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Geopolitica

Sarete anche voi nella «lista Zelens’kyj»?

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L’Italia dovrebbe revocare «i visti» alle persone con opinioni «pro-Putin» per assicurarsi che non interrompano la consegna degli aiuti militari occidentali a Kiev, ha detto domenica il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj in una conferenza stampa.

 

Si tratta di affermazioni di portata immane, che vengono riportate dalla stampa nazionale come notizie neutre, come se una Nazione straniera che compila liste di proscrizione fosse qualcosa di assolutamente normale.

 

Le dichiarazioni, fatte ad una conferenza stampa e riportate da varie testate come il Corriere della Sera, arrivano il giorno dopo aver firmato un accordo di sicurezza con il primo ministro italiano Giorgia Meloni durante la sua visita nella capitale ucraina.

 

Il giornalista del quotidiano di Via Solferino ha domandato a Zelens’kyj se le persone in Europa che sono solidali con il presidente russo Vladimir Putin potrebbero «complicare» il flusso di armi verso l’Ucraina.

 

«La premier Giorgia Meloni senza dubbio sostiene l’Ucraina, l’ho appena incontrata in veste di presidente del G7 e abbiamo anche firmato l’accordo di cooperazione bilaterale. Le siamo immensamente grati», ha risposto Zelens’kyj in inglese, esortando l’Italia a fornire più armi, compresi sistemi missilistici antiaerei.

 

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«Sappiamo però che in Italia ci sono tanti filo-putiniani e in Europa anche. Stiamo preparando una loro lista» ha detto il presidente ucraino.

 

In Italia «ci sono molti pro-Putin, e prima di tutto dovreste cancellare loro i visti» e «mandarli via».

 

«Stiamo preparando una lista – non solo riguardo all’Italia – sui propagandisti russi. È una lunga lista e vogliamo presentarla alla Commissione europea, al Parlamento europeo, ai leader dell’Ue e degli Stati Uniti» ha detto Zelens’kyj riportato dall’ANSA.

 

«Riuscirete a zittirli? Riuscirete a fare capire alle vostre opinioni pubbliche che la Russia non è solo una minaccia per l’Ucraina, ma per tutti voi? Le società europee sono pronte a questa sfida? Vedo che non lo siete ancora, voi italiani i tedeschi e gli altri».

 

Si resta sconvolti davanti non solo alle dichiarazioni dello Zelens’kyj, ma anche a come vengono riportate: in pratica è annunciata una lista di proscrizione, e la cosa non sembra scandalizzare nessuno.

 

Non è chiaro, innanzitutto, a cosa si riferisca l’uomo di Kiev: se parla di «visti» da negare (ma che con che autorità si permette di chiederlo? Su quali basi legali e costituzionali), forse sta riferendosi a persone straniere sul nostro territorio?

 

Ebbene: stranieri che producono contenuti filorussi in Italia pare non ve ne siano proprio, a meno che non stia parlando del personale diplomatico, che nel magico mondo di Zelens’kyj forse può essere «zittito» ed espulso in barba ai principi della civiltà che prevede quella strana cosa chiamata diplomazia.

 

In rete, la maggior parte degli osservatori ha recepito le parole di Zelens’kyj come un invito a sistemare, dietro ordini del regime di Kiev, quei cittadini italiani colpevoli di non essersi bevuti la narrazione ucro-NATO propalata dai media mainstream.

 

La domanda che si deve fare il lettore, a questo punto, è una sola: sarò anche io nella lista Zelens’kyj?

 

Alcuni già dicono che vorrebbero iscriversi preventivamente. Qualcuno cita pure l’indimenticato Mario Magnotta: «io m’iscrivo ai terroristi!»

 

La questione del finire in un elenco ucraino, tuttavia, non è da prendersi a cuor leggero. Ricordiamo, en passant, che altre liste di proscrizione ucraine di «sostenitori della Russia» hanno prodotto anche morti, anche prima della guerra. Non c’è solo solo Al Bano finito insieme a Kissinger, Roger Waters e Toto Cutugno. Non c’è solo Berlusconi che alla morte viene segnalato come «liqvidirovan», «liquidato» – lo stesso timbro capitato a Darja Dugina dopo che è stata trucidata con un’autobomba a Mosca.

 

E quindi: i putiniani italiani devono cominciare a tremare?

 

E non dimentichiamo che, oltre all’incolumità fisica – il nostro Paese, causa immigrazione da badanza e non solo, è pieno di cittadini ucraini, e, come ha scritto ancora due anni fa Renovatio 21, potrebbe esserlo ancora di più in futuro – potrebbero registrarsi altri effetti, come la loro depiattaformazione: account social revocati, pagine cancellate, siti internet attaccati da hacker.

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Purtroppo Renovatio 21 conosce già per esperienza diretta la questione, che abbiamo capito, grazie a recenti ricostruzioni, essere pilotata da organi dello Stato profondo americano e dalla NATO, cioè le stesse entità che hanno voluto accendere la guerra ucraina, bruciandovi dentro già centinaia di migliaia di ragazzi ucraini e russi.

 

(Notiamo che ieri lo Zelens’kyj ha dato altri numeri: secondo lui «in due anni 31.000 soldati ucraini avrebbero perso la vita, contro circa 180.000 russi»: si tratta della forza militare con la difesa migliore della storia umana, epperò la controffensiva della scorsa primavera è fallita lo stesso).

 

Dinanzi a simili dichiarazioni, la nostra stampa e la nostra politica non abbia nulla da ribattere.

 

Chi nutre pensieri filorussi sarà privato del diritto di libera espressione? È questo il nuovo modo in cui l’Ordine Mondiale vuole umiliare la Costituzione facendoci capire quanto, dopo il COVID, essa sia inutile nella meccanica schiavistica dello Stato moderno?

 

Il mese scorso, l’ambasciata ucraina a Roma ha protestato contro diversi eventi dedicati al conflitto in corso con la Russia. In un caso, una scuola del Lazio ha organizzato una conferenza online con una scuola della Repubblica Popolare Russa di Lugansk, che l’Ucraina considera «territorio occupato».

 

I diplomatici ucraini si sono lamentati anche della prevista mostra e conferenza a Modena dedicata alla ricostruzione e al recupero della città di Mariupol’, nel Donbass, conquistata dalla Russia nel 2022 dopo mesi di aspri combattimenti. A protestare, immediatamente, sono stati i Radicali Italiani.

 

Abbiamo visto, in questi due anni, di cosa è capace l’influenza dell’Ucraina – il Paese più povero e corrotto d’Europa, secondo le cronache di prima del 24 febbraio 2022.

 

Abbiamo visto, in Italia, spettacoli di danza classica cancellati – perché Il lago dei cigni l’ha scritto Tchaikovsky, quindi è irrimediabilmente un’opera russa.

 

Abbiamo visto, in Australia, murales cancellati.

 

Abbiamo visto Zelens’kyj insultare la Polonia all’ONU, e continuare anche dopo.

 

Abbiamo visto l’ambasciatore ucraino a Berlino insultare il cancelliere, e lo Scholz incassare stile Fracchia («com’è umano lei»).

 

Abbiamo visto l’ambasciatore ucraina in Kazakistan invitare all’uccisione dei russi.

 

Abbiamo visto un consigliere di Zelens’kyj insultare il papa e la religione cattolica tutta, e lo Zelens’kyj stesso, con maglioncino e stemma ucronazista e disprezzo per ogni protocollo, sedersi prima che lo faccia il romano pontefice quando è suo ospite nel Sacro Palazzo.

 

Abbiamo visto la principale chiesa cristiana d’Ucraina perseguitata e cancellata manu militari, tra raid e sacerdoti arrestati; abbiamo visto preti cattolici ucraini piegati per aver osato pregare per la pace; abbiamo visto Kiev respingere sdegnosamente la proposta di una tregua di Natale, per poi, anzi, attaccare subito e bombardare alla vigilia del Natale ortodosso e pure la notte di Pasqua – il tutto nel silenzio assordante della comunità politica e religiosa internazionale.

 

Nessun capriccio, nessuna folle richiesta russofoba pare essere fuori dalla portata della banda Zelens’kyj.

 

Lo vediamo anche ora: nel servizio del TG1 riportato qui sopra Zelens’kyj, parlando delle liste di proscrizione in arrivo, riesce ad infilarci una richiesta diretta di armi antiaeree, specificando che lui sa che ne abbiamo ancora tante, e dovremmo darle a lui.

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Prima che diplomaticamente, è qualcosa di sconcertante da un punto umano. Ma del resto, lo aveva scritto TIME quattro mesi fa fa: alcuni collaboratori del personaggio ritengono che sia divenuto «delusional», cioè «delirante», uno che vive in un mondo suo – senza fare illazioni su cosa alimenti queste fantasie.

 

Tuttavia, se guardiamo bene i segni, c’è la possibilità che gli USA, infine, stiano decidendo di sbaraccare da Kiev. L’articolo del New York Times che rivela che la CIA ha impiantato basi di Intelligence in Ucraina negli ultimi 10 anni – dando, cioè, anche esplicitamente ragione a Putin e alle sue reazioni – va in questa direzione, così come la sorprendente dichiarazione del capo dell’Intelligence militare ucraina Budanov che dice che Navalnij è morto di cause naturali, in aperto contrasto con quanto raccontano Zelens’kyj e la sua pupara Victoria Nuland.

 

C’è un ulteriore segno del possibile sbaraccamento americano: l’arrivo di Giorgia Meloni a Kiev, che fa una passerella inutile, firma un qualche accordo militare che non si capisce cosa è, anche se su queste cose dovrebbe esprimersi il Parlamento con ratifica del Capo dello Stato.

 

Che abbiano mandato Giorgia per tenere in piedi, ancora per qualche settimana, il teatro di cartone attorno a Zelens’kyj, così da alimentare l’allucinazione dentro alla quale vive il boss ex comico – che ha annunziato, anche ieri, la partenza di una nuova controffensiva primaverile, quando non è chiaro se esista ancora la demografia necessaria per sostenere qualsiasi manovra militare?

 

Massì, manda Giorgina a fare un po’ di pantomina per prendere tempo, mentre quell’altro pare minacciare gli italiani che non la pensano come lui. Nell’universo dell’Occidente terminale, tutto è possibile, oltre ogni pudore, oltre ogni hybris. Finché i servi obbediscono, facciamoli lavorare.

 

È una teoria. La certezza, invece, è che il governo «nazionalista» e «sovranista» fa spallucce mentre non solo distruggono gli interessi dei suoi cittadini, ma li minacciano propriamente.

 

Del resto, questo è lo Stato moderno: un sistema fatto non per nutrirvi e difendervi, ma per offendervi e sterminarvi.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

Geopolitica

Missili Hezbollah contro basi israeliane

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Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.   Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.   Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».   Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.     Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.   Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.   Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

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Geopolitica

Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.

 

In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».

 

Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.

 

Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.

 

L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.

 

«Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».

 

Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».

 

Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.

 

«Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato

 

Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.

 

L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.

 

Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.

 

Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic

 

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Geopolitica

Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.   Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.   Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».   La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.   Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.   Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.   The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».   Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.   La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.   Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.   Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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