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Renovatio 21 recensisce il Batmanno

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Dopo la trionfale triade del Christoper Nolan, che ha goduto di un successo immenso e non del tutto meritato, Batman è tornato  reboottato al cinema con una pellicola chiamata The Batman. Hanno aggiunto, cioè, l’articolo determinativo – e quindi pensiamo che per differenziarsi da questo film, la prossima serie potrebbe usare l’articolo indeterminativo: A Batman, «un Batman», nel senso di «un Batman a caso», nel pieno sentimento di mediocrità e impotenza del supereroe che nel presente film comincia ad avvertirsi.

 

Per il momento, tuttavia, malgrado la shfiga che comincia ad irradiare dal costume, Bruce Wayne si chiama The Batman. Gli importatori italiani – la genìa che 30 anni fa tradusse Silence of The Lambs in (letteralmente «il Silenzio degli Agnelli») ne Il Silenzio degli Innocenti, perché timorosa di offendere la real casa FIAT – avrebbero dovuto chiamarlo quindi chiamarlo Il Batman. E invece niente: rimane il titolo totalmente anglofono.

 

A noi invece va di chiamarlo italofonicamente: quindi, Il Batmanno. Perché seguiteci: Herman – Ermanno. Norman – Normanno. Batman – Batmanno. (E Supermanno, Spidermanno, Acquamanno etc.)

 

Ora, dopo questa edificante introduzione linguistica in pieno stile Renovatio 21, parliamo del film che, va detto, si lascia pur guardare.

 

Siamo anni luce lontani dai predecessori: non c’è la psicosi disneyana di Tim Burton e Michael Keaton, parimenti non c’è il giustizialismo cervellotico del Nolan.

 

 

C’è qui, piuttosto, un ritorno al vecchio telefilm degli anni Sessanta, quello ora inguardabile se non come capolavoro camp, kitch, al limite dell’idolatria gay: lo ricordate, quello che le reti di Berlusconi, negli anni Ottanta, mandavano in onda ad abundatiam, anche al mattino, quello dove Joker era interpretato un attore talmente motivato che si metteva il cerone bianco sopra i baffi, che con evidenza non riteneva valeva la pena di tagliarsi, confidando nella bassa definizione degli allora minuscoli schermi domestici.

 

Perché dire una tale enormità? Il nuovo film – che hanno presentato come dark, anzi emo – e la vecchia serie con i POW! BOF! KAPOW! e le sopracciglia di Batman disegnate con il gesso bianco?

 

Ebbene sì: assistiamo subito a qualcosa che era mancato nei Batmani cinematografici precedenti: l’immistione del supereroe nello staff della Polizia, gli esami certosini della scena del crimine attorniato dai poliziotti, complice il commissario Gordone.

 

È questo un grande ritorno alla vecchia serie in costume, dove il camminare avanti e indietro mentre si ragionava dinanzi alle forze dell’ordine, era una delle tre principali categorie cinetiche dell’universo del vecchio Batman: muoversi con la scomodissima Batmobile cabriolet, picchiare come fabbri i manigoldi con sotto la musichetta irresistibile e il florilegio di onomatopee, e infine appunto la camminata pensosa indoor con il quale il nostro metteva a parte polizia e spettatori dei suoi preziosi ragionamenti.

 

Anche qui è così. Solo che siamo nel 2022, del dopo-George Floyd, per cui la polizia USA è di partenza stronza e bigotta, e di fatto l’unico veramente buono è il commissario Gordone, che è nero (abbastanza), e poi un poliziotto latino a caso, il quale all’inizio tratta vergognosamente il Batmanno (che subisce assai fantozzianamente) ma poi, dopo ore di film, si sa riscattare con simpatia e saggezza etnica.

 

I poliziotti bianchi, invece, sono un disastro, soprattutto i capi, ed eccoli infatti che vengono trucidati. Come i politici: il procuratore distrettuale, talmente bianco che l’attore ha un cognome nordico, è un puttaniere drogato, e infatti muore. Il sindaco, bianchissimo pure lui, è parimenti puttaniere e corrotto, ed anche lui viene ammazzato alla grandissima. Il futuro sindaco è invece una donna nera che, gentilissima verso il Bruce Wayne, è a prova di proiettile: le sparano ad un comizio, ma sopravvive, e quindi porta a casa sia l’essere vittima che la sopravvivenza. Bingo. Altri bianchi non raccomandabili sono gli italiani mafiosi, che abbondano, e fanno le cose più moralmente rivoltanti: anche loro avranno quel che si meritano, perché fanno schifo, anche se sono però in grado di turlupinare a lungo il Batmanno e perfino suo padre.

 

Un capitolo a sé è il caso di Catwoman, che non siamo sicuri di voler chiamare Catwomanna, interpretata dalla figlia del cantante ebreo Lenny Kravitz e della Denise de I Robinson, il classico telefilm di quel Bill Cosby ora per lo più ricordato per l’accusa di essere uno stupratore seriale che drogava le sue vittime. OK, la madre di Catwoman si chiama Lisa Bonet, ed è nota ai millennial che hanno il culto dell’enigmatica e tetra pellicola di Alan Parker Angel Heart, e pure agli amanti del gossip per essere la madre dei figli del Jason Momoa, appunto l’Acquamanno, che è un po’ più piccolo di lei.

 

Scriviamo queste cose perché in verità non abbiamo niente da dire su questa versione romantico-BLM del personaggio, volutamente opposta al lucore lattiginoso della pelle della predecessora Michelle Pfeiffer.

 

Non abbiamo niente da dire perché la delusione per noi è automatica: dopo anni pandemici a parlare di Batwoman – la mitica Shi Zhengli, la scienziata del laboratorio di Wuhano che sembra al centro dello sconvolgimento del pianeta tutto – ci dobbiamo accontentare di una Catwoman, per di più etnopoliticamente corretta, e con il complesso di Elettra. Tanto più che qui hanno fatto una Batcaverna strapiena di veri pipistrelli, quindi immaginatevi la quantità di mefitico guano chirottero, che la vera Batwoman avrebbe saputo trattare a dovere.

 

Vabbè.

 

Epperò il cattivo è interessante, perché dicono che ricalchi la figura del seguace della cultura Incel, ossia degli scapoli involontari organizzati (la parola «sfigato», sospettiamo, etimologicamente deriva da lì, con prefisso privativo) che ad una certa di recente sono diventati violenti, con qualche episodio che sapeva di programmazione terroristica. Sulle teorie Incel Renovatio 21 starebbe preparando un articolo, ma il collaboratore incaricato latita, e anzi, guardate, se ci sta leggendo gli tiriamo pure le orecchie di fronte a tutti, anche alla sua fidanzata.

 

Il cattivo, l’Enigmista, è rilevante anche perché permette di intravedere un ulteriore segno dei tempi finito in sceneggiatura: il male sta sulle chat private dei social, il cattivissimo è uno che streamma, e ha un certo numero di follower che diventano suoi complici. Quindi: ci vuole la censura, il controllo della rete, ma scherziamo? Il Batmanno è lì anche per questo: evitare che dei mattacchioni determinati abbiano anche un limitato successo in rete; di fatto, se vi censurano sui social, è perché da anni corre sui vostri profili un algoritmo Batman, anzi, rinominiamo lo shadowban in batman-ban, bat-ban, shadowbatban, insomma una cosa così.

 

Di fatto, lo sfigato Incel in poche settimane fa più di quanto il Batmanno ha fatto in una vita: individua un network segretissimo di corrotti che vanno dalla politica alla polizia alla mafia e li fa fuori in modo spettacolare, di modo da inviare al mondo un messaggio di speranza e di giustizia. Tutto questo, mentre il miliardario mascherato se ne va in giro a bussare a sangue teppistelli che, a dirla tutta, nemmeno ci sembrano bianchissimi.

 

A questo punto, lo sfigato in effetti è il Batman.

 

Del resto, è così per design: hanno voluto fare il supereroe emo, sentimentale, incerto, con l’occhio truccato, l’infelicità impressa in faccia, e la mancanza di muscolo visibile (l’attore, Robert Pattinsone, ha rifiutato il segreto di Pulcinella di Hollywood, e cioè gli steroidi: bravo, coraggioso, unico).

 

Il regista aveva dichiarato che il suo modello per il personaggio era Kurt Cobain, e noi andiamo in cortocircuito: il cantante eroinomane e suicida dei Nirvana, tragicamente sposato a Courtney Love, come supereroe? Deve mancarci qualche passaggio, il salto dalla Seattle del grunge a Gotham City minga ci è chiarissimo, tuttavia la cosa è seria, perché una tristonzola canzone minore dei Nirvana – Something in the way – è ripetuta durante il film.

 

È un Batman di austerity, di restrizione pandemica, un Batmanno della decrescita infelice, del Club di Roma.

 

In linea con ciò, l’incredibile insulto all’istituzione della Batmobile, qui ridotta a muscle car buzzurrissima che pare uscita da un meccanico autotuning pronta per i neon sotto la scocca e una botta di aerografo che la spinga verso l’Olimpo dell’ignoranza automobilistica.

 

Capito? La Batmobile, era un trionfo avveniristico, era il modo in cui i miliardi di Bruce Wayne trovavano l’impiego più giusto, cioè il trasferimento tecnologico verso il futuro dell’automotive. Niente, hanno spostato la lancetta verso Fast&Furious, come se piacesse al pubblico, e come se anche quello, oggi, sia interpretabile come una mancanza di testosterone, cioè di palle.

 

Insomma, c’è tanto da digerire.

 

Almeno non c’è Robin, ed è un sollievo: perché sapete tutti lì dove sarebbero andati a parare.

 

Giudizio finale: guardatelo, non guardatelo, è lo stesso. Tuttavia, potrebbe essere l’ultimo titolo a chiamarsi così, il prossimo, per questioni di parità di gender, potrebbe chiamarsi Batperson, in italiano Batpersona, ed essere interpretato da un transessuale cino-africano di 190 chili e la bandiera dell’Ucraina dietro alla Batmobile, dedito alla pugna più cruenta contro i prolife e i no vax e pure quelli a cui piace Putin.

 

Succede. Tranquilli che succede.

 

 

 

 

Immagine di DC Comics via Wikimedia pubblicata su licenza Pubblico Dominio CCO

 

 

 

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.   Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.   La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.   Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.   «Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.   Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.       Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.   In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.     L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.   Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.

 

Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.

 

A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.

 

I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.

 

Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.

 

Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.

 

A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.

 

 

Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».

 

Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.

 

Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.

 

 

Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.

 

O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?

 

Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.

 

Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.

 

Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.

 

 

Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.

 

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.

 

 

 

Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.

 

Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.

 

C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.

 

No?

 

Roberto Dal Bosco

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