Pensiero
Referendum sul divorzio 2025: quello di sindacati e compagni dalla realtà
Il referendum sul lavoro dipendente e l’invasione migratoria è fallito, tuttavia quello sul divorzio 2025 è riuscito: possiamo dire, senza ombra di dubbio, che non andando a votare gli italiani hanno ratificato il divorzio dalla realtà di istituzioni, enti, corpi sociali, vescovadi ed interi partiti politici.
Il mondo reale, ora è certificato democraticamente, è separato totalmente dai cascami sovietici della grande mangiatoia repubblicana: nessuno ha votato per i loro quesiti. Anzi andiamo oltre: nessuno sapeva davvero quali fossero.
Non è stato captato interesse, nessuno davvero, per il referendum – e questo al di là del fine settimana al mare. Attorno a me, non solo non c’è una persona che sia andata a votare, ma nemmeno che sapesse per cosa si votasse.
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Ognuno ha capito, senza bisogno di tante spiegazioni, che erano fisime sul feticcio del lavoro, cose di un mondo che sul serio non esiste più: mentre la gente arranca nella rovina post-industriale, ci parlano di licenziamenti illegittimi, giudici che decidono le indennità di licenziamento per le piccole imprese, contratti a tempo determinato, responsabilità di appaltatori e pure committenti sugli infortuni sul lavoro. Poi la ciliegina: 5 anni di residenza in Italia acciocché gli immigrati divengano cittadini italiani a tutti gli effetti.
Non uno di questi temi – e son dovuto andare a guardarmeli ora, ad urne chiuse, perché anche io ci ero volato sopra serenissimo – pare avere attinenza con la realtà. Non uno sembra essere allineato con il sentimento non solo della classe produttiva (compresi i dipendenti) ma del cittadino quivis de populo: rendiamo gli immigrati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città subito italiani?
Maranza al voto? Sì: così poi però, invece che il Partito Maranza, ci troviamo il Partito Islamico – chiunque può fare questo pensiero, chiunque è finito per sentire ed ammettere, e in tutto il pianeta (FPO primo partito in Austria, Le Pen rampante in Francia, AfD in vetta in Germania… e Trump alla Casa Bianca) che la migrazione massiva è un problema da risolvere, non da facilitare.
Tutti lo sanno, tranne la sinistra e i sindacati. I quali, per fare bella figura e spingere sempre più gente a votare, hanno pensato bene pure di farsi vedere che litigano a sangue. Il che vuol dire, il divorzio ce lo hanno anche loro, infra: la parte piddina oramai metamorfosata in partito neoliberale e neoradicale di massa mai poteva votare per l’abrogazione del Jobs act.
Personalmente, mi impressiona non poco la questione dei sindacati. Ininfluenti sul piano politico (il referendum lo sancisce incontrovertibilmente), invisibili sul piano sociale (quante persone conoscete che sono state aiutate da un sindacato?), sono tuttavia realtà ricchissime, dove la cornucopia diviene sempre più visibile sullo sfondo di una società in sfacelo.
Voglio raccontarvi un angolo della mia città, quello dove svetta il palazzotto del principale sindacato, tetro ed eloquente con la sua colata di cemento grigio e il logo rosso che spunta in cielo: poco più avanti, c’era un’edicola, ora c’è uno dei quei buchi pieni di distributori automatici con dentro tutto: bibite, preservativi, cartucce per le sigarette elettroniche, latte, cioccolatini, olio da massaggio (che in realtà ipotizziamo serva agli invertiti, e non per massaggiarsi), cracker, e su tutto le casseforti cibernetiche che fanno da casella postale Amazon, grande simbolo del lavoro in Italia.
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A pochi metri, c’era un negozio di giocattoli e cartotecnica, durato decadi, con il nome di una famiglia cimbra: un posto eccezionale, che conoscevo da bambino, e in cui credo di aver fatto in tempo qualcosa anche per il primo figlio. Ora, invece, c’è una succursale del sindacato – la cui sede, ripetiamo, è lì a trenta metri – ci fanno dentro non so cosa, dalle vetrine si vede un bell’ufficio modernissimo, illuminato anche di notte, con il cartellino «Open» alla porta, neanche fosse un diner americano stile Happy Days.
In breve: il tessuto produttivo italiano è andato, da mo’, in malore: ma il sindacato proprio no. Anzi: può approfittare ed espandere il suo raggio. Ciò non vale solo per le quisquilie immobiliari. Il sindacato, in realtà, da diversi ha lanciato una vera e propria espansione morale. Ecco la crociata al Consiglio d’Europa per cancellare l’obiezione di coscienza sull’aborto in Italia.
Ecco la sollecitudine sui vaccini, che come abbiamo rilevato su Renovatio 21, è iniziata ben prima della pandemia, con ad esempio gli appelli ai pensionati (si allargano proprio: sono lavoratori, i pensionati?) a fare il vaccino antinfluenzale, nonostante in quegli anni ogni tanto sui giornali c’era qualche timido articolo sulla possibilità di qualche lotto assassino… per non parlare dei vaccini pediatrici (anche i bambini non sono lavoratori, ma pazienza), dove quando entrò in vigore la legge Lorenzin nel 2017 ad esempio a Palermo i sindacati lanciarono l’allarme sul fatto che c’erano pochi vaccinatori, bisognava assumere.
Insomma: come da piramide di Maslow, il sindacato è talmente ricco da aver soddisfatto tutti gli strati inferiori (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di appartenenza, di stima) e fluttua al vertice, dove può perseguire il fine dell’autorealizzazione: creatività, spiritualità moralità. Non c’è da ridere: questa è la sola spiegazione scientifica che trovo se penso al sindacato che si occupa di libero feticidio e sierizzazioni – e di concertoni rock, i quali, come detto dal poeta oramai lustri anni fa, in effetti hanno un po’ «rotto i coglioni».
Il sindacato è come un vecchio aristocratico, un nobile di quelli stile Gattopardo: il mondo è cambiato totalmente, e in teoria ti rifiuta pure, ma tu sai che invece starai lì, hai la sicurezza della tua ricchezza, e quindi può permetterti di correre dietro al superfluo, le amanti, le speculazioni di pensiero, etc.
Dobbiamo capire che tale nobiltà parassita ha in Italia un colpevole precipuo: la Costituzione. La quale essendo nata da comunisti e da democristiani (cioè, la specie creata in laboratorio da massoni e angloamericani per lasciare libero il passaggio a comunisti e liberali), è leggermente «sovietica», amava dire Silvio Berlusconi, al punto da mettere l’idolatria del lavoro in testa alla Carta stessa, e poi a dettagliare il goscismo istituzionali in altri articoli.
Come l’articolo 39: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
In pratica, dice la Costituzione più bella dello mondo, sindacato libero! Sindacati per tutti! Ma allora, perché sono così pochi? Perché non sono usciti nuovi sindacati a fare concorrenza a quelli divorziati dalla realtà? Magari ci sono pure: ma non prendiamoci in giro, sappiamo tutti che siamo dinanzi a logiche di feudo, un feudo ultramiliardario, inscalfibile, intoccabile, invincibile.
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Vediamo, tuttavia, che a potersi permettere il divorzio dal reale: ecco che la Carta sovietica d’Italia prevede addirittura la creazione di un ente che talmente tante persone potrebbero definire inutile da farci sopra un referendum – anche quello fallito, forse a causa del giovane borioso premier-genio che aveva accluso il voto per abolire il Senato. Parliamo, ovviamente, del CNEL.
Articolo 99 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». Ebbene sì, il CNEL ha copertura costituzionale. Noi, confessiamo apertamente, non abbiamo idea di cosa faccia, e crediamo di non essere gli unici: ma, sapete, nella nostra Repubblica basta la parola «lavoro» e si può fare tutto, tranne obiettare i sieri genici sperimentali.
Un vecchio amico – nel senso, un signore anziano, che dal suo incarico per una grande azienda ne ha viste molte – mi diceva di un conoscente che, per ragioni a caso, era stato messo a fine carriera al CNEL, ed era felicissimo, perché neanche lui capiva bene quale fosse questo lavoro, ma lo stipendio arrivava. Non siamo in grado di verificare questa notizia, tuttavia, un po’ come per i quesiti del referendum 2025, come una immane porzione di popolazione italica non sentiamo l’impulso ad approfondire. Un altro ente, un altro turbine di leggi, uffici, salari, lontani anni luce dalla mia libertà, dalla difficoltà di tirare avanti la carretta tutti i mesi: ma chi davvero ha la forza per pensarci?
È quindi con questa mesta rassegnazione che registro come il divorzio in Italia sia stato approvato per referendum una seconda volta: il divorzio tra le istituzioni sociali – mica scordiamo l’ente sociale chiamato CEI, con il cardinale Zuppi che aveva invitato a recarsi alle urne – e la società stessa, che non vuole più saperne di loro e delle loro proposte, che non sono solo irrilevanti, sono con evidenza nocive, contrarie in tutto e per tutto alla percezione attuale del bene comune.
Lo sappiamo: la rassegnazione non va bene. Ma capiteci: abbiamo paura di dire qualsiasi cosa.
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Il sindacato può comunicare apertis verbis di non voler difendere i lavoratori (per il vaccino mRNA, e magari i soldini del Recovery Fund), può cambiare volti di leader che non ci colpiscono esattamente per il pensiero (il tizio con il diastema, il baffotto bianco, l’occhio mandorlato che scrive le prefazioni dei romanzi di Philip Dick, l’orsetto democristiano, la tizia flemmatica che fuma, quello professorale con gli occhiali spessi e la pelle tra il diafano e il rosso, il sindacalista metalmeccanico professionista), travasandoli poi in larga parte, autista e scorta e quant’altro, alle elezioni politiche per il voto feudale automatico dei soliti partiti della sinistra postcomunista e democristiana.
Come tutto questo non inorridisca i lavoratori, non sappiamo dirlo, ma tuttavia ora sappiamo che inorridisce assai gli elettori. I quali elettori, che non sono principi e conti che possono vivere di rendite politico-costituzionali, dalla realtà non vogliono divorziare, altri, loro non possono.
Come non possono permettersi di avere, a decidere per loro, qualcuno che, come Landini due anni fa, comizia letteralmente a favore del «Nuovo Ordine Mondiale». Cioè ciò che, con nel silenzio se non nel tifo del sindacato stesso, ha distrutto il loro lavoro, la loro famiglia, la loro esistenza.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Maritè Toledo via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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Immagine screenshot da YouTube
Eutanasia
Il vero volto del suicidio Kessler
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