvicinano alle linee di difesa russe. Kiev non riesce più a mobilitare nuove leve e i soldati si rifiutano di obbedire a ordini che li condannano a morte certa. Gli ufficiali non hanno altra scelta che fucilare i pacifisti.

 

Già molti leader statunitensi, ucraini e israeliani parlano di rimpiazzare la coalizione «nazionalista integralista» ucraina e la coalizione «suprematista ebraica», ma il periodo di guerra non è propizio. Tuttavia presto sarà inevitabile.

 

Il presidente Joe Biden deve sostituire la marionetta ucraina e i barbari alleati israeliani, come il Primo segretario Mikhail Gorbaciov dovette sostituire l’insensibile rappresentante in Kazakistan, aprendo la strada alla generalizzazione della contestazione dei dirigenti corrotti.

 

Quando Zelensky e Netanyahu saranno destituiti, ciascuno saprà che è possibile ottenere la testa di un rappresentante di Washington; ogni rappresentante di Washington saprà a sua volta che è bene fuggire prima di venire sacrificato.

 

Questo processo è non solo ineluttabile, ma anche inesorabile. Il presidente Biden può rallentarlo, protrarlo, ma non fermarlo.

 

Le popolazioni e le classi dirigenti occidentali devono prendere subito l’iniziativa per uscire da questo vespaio prima di venire abbandonati, come fece Cuba pagando il prezzo delle pesanti privazioni del «periodo speciale».

 

È urgente: gli ultimi a reagire pagheranno il conto per tutti. Già ora molti Stati del «resto del mondo» fuggono. Si mettono in coda per entrare nei BRICS o nell’Organizzazione di cooperazione di Shangai.

 

Più ancora della Russia, che dovette separarsi dagli Stati baltici, gli Stati Uniti devono prepararsi a sollevamenti interni. Quando Washington non riuscirà più a imporre il dollaro negli scambi internazionali e il tenore di vita degli statunitensi crollerà, le regioni povere si rifiuteranno di obbedire, mentre quelle ricche si dichiareranno indipendenti, a cominciare dal Texas e dalla California (gli unici Stati che, secondo i Trattati, ne hanno facoltà legale) (1).

 

È probabile che dalla frantumazione degli USA nasca una guerra civile.

 

La sparizione degli Stati Uniti provocherà la sparizione della Nato e dell’Unione Europea. Germania, Francia e Regno Unito dovranno fare i conti con le vecchie rivalità, che non seppero affrontare a suo tempo.

 

In qualche anno Israele e l’Impero americano spariranno. Chi tenterà di resistere al corso della Storia provocherà guerre e un gran numero di inutili morti.

 

Thierry Meyssan

 

NOTE

1) «Negli USA la guerra civile diventa inevitabile», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 15 dicembre 2020.

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

Fonte: «Il crollo di Israele e degli Stati Uniti», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 14 novembre 2023.

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Immagine di U.S. Embassy Tel Aviv via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

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Geopolitica

Le truppe americane lasceranno il Ciad

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Pochi giorni dopo l’annuncio da parte dell’amministrazione americana che più di 1.000 militari americani avrebbero lasciato il Niger, Paese dell’Africa occidentale nei prossimi mesi, il Pentagono ha annunciato che ritirerà le sue 75 forze per le operazioni speciali dal vicino Ciad, già la prossima settimana. Lo riporta il New York Times.   La decisione di ritirare circa 75 membri del personale delle forze speciali dell’esercito che lavorano a Ndjamena, la capitale del Ciad, arriva pochi giorni dopo che l’amministrazione Biden aveva dichiarato che avrebbe ritirato più di 1.000 militari statunitensi dal Niger nei prossimi mesi.   Il Pentagono è costretto a ritirare le truppe in risposta alle richieste dei governi africani di rinegoziare le regole e le condizioni in cui il personale militare statunitense può operare.   Entrambi i paesi vogliono condizioni che favoriscano meglio i loro interessi, dicono gli analisti. La decisione di ritirarsi dal Niger è definitiva, ma i funzionari statunitensi hanno affermato di sperare di riprendere i colloqui sulla cooperazione in materia di sicurezza dopo le elezioni in Ciad del 6 maggio.   «La partenza dei consiglieri militari statunitensi in entrambi i paesi avviene nel momento in cui il Niger, così come il Mali e il Burkina Faso, si stanno allontanando da anni di cooperazione con gli Stati Uniti e stanno formando partenariati con la Russia – o almeno esplorando legami di sicurezza più stretti con Mosca» scrive il giornale neoeboraceno.

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L’imminente partenza dei consiglieri militari statunitensi dal Ciad, una vasta nazione desertica al crocevia del continente, è stata provocata da una lettera del governo ciadiano di questo mese che gli Stati Uniti hanno visto come una minaccia di porre fine a un importante accordo di sicurezza con Washington.   La lettera è stata inviata all’addetto alla difesa americano e non ordinava direttamente alle forze armate statunitensi di lasciare il Ciad, ma individuava una task force per le operazioni speciali che opera da una base militare ciadiana nella capitale e funge da importante hub per il coordinamento delle operazioni militari statunitensi. missioni di addestramento e consulenza militare nella regione.   Circa 75 berretti verdi del 20° gruppo delle forze speciali, un’unità della Guardia nazionale dell’Alabama, prestano servizio nella task force. Altro personale militare americano lavora nell’ambasciata o in diversi incarichi di consulenza e non è influenzato dalla decisione di ritirarsi, hanno detto i funzionari.   La lettera ha colto di sorpresa e perplessi diplomatici e ufficiali militari americani. È stata inviata dal capo dello staff aereo del Ciad, Idriss Amine; digitato in francese, una delle lingue ufficiali del Ciad; e scritto sulla carta intestata ufficiale del generale Amine. Non è stata inviata attraverso i canali diplomatici ufficiali, hanno detto, che sarebbe il metodo tipico per gestire tali questioni.   Attuali ed ex funzionari statunitensi hanno affermato che la lettera potrebbe essere una tattica negoziale da parte di alcuni membri delle forze armate e del governo per fare pressione su Washington affinché raggiunga un accordo più favorevole prima delle elezioni di maggio.   Mentre la Francia, l’ex potenza coloniale della regione, ha una presenza militare molto più ampia in Ciad, anche gli Stati Uniti hanno fatto affidamento sul Paese come partner fidato per la sicurezza.   La guardia presidenziale del Ciad è una delle meglio addestrate ed equipaggiate nella fascia semiarida dell’Africa conosciuta come Sahel.   Il Paese ha ospitato esercitazioni militari condotte dagli Stati Uniti. Funzionari dell’Africa Command del Pentagono affermano che il Ciad è stato un partner importante nello sforzo che ha coinvolto diversi paesi nel bacino del Lago Ciad per combattere Boko Haram.

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Geopolitica

Missili Hezbollah contro basi israeliane

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Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.

 

Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.

 

Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».

 

Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.

 

 

Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.

 

Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.

 

Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

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Geopolitica

Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.   In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».   Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.   Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.   L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.   «Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».   Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».   Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.   «Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato   Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.   L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.   Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.   Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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