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Geopolitica

La Meloni va in Albania a incontrare l’uomo di Soros. E forse anche l’erede di Klaus Schwab

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Palazzo Chigi pare non aver dato molte informazioni sul viaggio del presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Albania.

 

Le notizie che sono arrivate sono state contraddittorie, e lacunose. Era una visita turistica, poteva sembrare di primo acchito. Poi si è cominciato a vagheggiare di un «buco» di giorni. La comunicazione dello spostamento del premier oltre l’Adriatico dicono sia stata gestita tutta dalla parte albanese, anzi da Edi Rama in persona, sentenzia qualcuno, perché quello che abbiamo visto è stato «il più grande spot dell’Albania di tutti i tempi».

 

Già: l’Albania non è il Paese da cui forse provengono tante telefonate di inutile telemarketing che interrompono la vostra giornata, e nemmeno la miccia perennemente accesa di una nuova guerra in Kosovo; non è il Paese delle barche dei disperati degli anni Novanta e di certa criminalità, organizzata o meno, di quegli anni (remember Zani). No, l’Albania è dove il nostro premier si prende una pausa di relax, ospite del gentilissimo, sorridente, fotogenico omologo tiranese.

 

Rama è noto per il videomessaggio in italiano impeccabile con cui annunziava al nostro popolo che avrebbe mandato nell’Italia dei primi mesi di COVID nel 2020 un gruppo di medici albanesi. Come ricordano le cronache, non finì bene: i dottori inviati generosamente da Tirana furono trovati ubriachi a fare festa in hotel dalle forze dell’ordine, un piccolo incidente nel percorso della guarigione del Paese dal morbo cinese.

 

Ora Rama torna sul palco della grande stampa mainstream italica: dà intervista a destra e a manca, definisce Giorgia «un’amica», minimizza le differenze politiche tra destra e sinistra («siamo nel 2023), racconta di averla ospitata nella sua residenza, di aver cenato unendo le due famiglie, garantisce per la bontà della leader della Garbatella.

 

A questo punto, è giusto ricordare al lettore chi è Edvin Kristaq Rama.

 

Altissimo ex giocatore di basket, pittore, scrittore, cattedratico, Rama ha una lunga, densa carriera alle spalle – e, come evidente, non è ancora finita. Già sindaco di Tirana con vittoria schiacciante, nei primi anni 2000 si prende anche il Partito Socialista d’Albania, succedendo a Fatos Nano. Sta qualche anno all’opposizione del Partito Democratico di Albania di Sali Berisha, poi mel 2013 diviene premier, coprendo anche il ruolo di «ministro per l’Europa e gli affari esteri».

 

E gli affari esteri di fatto vanno bene: lo fanno presidente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OCSE) tra il 2020 e il 2021. Attualmente fa parte del board consultivo dell’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.

 

Soprattutto, Edi Rama è noto per la sua prossimità con un nome che dice tanto, tantissimo: anzi, come lo ha definito qualcuno «l’unico uomo al mondo ad avere una sua propria politica estera»: George Soros.

 

Non è un mistero: Rama è stato nel direttivo della celebre Open Society Foundations, l’ente «filantrocapitalista» del discusso finanziere speculatore internazionale George Soros. Il premier albanese era anche uno degli invitati all’esclusivissima festa per il terzo matrimonio di Soros nel 2013, la cui lista degli invitati era praticamente una mappa dei personaggi mondialisti ficcati nella politica di ogni Paese possibile – più Bono Vox, ovviamente.

 

A quanto dicono, Edi avrebbe un bel rapporto anche con Alex Soros, l’erede designato dell’impero umanitario dello speculatore, che sta tuttavia abbandonando l’Europa («missione compiuta»?) e licenziando il 40% della forza lavoro – magari con benedizione dell’ONG più coriacea, quella del papa, che lo ha ricevuto  poche settimane fa con Bill Clinton, che nonostante lo scandalo Epstein e le sue allucinanti ramificazioni si fa ancora vedere in circolazione.

 

Ma non ci sono solo i Soros nel mondo di Rama. Gli USA sono una presenza costante nell’Albania di questi decenni, e sembrano particolarmente affezionati a Rama.

 

Nel maggio 2021, il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva annunciato una serie di sanzioni nei confronti del grande rivale di Rama, Sali Berisha, per «atti corrotti» che «hanno minato la democrazia in Albania». Il linguaggio qui è assai riconoscibile.

 

L’odore di zio Sam a Tirana è tale che il Paese ha problemi con gli iraniani: sia cioè con la Repubblica Islamica (con supposto attacco hacker ed incidente diplomatico) sia con l’organizzazione, solitamente molto supportata dagli americani, che è nemica giurata degli ayatollah, il MEK, che pure era ospitato anche dagli albanesi.

 

Ricordiamo quindi un’altra cifra americana che passa per Tirana. Nella mappa della Terza Guerra Mondiale, che passa per l’Ucraina, Taiwan e il Niger, sappiamo che un pezzo non indifferente potrebbe toccare proprio vicino a noi: il Kosovo.

 

E da che parte può stare Edi Rama nella questione della costruzione di uno Stato satellite albanese (quindi, americano), in terra serba? Possiamo dire che sappiamo, quantomeno, come potrebbe pensarla suo fratello.

 

Torniamo ad uno scandalo balcanico-calcistico forse dimenticato, ma tanto rivelatore dell’ottobre 2014. A Belgrado si giocava la partita di qualificazione per gli Europei 2016 Serbia-Albania. A cinquanta minuti dal fischio di inizio, entra in campo un drone con issata una bandiera albanese con la scritta Kosovo Libero e una mappa in cui l’Albania si mangia quella parte della Serbia.

 

È la bandiera di quella che chiamano la «Grande Albania».

 

Il giocatore serbo Stefan Mitrovic acciuffa il drone e la bandiera. Su di lui quindi si avventano due giocatori albanesi: è rissa. Entrano in campo i tifosi locali, che non vanno per il sottile: lo stadio in cui si gioca è quello del Partizan Belgrado. La partita viene fermata una volta per tutte.

 

Viene arrestato subito Orfi Rama, il fratello di Edi, presente in tribuna VIP: lo accusano di essere l’organizzatore della scenata. Quaranta minuti dopo lo rilasciano. A Pristina, capitale dello staterello albanese leader nel traffico d’organi e nel numero di miliziani ISIS pro-capite, si era nel frattempo scatenata la festa: «Albania, Albania» grida la gente scesa in strada, tra petardi e cori.

 

Il ministro degli Esteri servo dell’epoca, Ivica Dacic, dichiarò che si trattava di una «provocazione politica premeditata». È chiarissimo che tale grande pagliacciata, che reca seco enormi rischi geopolitici e umani, è fatta da qualcuno che sente di avere le spalle coperte.

 

Quindi, ecco chi ha visitato Giorgia nelle ultime ore – rammentando che è quella che ora abbraccia Biden con occhio dolce e gli ubbidisce supinamente. Sì, è la stessa che andava oltreoceano a prendersi gli applausi ai CPAC repubblicani, cioè di chi in larga parte non crede nemmeno che il vegliardo demente del Delaware, l’uomo che ci sta portando verso l’abisso atomico, sia il legittimo presidente.

 

Giorgia è quella che toglie all’Italia armi, carri e missili (difficilmente sostituibili, magari, come i SAMP-T) su ordine della Casa Bianca, per darli alla banda di Kiev.

 

E quindi, da che parte ci aspettiamo starà il governo italiano, quando riscoppierà la guerra in Kosovo? In parte, la risposta l’abbiamo già avuta quando la Meloni tuonò contro il ferimento di nostri soldati della forza di pace durante manifestazioni in loco tre mesi fa.

 

La domanda da farsi, quindi, è: anche di questo hanno parlato i due premier in questi giorni? L’Italia è già automaticamente schierata, per ordine americano, per l’Albania e contro la Serbia, come con il governo D’Alema nel 1999?

 

Non sono questioni da poco.

 

Tuttavia, potrebbe non essere tutto. Qualche giornalista tira fuori l’idea: non è che la Meloni, nel misterioso viaggio albanese, ha visto anche Tony Blair?

 

L’ex premier britannico di fatto era in Albania, proprio ospite dell’amico Edi Rama, negli stessi momenti. Rama, che si dilunga in sperticate lodi anche per lo scozzese, dice che no, Tony e Giorgia non si sono visti, perché Blair è partito per il Medio Oriente il mattino presto, Giorgia, dice, sarebbe arrivata dopo.

 

Gli crediamo oppure no, la possibilità va comunque esplorata, per il significato che assumerebbe: Tony Blair, divenuto dopo gli anni a Downing Street una sorta di agente mondialista che traffica ovunque, è stato da alcuni indicato come possibile successore di Klaus Schwab al World Economic Forum.

 

La notizia può sembrare esagerata, tuttavia Davos o meno, il Blair in questi anni non ha perso tempo per annunciare la bontà di sistemi di tracciamento continuo degli esseri umani. Come riportato all’epoca da Renovatio 21, Blair aveva iniziato due anni fa a parlare di microchip per identificare i cittadini e tracciare il loro «stato di malattia» poi ha continuato dichiarando che i passaporti vaccinali sono «inevitabili». In pratica, un apostolo del green pass globale ed eterno.

 

En passant, segnaliamo suoi discorsi nel corso dell’ultimo anno in cui in scioltezza parlava dell’uso delle atomiche occidentali nel conflitto russo-ucraino, cioè tra l’Occidente e l’Ucraina.

 

Lo abbia incontrato o meno, la Meloni è da quella parte della storia che si sta mettendo: lo dimostra la sua firma, a Bali, per il passaporto vaccinale digitale internazionale, o gli abbracci a Zelens’kyj, a Roma, a Kiev e – molto in tema – ad Hiroshima.

 

Noi avevamo già dato ai lettori altri puntini da unire, per esempio il plateale, vergognoso inchino a Moloch: prima cosa da fare quando eletti, dichiarare che non si toccherà l’aborto.

 

Oppure gli imbarazzi sull’immigrazione, cioè la sostituzione etnica, concetto non più nominabile nemmeno da un partito e da un governo di destra.

 

Oppure l’assist alla Corte Costituzionale sull’obbligo vaccinale: Renovatio 21 vi disse immediatamente di cosa si trattava.

 

Da un governo che si prende come ministro della Sanità un tizio del Comitato Tecnico-scientifico che ci ha chiuso in casa e costretti alla vaccinazione mRNA, cosa volevate aspettarvi?

 

Accusano la Meloni, bonariamente, di essere divenuta democristiana, dicono che sogna di prendere il posto della Merkel negli equilibri europei.

 

La DC, lo sappiamo, è il partito che ha spalancato le porte dell’Inferno su questo Paese. Compromesso dopo compromesso, l’Italia è divenuta, degradata nella morale e nella materia, la catastrofe che è sotto i nostri occhi, un pericolo mortale, fatto di anarco-tirannia e terapie geniche forzate, per il futuro dei nostri figli.

 

Ora abbiamo un potere democristiano che non deve nemmeno più dirsi tale, liberandosi per sempre della finzione «democratica» e «cristiana».

 

E un potere che non è democratico, e non è cristiano, come volete chiamarlo?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

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Carri israeliani entrano a Rafah. Con la benedizione degli USA

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L’esercito israeliano è entrato nella città di Rafah, nel sud di Gaza, dichiarando attacchi contro i militanti di Hamas nell’area.

 

In una dichiarazione di martedì mattina, le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno affermato che stavano conducendo «una precisa operazione antiterrorismo nella zona orientale di Rafah» nel tentativo «di eliminare i terroristi di Hamas».

 

Un video diffuso dall’IDF mostra almeno quattro carri armati israeliani sul lato di Gaza del valico di Rafah, al confine con l’Egitto. Apparentemente parte della clip è stata filmata da un soldato seduto sul tetto di uno dei veicoli.

 

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L’IDF ha anche affermato che le sue truppe sono «riuscite a stabilire il controllo operativo del lato di Gaza del valico» aggiungendo che le truppe di terra e l’aeronautica avevano distrutto le strutture militari di Hamas nell’area, sostenendo di aver eliminato circa 20 militanti.

 

Secondo un anonimo funzionario della sicurezza palestinese e un funzionario egiziano citati dal quotidiano Times of Israel, i carri armati israeliani sono arrivati ​​fino a 200 metri dal terminal del valico di Rafah, che si trova direttamente sul confine egiziano. Il funzionario egiziano ha detto al giornale che «l’operazione sembrava avere una portata limitata».

 

L’IDF ha affermato di aver incoraggiato i residenti locali a evacuare nell’area umanitaria ampliata di Al-Mawasi, situata sulla costa e più lontano dal valico di Rafah.

 

L’operazione di Rafah arriva dopo che l’IDF ha affermato che colpi di mortaio sono stati sparati dall’area contro le truppe israeliane, uccidendo quattro soldati e ferendone molti altri. Ne consegue anche la decisione di Hamas di accettare una proposta di cessate il fuoco egiziano-qatariana, i cui dettagli restano finora poco chiari.

 

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L’ufficio del primo ministro israeliano Beniamino Netanyahu, tuttavia, ha affermato che l’accordo – che Hamas ha accettato – «è lungi dal soddisfare le richieste fondamentali di Israele», sottolineando aggiunto che il gabinetto di guerra nazionale ha deciso all’unanimità di portare avanti un’operazione dell’IDF a Rafah, “al fine di esercitare pressioni militari su Hamas” e di compiere progressi nella liberazione degli ostaggi catturati dal gruppo militante palestinese dall’inizio delle ostilità nell’ottobre. 7.

 

L’invasione israeliana di Rafah viene portata avanti «con il pieno coordinamento americano», ha riferito martedì il sito di notizie del Qatar Al Araby. Mentre Washington si è pubblicamente rifiutata di sostenere l’operazione, fonti di Al Araby affermano che la Casa Bianca ha dato il via libera a Israele in modo che potesse ottenere una vittoria simbolica prima di firmare un accordo di cessate il fuoco.

 

Dopo aver colpito la città densamente popolata con attacchi aerei, i carri armati e le truppe israeliane sono entrati lunedì notte nei quartieri orientali di Rafah. Martedì mattina, l’esercito israeliano ha dichiarato di aver preso il «controllo operativo» del lato di Gaza del valico di frontiera di Rafah, che collega l’enclave palestinese con l’Egitto.

 

L’operazione, che coinvolge mezzi armati e forze speciali israeliane, «è avvenuta dopo che la parte egiziana ne era stata informata, e con il pieno coordinamento americano», ha riferito Al Araby, citando fonti anonime.

 

Ore prima che l’IDF iniziasse il suo attacco a Rafah, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller aveva detto ai giornalisti che Washington «non sostiene il lancio di un’operazione militare su vasta scala a Rafah da parte di Israele». Con circa 1,4 milioni di sfollati palestinesi che si rifugiano lì, Miller ha affermato che «un’operazione militare a Rafah in questo momento aumenterebbe drammaticamente la sofferenza del popolo palestinese».

 

Dietro le quinte, tuttavia, i funzionari americani hanno trasmesso a Israele un messaggio diverso. «L’amministrazione americana ha dato a  Netanyahu il via libera per un’operazione limitata, a breve termine, che potrebbe richiedere diversi giorni, per ottenere un’immagine di vittoria da poter vendere ai ministri di estrema destra», avrebbe dichiarato un’anonima fonte occidentale al Cairo ad Al Araby.

 

Una volta conclusa l’operazione, ha affermato la fonte, Netanyahu approverà un accordo di cessate il fuoco mediato dal Qatar e dall’Egitto, approvato lunedì da Hamas.

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I precedenti tentativi di negoziare un cessate il fuoco sono stati ostacolati dall’insistenza di Hamas affinché qualsiasi tregua fosse permanente e includesse il completo ritiro israeliano da Gaza, e dal rifiuto di Netanyahu di accettare questi termini. Gli alleati della coalizione di destra di Netanyahu sostengono che qualsiasi accordo con Hamas equivale a una resa e che il leader israeliano deve portare avanti l’invasione di Rafah nonostante le obiezioni di Stati Uniti, Unione Europea e decine di altri paesi e organizzazioni internazionali.

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro israeliano Itamar Ben Gvir aveva minacciato di far cascare il governo Netanyahu, di cui è membro con il suo partito ultrasionista Otzma Yehudit («Potere ebraico») qualora l’esercito israeliano non fosse entrato a Rafah.

 

Secondo la fonte occidentale di Al Araby, il direttore della CIA William Burns avrebbe dato l’approvazione di Washington per l’attacco al capo del Mossad David Barnea durante una telefonata lunedì. Se Netanyahu dovesse espandere o estendere l’operazione, gli Stati Uniti «vieteranno il trasferimento di munizioni e attrezzature militari sospese» a Israele, avrebbe detto Burns a Barnea.

 

Questo commento era probabilmente un riferimento ad una consegna di armi americane che secondo funzionari israeliani domenica era stata inspiegabilmente bloccata dagli Stati Uniti. Il contenuto del pacchetto di armi non è chiaro e né il governo statunitense né quello israeliano hanno commentato l’apparente blocco.

 

Nel frattempo, immagini di atrocità intollerabile stanno emergendo dal teatro di guerra di Rafah.

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Geopolitica

Blinken: i social media sono responsabili del fallimento delle pubbliche relazioni israeliane a Gaza

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I social media sono parzialmente responsabili delle diffuse critiche internazionali sulla condotta di Israele durante la sua campagna militare a Gaza, ha suggerito il Segretario di Stato americano Antony Blinken.   Il massimo diplomatico americano ha rilasciato il commento lo scorso venerdì durante uno scambio con il senatore dello Utah Mitt Romney (un politico di sistema considerato un RINO, cioè «repubblicano solo di nome) al Sedona Forum 2024 del McCain Institute a Sedona, in Arizona.   Romney ha chiesto a Blinken il perché delle «pubbliche relazioni così terribili» per Israele nel conflitto a Gaza. «Perché Hamas è scomparso in termini di percezione pubblica? C’è sul tavolo un’offerta per un cessate il fuoco, eppure il mondo grida contro Israele», ha detto. «In genere, gli israeliani sono bravi nelle pubbliche relazioni. Cos’è successo qui?» Romney ha detto.

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Il Segretario di Stato ha ricordato che quando iniziò a lavorare a Washington all’inizio degli anni ’90 «tutti facevano la stessa cosa», ovvero leggere giornali come il New York Times, il Washington Post e il Wall Street Journal, e guardare le reti di informazione nazionali per ottenere informazioni sugli eventi mondiali.   Ora invece, nel 2020, «siamo sottoposti a un flusso endovenoso di informazioni con nuovi impulsi, input ogni millisecondo» e i social media «hanno dominato la narrazione», ha affermato.   «E c’è un ambiente ecosistemico dei social media in cui il contesto, la storia, i fatti si perdono e prevalgono le emozioni e l’impatto delle immagini. E non possiamo, non possiamo escluderlo, ma penso che abbia anche un effetto molto, un effetto molto, molto stimolante sulla narrazione», ha suggerito Blinken.   Tuttavia, ha anche sottolineato che un’altra ragione delle cattive pubbliche relazioni di Israele è stata «l’inevitabile realtà delle persone che hanno e continuano a soffrire gravemente a Gaza. E questo è reale e dobbiamo… essere concentrati su questo e attenti a quello».   Israele ha dovuto affrontare aspre critiche da parte della comunità internazionale a causa dell’elevato numero di vittime civili durante gli attacchi nell’enclave negli ultimi sette mesi. A marzo, gli esperti delle Nazioni Unite hanno stabilito che esistevano «fondati motivi» per ritenere che nell’enclave palestinese venisse commesso un «genocidio».   Nelle ultime settimane, le università degli Stati Uniti sono state colpite da proteste filo-palestinesi, che sono state interrotte da scontri con la polizia e hanno portato alla detenzione di diverse migliaia di persone.

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Le candide ammissioni del Blinken – ebreo che dice che la sua famiglia è fuggita dalla Russia: idea interessante, riconosce anche Putin, perché risultano di Kiev, che stando a quello che dice significherebbe quindi che Kiev è Russia – arrivano nel momento in cui grazie ad una Commissione alla Camera USA è stato rivelato che la Casa Bianca di Biden aveva indotto Facebook a censurare nel 2020 i riferimenti degli utenti alla teoria della fuga del coronavirus dal laboratorio di Wuhano.   Come sa il lettore, Renovatio 21 fu plurime volte vittima di questa tremenda censura, in patente violazione del Primo Emendamento della Costituzione Americana, che stabilisce che il governo di Washington non può interferire con i privati per modulare il discorso pubblico.   Tuttavia, come abbiamo imparato dal biennio pandemico, le Costituzioniamericana, italiana, tedesca – ora possono essere ignorate e infrante. E quindi c’è da chiedersi: quale censura vi sarà per la questione di Gaza?   Quale censura è già in atto in un’amministrazione in cui il presidente senile fantoccio si dichiara apertis verbis «sionista»?

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L’Ucraina colpisce un impianto petrolifero nel Donbass

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Le forze ucraine hanno lanciato diversi missili contro infrastrutture civili nella città russa di Lugansk, ferendo almeno cinque persone e provocando un grande incendio in un deposito petrolifero, ha detto il capo regionale Leonid Pasechnik.

 

L’attacco di martedì notte è stato probabilmente effettuato utilizzando i sistemi missilistici tattici dell’esercito superficie-superficie (ATACMS) forniti da Washington, ha aggiunto il capo della Repubblica popolare russa di Lugansk (LPR). Cinque dipendenti della struttura sono stati ricoverati in ospedale con ferite moderate, mentre i servizi di emergenza erano al lavoro sul posto per domare l’incendio.

 

«L’Ucraina sta compensando le sue sconfitte in prima linea bombardando obiettivi civili», ha detto Pasechnik, aggiungendo che l’attacco ha danneggiato anche un gasdotto ad alta pressione e le linee elettriche, provocando un parziale blackout nella zona.

 


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Il ministero della Difesa russo deve ancora confermare il tipo di proiettili utilizzati nell’attacco. Secondo Mosca, la scorsa settimana le difese aeree russe hanno intercettato almeno 15 missili ATACMS, mentre negli ultimi mesi Kiev ha preso di mira sempre più raffinerie di petrolio, impianti energetici e altre infrastrutture russe.

 

Alla fine di aprile, funzionari statunitensi hanno confermato le precedenti notizie dei media secondo cui il Pentagono aveva segretamente spedito un numero imprecisato di missili a lungo raggio in Ucraina come parte di un pacchetto di armi annunciato dal presidente Joe Biden a metà marzo.

 

L’«obiettivo» di fornire a Kiev l’ATACMS era quello di esercitare maggiore pressione sulla Crimea e consentire alle forze ucraine di prendere di mira la penisola «in modo più efficace», riferiva all’epoca il New York Times, citando un anonimo funzionario del Pentagono.

 

Mosca ha affermato che la fornitura di missili a lungo raggio comporterebbe solo «più problemi» per Kiev. Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha insistito sul fatto che l’uso dell’ATACMS non avrà alcun impatto sull’esito del conflitto, né impedirà alla Russia di raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza.

 

Come riportato da Renovatio 21, il ministro degli Esteri ucraino Kuleba ha sostenuto che l’Ucraina potrebbe smettere con gli attacchi agli impianti petroliferi russi – fenomeno che porta in squilibrio il prezzo globale del petrolio e quindi l’economia mondiale – qualora Kiev ricevesse più armi.

 

«Devi pensare nei tuoi interessi», aveva detto il Kuleba a Rada TV lo scorso mese. «Se i tuoi partner dicono: “Ti stiamo dando sette batterie Patriot, ma abbiamo una richiesta per te, per favore non fare questo e quello”, allora c’è qualcosa di cui parlare».

 

Il petrolio è particolarmente sensibile alle questioni geopolitiche: nelle ultime ore, quando si erano sparse le voci di un imminente attacco iraniano ad Israele, il prezzo del greggio era schizzato sopra i 90 dollari al barile. La tensione nel Golfo di Aden, con gli Houthi che attaccano perfino le petroliere russe, contribuisce al caos sui mercati, con Goldman Sachs che ritiene che i prezzi potrebbero perfino raddoppiare. Dopo i forti aumenti registrati nel terzo trimestre 2023, Fitch Rating ha comunicato che il petrolio potrebbe toccare i 120 dollari.

 

Come riportato da Renovatio 21, la spinta al prezzo del petrolio data dagli attacchi dei droni ucraini su raffinerie russe + stata evidente quattro settimane fa, con il costo dell’oro nero salito a 86 dollari dopo un episodio.

 

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