Pensiero
Napolitano e Messina Denaro, misteri atlantici
Nelle stesse ore in cui spirava a 98 anni l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il boss mafioso Matteo Messina Denaro entrava in coma «irreversibile» – qualunque cosa voglia dire.
Sono due facce, lontanissime nel sentire comune, del medesimo Paese – ma anche, dello stesso mondo. Sono volti che per chi scrive rimangono altamente enigmatici.
Prendiamo Napolitano. Non è ancora chiaro perché lo chiamassero Re Giorgio, espressione che ancora dice qualcosa per via del Regno del nonno di Carlo III, Giorgio VI. Fino a che l’ex comunista non salì al colle, l’espressione «Re Giorgio», tuttavia, era riservata a Giorgio Armani, et pour cause: un re nello stile e nella professionalità, nella creazione di bellezza e nella conduzione aziendale.
I giornali che ora si riempiono di titoli dove campeggia a la dicitura «Re Giorgio», stanno quasi tutti giustamente ignorando la chiacchiera – falsa, fasulla, da cui prendiamo le distanze – per cui sarebbe stato figlio biologico di Umberto II di Savoia. Su Internet per anni sono circolate immagini con le foto comparate del «re di maggio» e dell’uomo asceso alla più alta carica dello Stato, e definito poi (forse a seguito di un articolo del New York Times), appunto, «Re Giorgio».
Certo, la continuità della famiglia che con la massoneria ha unito l’Italia – il cosiddetto «Risorgimento» – anche al di là dell’esilio, passando attraverso un membro del PCI, è di per sé una storia di fantasia romanzesca estrema.
Inutile sbatterci la testa: ho conosciuto nobiluomini – ora non più fra noi – che erano pronti a giurare di aver notizie di prima mano sulla questione, ma in tanti smontano l’allucinante ipotesi. Nel ritratto del defunto fatto oggi su Il Tempo da Luigi Bisignani – che ha sempre smentito di essere mai appartenuto a qualsiasi Loggia e anche alla P2, anche se il suo nome, dice il Corriere, fu trovato negli elenchi trovati a Castiglion Fibocchi – la questione sabauda (una dinastia che, questo sito deve ricordarlo, magari con la Loggia qualcosa ha avuto a che fare) è affrontata di petto: quella per cui «Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato “Re Giorgio”» è solo una bufala «corroborata da una certa somiglianza fisica».
Bisignani va avanti: si tratta di «un gossip alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina. Invece quel “titolo nobiliare”, meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della trattativa Stato-mafia. Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di “rivendicare privilegi da monarca assoluto”, appunto da re».
Sarà così. C’entra la storia dello Stato-mafia, allora. Va bene. Anche quella, è un bel mistero. Dei misteri della mafia però parliamo dopo.
Del resto il Napolitano sapeva fare cose stupefacenti, enigmatiche: nel 1978, fu il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a cui gli USA fecero un visto d’entrata. Non una cosa da poco.
Il lettore anche non anzianissimo può ricordare che chi andava negli USA, fino a non troppi anni fa, in aereo doveva compilare un formulario in cui tra le altre cose c’era la domanda da film di Nanni Moretti: lei è comunista? Un mio professore della scuola del cinema, si narrava tra gli studenti che ne scherzavano la verve ingenua e militante, scrisse immediatamente «Sìiiii»: lo arrestarono immantinente. Non so se questa storia sia vera, ma è sicuramente vero che da comunista entrò tranquillo negli USA.
Secondo le cronache, tenne conferenze ad Aspen, cittadina sciistica del Colorado sede di quell’Aspen Institute di cui sarebbe socia italiana – con Tremonti, Prodi, Brunetta, Giorgetti, John Elkann – Giorgia Meloni, e per questo chiamata dai suoi critici «Lady Aspen».
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Nello stesso viaggio parlerà anche ad Harvard, fucina dell’élite statunitense, dove era professore un personaggio che lo prenderà in grande simpatia: Henry Kissinger, plenipotenziario per la politica Estera americana, accusato di crimini internazionali atroci, ma tuttavia amicissimo di Gianni Agnelli, il quale, riportano, nello stesso viaggio ospiterà il Napolitano nella sua celeberrima magione di Park Avenue, la splendida casa che sarà in seguito teatro di party dove, si mormora, l’unico della famiglia a potere entrare era Lapo (e chissà perché, e chissà se è vero…), che peraltro di Kissinger fu stagista.
Kissinger, che oramai centenario gli sopravvive alla grandissima, consegnerà alla storia una definizione eccezionale, che di fatto contrassegnava l’uomo prima di «Re Giorgio»: «il mio comunista preferito». Sì: Napolitano era il comunista preferito di Kissinger. Anche qui, chissà perché.
Il tour in America di Napolitano, effettuato dal 4 al 19 aprile 1978, cade in un momento tragico della Repubblica: il 16 marzo, cioè poco più di due settimane prima, era stato rapito il Presidente della DC Aldo Moro. Del terrorismo italiano parlò in America in un’intervista con il diffuso settimanale Newsweek, parlando di «degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista».
Napolitano, che fino al 1974 era tra i comunisti che criticava Solzhenitsyn, teneva per quella che fu chiamata «linea della fermezza»: nessuna concessione alle Brigate Rosse. Il risultato sappiamo quale è stato – ma chissà, con i «se» la storia non si fa, e poi anche quello di Moro è un mistero, dove si perdono, per citare il titolo di un libro sulla P2 di un parlamentare comunista suo compagno di partito, le Trame atlantiche.
I rapporti con gli yankee vanno a gonfie vele anche in Italia. Richard Gardner, l’ambasciatore americano in Italia durante gli anni di piombo, ha confidato tempo dopo che «Napolitano era l’unico tra i dirigenti del PCI con cui parlavo. Ci vedemmo riservatamente per ben quattro volte in casa del nostro amico Cesare Merlini, presidente dell’Istituto per gli Affari internazionali». Il Quotidiano Nazionale scrive che Napolitano «dal 20 luglio 1978 cambia l’orientamento dell’ambasciata USA a Roma»: gli ambasciatori di Via Veneto da allora cominciano a parlare con esponenti PCI, cosa che prima, almeno in apparenza, è decisamente tabù.
Passano gli anni, il Muro crolla. Occhetto piange alla Bolognina, il Partito Comunista cambia nome. Dall’altra parte dell’oceano qualcuno potrebbe aver visto un’opportunità: un partito di sinistra, desovietizzato, fa al caso dell’Impero. I Democristiani e tutti gli altri erano leali, ma fino ad un certo punto: i rapporti erano logori, l’ideologia – sia pur intossicata dalla stessa mano americana che ha infilato in Italia il pensiero di Maritain per creare la DC, cioè qualcosa che consentisse pragmaticamente la contraddizione di un Paese cattolico liberale – aveva ancora qualcosa di concreto, aveva delle radici, addirittura, orrore, «cattoliche».
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Dall’altra parte, era tabula rasa. Qualsiasi contorsione era possibile con un partito traumatizzato, fino alle lagrime, dalla perdita della propria identità profonda. Il PD di oggi, i cui militanti inneggiano al Battaglione Azov, chiedono il Nuovo Ordine Mondiale (sic) e accettano qualsiasi deriva neoliberale senza battere ciglio, è esattamente quello che qualcuno nella stanza dei bottoni atlantici aveva visto trenta anni fa – un partito radicale di massa, come diceva Augusto Del Noce, ma anche qualcosa di più: un nuovo alleato, anche molto affidabile, in qualcosa che va al di là dello scacchiere geopolitico – cioè il desiderio impellente dello Stato profondo, la riforma finale dell’essere umano, sessualmente e biomedicalmente ora evidentissima.
Il cambio di cavallo del dopo muro non riguardò solo l’Italia, investita per coincidenza da Tangentopoli: pensiamo al Sud Africa, dove di lì a poco un uomo considerato un terrorista marxista, Nelson Mandela, viene riabilitato totalmente, fatto uscire di prigione e messo alla presidenza del Paese. Anche il Giappone, sia pur con minor effetto, fu vittima di qualche scossa nei suoi gangli politici, con una sorta di «Mani Pulite» in salsa teriyaki che ha fatto da prolusione allo scoppio della baboru, cioè la fine della cavalcata dell’economia giapponese, finita in crisi nei decenni seguenti distruggendo per sempre l’idea di acchiappare economicamente gli USA e pure conquistarli pezzo per pezzo.
In Italia, però, arriva un tizio che gli Americani odieranno sempre: Silvio Berlusconi. Il suo governo, uscito da una schiacciante vittoria nel 1994 contro la sedicente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto («lo zombie coi baffi», disse Cossiga) dura pochissimo: arrivano nuove elezioni che installano Prodi, e Napolitano – riprendiamo il filo del nostro racconto misterico – fa da ministro dell’Interno.
Rammento confusamente il futuro presidente come ministro: ho un vago ricordo, senza possibilità di verificare, di una puntata di Sgarbi quotidiani dove il critico d’arte se la prendeva con una dichiarazione di Napolitano alla liberazione dell’imprenditore sequestrato Giuseppe Soffiantini: il ministro Napolitano, secondo quanto ricordava, parlava di vittoria dello Stato, quando quello che sarebbe successo, con il blocco dei beni, è che la famiglia aveva trovato comunque il mondo, dopo fallite operazioni delle teste di cuoio, di pagare ai sequestratori un riscatto da quattro milioni di dollari. Sgarbi attaccava a testa bassa. Napolitano, all’epoca non impressionava.
Di certo, non va dimenticato che con Livia Turco al Viminale sfornò la legge Turco-Napolitano, che creò i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. Non va scordato neppure che fu subissato di critiche perché, nel 1998, gli fuggì all’estero Licio Gelli, cioè proprio il supermassone a capo della P2, dove, en passant, in lista è segnato pure Vittorio Emanuele di Savoia.
Tuttavia il suo lavoro atlantico dietro le quinte non si è mai fermato. Nel 1994, tornato in viaggio in USA, incontra George Soros, che poco prima aveva affossato la lira. Nel 1996 sbarcherà a New York anche Massimo D’Alema: di lì a pochi anni diverrà premier, e con Clinton alla Casa Bianca (più Blair a Downing Street: il cosiddetto «Ulivo Mondiale») formerà un governo che permetterà la penultima guerra americana, pardon, del Patto Atlantico, in Europa.
È il 1999, la NATO, cioè i caccia americani che partono dalle nostre basi, bombardano la Serbia per formare il Kosovo albanese, staterello satellite USA ma pure, in seguito, grande protagonista di traffici di organi e fornitore di miliziani ISIS. Ministro della Difesa del tempo, lo hanno riportato alla memoria i giornali parlando dei vari filamenti del caso Vannacci-uranio impoverito, era l’attuale presidente Mattarella.
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Dei suoi trascorsi da europarlamentare per i DS – il partito allora si chiamava così – resta impresso solo uno scandaletto tirato fuori dalla stampa tedesca sui rimborsi biglietti aerei.
Nel 2005, Ciampi (quello che stava in plancia di comando alle finanze del Paese quando Soros attaccò la lira, e che poi divenne presidente della Repubblica) lo fece senatore a vita. Lo stesso Ciampi si dimetterà anticipatamente nel 2006 per far insediare il Napolitano eletto il 10 maggio alla quarta votazione come undicesimo presidente della storia repubblicana: il comunista preferito di Kissinger è ora capo dello Stato italiano.
Sono anni turbolenti: il governo Prodi cade ancora, le elezioni riportano al potere, e alla grandissima, Silvio Berlusconi, che è geopoliticamente sempre più scatenato: con Putin l’intesa è totale (fino ad essere, lo abbiamo visto di recente, commovente), più c’è la questione che il milanese riesce a ricavare con Gheddafi una pace assai lucrosa per l’Italia.
Nel 2011 accadono una serie di cose assai significative, le cui ramificazioni paghiamo ancora oggidì, dove Napolitano sembrerebbe aver avuto un ruolo. Prima «Re Giorgio» fa senatore a vita un tecnocrate relativamente sconosciuto, l’ex preside della Bocconi e Commissario Europeo, Mario Monti. Poco dopo, complice una manovra favorita da Parigi e Berlino (e l’assenso USA, ricorda nel suo libro l’ex ministro del Tesoro USA Timothy Geithner) e lo psicoterrorismo dello «spread», il premier regolarmente eletto Berlusconi viene detronizzato e viene piazzato in sua vece proprio il Monti.
Non solo: poco prima, quando al governo c’era ancora Silvio, la Libia viene attaccata da un’operazione anglo-francese, anche qui con il placet di Washington. Gheddafi viene linciato a morte. Dall’altra parte dell’oceano Hillary Clinton, informata della cosa, ride in modo isterico, quasi demoniaco, dinanzi alle telecamere.
Esponenti del centrodestra e dei 5 stelle negli anni dichiarano che dietro all’intervento del 2011 in Libia c’era lui, Giorgio Napolitano. Il presidente ha smentito.
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«Non interessa ora indagare sui motivi che spinsero Sarkozy a iniziare in tal modo l’attacco alla Libia di Gheddafi» disse Napolitano intervistato da Repubblica, facendo capire che la storia dei fondi di Gheddafi alla campagna del presidente francese può essere tralasciata. «Quella iniziativa intempestiva e anomala fu superata da altri sviluppi». Come si dice in questi casi, fait accompli.
«La consultazione informale di emergenza si tenne in coincidenza con la celebrazione al Teatro dell’Opera dei 150 anni dell’Unità d’Italia» prosegue il ricordo di Napolitano. «ma quella sera la discussione fu aperta dall’allora consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Bruno Archi, che era in contatto diretto con New York mentre veniva varata la seconda risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzò e sollecitò un intervento armato ai sensi del capitolo settimo della Carta dell’ONU».
Insomma, c’era un contatto con gli USA, con Nuova York, ma non è quello che pensate voi: non è il giro di Kissinger, è l’ONU.
«In quella sede informale potemmo tutti renderci conto della riluttanza del Presidente Berlusconi a partecipare all’intervento ONU in Libia» continua Napolitano. Pochi mesi dopo, il riluttante Berlusconi sarebbe stato sostituito da Monti nel primo vero esperimento di tecnocrazia del Paese.
La storia del Re va avanti. A ridosso delle elezioni 2013, per la prima volta nella Repubblica, viene rieletto presidente: tuttavia, è una manovra di lunghi coltelli nel suo partito, e pure una manovra astutissima di Berlusconi contro Prodi e contro i democratici in panne: al termine della votazione, dopo gli applausi di rito, si ode alla Camera un coro: «Sil-vio-Sil-vio…»
Nel 2015 Napolitano si dimette, sale al potere Mattarella. Anche lui dal PD, anche lui bissato dalla palude parlamentare. A Palazzo Chigi un nuovo tecnocrate, anche lui passato per Bruxelles (e per la Goldman Sachs), Mario Draghi.
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Ci dobbiamo fermare qua: dovevamo solo, in fondo, mettere insieme dei puntini, e magari indicare qualche mistero atlantico come abbiamo promesso dal titolo.
Abbiamo lasciato fuori qualcosa? Ah sì, Matteo Messina Denaro, l’immagine opposta di un capo dello Stato repubblicano, un capo dell’anti-Stato mafioso, per coincidenza finito in coma mentre il 98enne Napolitano lasciava la spirale mortale.
Cosa c’entra Messina Denaro con questa storia? Niente. In comune con Napolitano, oggi può avere solo il mistero sincronico della Vita e della Morte.
Tuttavia, uno pensa ai misteri atlantici e all’Italia, alle storie di presidenti e poteri fortissimi, e non è che può dimenticarsi quell’incontro, l’8 dicembre 1943, del presidente Roosevelt con Patton, Eisenhower (un altro futuro presidente) e vari altissimi comandanti dell’esercito USA… a Castelvetrano.
Sì, Roosevelt a Castelvetrano. Lo stesso luogo dove ha passato decenni in tranquillissima latitanza Matteo Messina Denaro, pure avvistato pubblicamente qui e là in un contorno, hanno improvvisamente ricostruito i giornali, pieno di massoni.
Il mistero si infittisce: lo prendono, gli anarchici immediatamente cominciano a protestare contro il 41 bis. Lui tuttavia non sembra molto interessato.
L’arresto è tranquillissimo, l’uscita dalla clinica è una sfilata geometrica. Ci dicono subito che ha il cancro.
In queste ore, scrivono i giornali, al suo capezzale ci sarebbe la figlia, cresciuta con un altro cognome, ma che in questi giorni ha chiesto e ottenuto di chiamarsi come il padre.
È un’immagine di paternità e destino che siamo qui ad osservare, e con cui ci sentiamo di chiudere questo articolo.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
Pensiero
Sterminio e «matrice satanica del piano globalista»: Mons. Viganò invita a «guardare oltre» la farsa psicopandemica
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Verso il liberalismo omotransumanista. Tucker Carlson intervista Dugin
Il giornalista americano Tucker Carlson ha pubblicato una potente intervista con il filosofo russo Aleksandr Dugin. La conversazione è stata pubblicata lunedì sul sito Tucker Carlson Network e sul suo canale YouTube.
L’incontro è avvenuto durante in viaggio di Carlson a Mosca – città nella quale Dugin gli dà il benvenuto – per la notoria intervista che il californiano ha ottenuto con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.
Come riportato da Renovatio 21, Dugin in un editoriale aveva sottolineato l’intervista di Carlson a Putin come un evento epocale in grado di riunire due anime della società russa, sia quella tradizionalista che quella filo-occidentale. Durante il suo soggiorno a Mosca – dove secondo alcuni sarebbe pure scampato ad un attentato, cosa di cui non vuole parlare – Tucker ha voluto incontrare Dugin, perché, racconta, curioso delle sue idee.
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Nella sua introduzione, il giornalista statunitense – dopo aver detto di credere ai servizi segreti americani quando dicono che la figlia di Dugin, Darja Dugina, è stata uccisa dagli ucraini – racconta di essere interessato a sentire qualcuno i cui libri sono stati proibiti dall’amministrazione Biden: quando lavorava ancora a Fox, Carlson fece un servizio sull’improvvisa sparizione dei libri di Dugin da Amazon, fenomeno notato da Renovatio 21 due mesi prima.
Parlando con il filosofo, ha quindi deciso di filmare i discorsi. Secondo Alex Jones, Carlson avrebbe filmato molto materiale, di cui è uscito questo segmento editato.
La conversazione pubblicata, della durata di 20 minuti, è stata particolarmente ricca di spunti di pensiero.
Ep. 99 Aleksandr Dugin is the most famous political philosopher in Russia. His ideas are considered so dangerous, the Ukrainian government murdered his daughter and Amazon won’t sell his books. We talked to him in Moscow. pic.twitter.com/4LrO0Ufg9P
— Tucker Carlson (@TuckerCarlson) April 29, 2024
Carlson chiede a Dugin cosa sta succedendo nei paesi di lingua inglese: «gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia hanno deciso all’improvviso di rivoltarsi contro se stessi con questo grande tumulto. E alcuni comportamenti sembrano molto autodistruttivi. Da dove pensa, come osservatore, che provenga questo?»
«Credo che tutto sia iniziato con l’individualismo» risponde Dugin. «L’individualismo era una comprensione sbagliata della natura umana, della natura dell’uomo. Quando si identifica l’individualismo con l’uomo, con la natura umana, si tagliano tutti i suoi rapporti con tutto il resto. Quindi si ha un’idea molto particolare del soggetto, del soggetto filosofico come individuo».
Qui Dugin offre una visione in linea con quella del tradizionalismo cattolico: «tutto è iniziato nel mondo anglosassone con la riforma protestante e prima ancora con il nominalismo: l’atteggiamento nominalista secondo cui non esistono idee, ma solo cose, solo cose individuali» spiega il filosofo.
«Quindi l’individuo, era la chiave ed è tuttora il concetto chiave che è stato posto al centro di un’ideologia liberale e del liberalismo poiché, nella mia lettura, è una sorta di processo storico e culturale, politico e filosofico di liberazione, dell’individuo, di qualsiasi tipo di identità collettiva, collettiva o che trascenda quella individuale».
«Tutto è iniziato con il rifiuto della Chiesa cattolica come identità collettiva, dell’impero, dell’impero occidentale come identità collettiva. Successivamente si è trattato di una rivolta contro uno Stato nazionalista come identità collettiva a favore di una società puramente civile. Dopo quella guerra, nel XX secolo ci fu la grande battaglia tra liberalismo, comunismo e fascismo. E il liberalismo ha vinto ancora una volta. E dopo la caduta dell’Unione Sovietica è rimasto solo il liberalismo».
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«Francis Fukuyama ha giustamente sottolineato che non esistono più ideologie all’infuori del liberalismo… il liberalismo, cioè la liberazione degli individui da ogni tipo di identità collettiva» spiega Dugin, citando il politologo noto negli anni Novanta per la nozione di «fine della Storia» a seguito del crollo del blocco sovietico.
«Erano rimaste solo due identità collettive da cui liberarsi: l’identità di genere perché è identità collettiva. Sei un uomo o una donna collettivamente (…) Quindi una liberazione dal genere. E questo ha portato ai transgender, alla comunità LGBT e a una nuova forma di individualismo sessuale. Quindi il sesso è qualcosa di facoltativo».
«Questa non era solo una deviazione del liberalismo. Erano elementi necessari per l’attuazione e il vincitore di questa ideologia liberale. E l’ultimo passo non ancora compiuto è la liberazione dall’identità umana. L’umanità è facoltativa. E ora stiamo scegliendo te in Occidente. Stai scegliendo il sesso che vuoi, come vuoi».
«L’ultimo passo in questo processo di liberalismo, nell’attuazione del liberalismo, significherà proprio l’umano come opzionale. Quindi puoi scegliere la tua identità individuale per essere umano, e per essere non umano. Questo ha un nome. Transumanesimo. Postumanesimo. Singolarità. Intelligenza artificiale».
«Klaus Schwab, Harari, dichiarano apertamente che il futuro dell’umanità è inevitabile. Arriviamo così alla storica stazione terminale: cinque secoli fa, siamo saliti su questo treno ed ora stiamo finalmente arrivando all’ultima stazione. Quindi questa è la mia lettura».
«Tutti gli elementi, tutte le fasi di questo, tagliano la tradizione con il passato. Quindi non sei più protestante. Sei un materialista ateo laico. Non hai più lo Stato nazionale che servì ai liberali per liberarsi dall’impero. Ora lo Stato nazionale diventa a sua volta un ostacolo. Ti stai liberando dallo Stato nazionale. Infine, la famiglia viene distrutta a favore di questo individualismo».
«E poi l’ultima cosa, il sesso, che è già quasi superato. Sesso facoltativo. E nella politica di genere c’è solo un passo per arrivare agli estremi di questo processo di liberazione, di liberalismo, cioè l’abbandono dell’identità umana come qualcosa di prescritto. Quindi essere liberi dall’essere umani, avere la possibilità di scegliere tra essere e non essere umani».
«Questa è l’agenda politica, l’agenda ideologica di domani. Ecco perché, come vedo il mondo anglosassone che mi ha chiesto» dice Dugin a Carlson. «Penso che sia solo avanguardia, perché è iniziato con gli anglosassoni, l’empirismo, il nominalismo, il protestantesimo. E ora siete in vantaggio con gli anglosassoni che sono più prosciugati dal liberalismo rispetto agli altri europei».
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Carlson procede con una domanda di approfondimento: «quindi le opzioni – per come le concepivo crescendo – erano l’individuo che può seguire la propria coscienza, dire quello che pensa, difendersi dallo Stato contro lo statalismo, il totalitarismo incarnato nel governo contro cui si lottava: il governo sovietico. E penso che la maggior parte degli americani la pensi in questo modo. Qual è la differenza?»
«Penso che il problema risieda in due definizioni di liberalismo» puntualizza Dugin. «C’è il vecchio liberalismo, il liberalismo classico. E nuovo liberalismo. Quindi il liberalismo classico era a favore della democrazia. Democrazia intesa come potere della maggioranza, del consenso, della libertà individuale. Ciò dovrebbe essere combinato in qualche modo con la libertà dell’altro».
«Ora siamo già completamente nella prossima stazione, nella fase successiva: il nuovo liberalismo. Ora non si tratta del governo della maggioranza, ma del governo delle minoranze. Non si tratta di libertà individuale, ma di wokismo. Quindi puoi essere così individualista da criticare non solo lo Stato, ma anche l’individuo, la vecchia concezione dell’individuo. Quindi ora hai bisogno di essere invitato a liberarti dall’individualità per andare oltre in quella direzione».
Dugin ricorda di averne parlato con Fukuyama in TV, «Come ha già detto in precedenza, la democrazia significa il governo della maggioranza. E ora si tratta del dominio delle minoranze contro la maggioranza, perché la maggioranza potrebbe scegliere Hitler o Putin. Quindi dobbiamo stare molto attenti con la maggioranza, e la maggioranza dovrebbe essere tenuta sotto controllo e le minoranze dovrebbero governare sulla maggioranza. Non è democrazia, è già totalitarismo».
«Ora non si tratta della difesa della libertà individuale, ma della prescrizione di essere woke, di essere moderni, di essere progressisti. Non è un tuo diritto essere o non essere progressista. È tuo dovere essere progressisti e seguire questo programma. Quindi sei libero di essere un liberale di sinistra. Non sei più abbastanza libero per essere un liberale di destra. Devi essere un liberale di sinistra. E questo è una sorta di dovere. È una prescrizione. Il liberalismo ha lottato nel corso della sua storia contro ogni tipo di prescrizione. E ora è diventato a sua volta totalitario, prescrittivo e non più libero com’era».
«E le crede che questo processo sia stato inevitabile? Sarebbe comunque successo?» domanda il Tucker.
«Percepisco qui una sorta di logica. Quindi un tipo di logica che non è solo un ritorno o una deviazione. Inizi con uno scopo: vuoi liberare l’individuo. Quando arrivi al punto in cui è possibile, viene realizzato. Quindi è necessario andare oltre. Da questo momento inizia la liberazione dalla vecchia comprensione dell’individuo in favore di concetti più progressisti. Non ci si poteva fermare qui. Questa è la mia visione».
«Quindi se dici “Oh, preferisco il vecchio liberalismo”, direbbero, i progressisti, direbbero, non si tratta del vecchio liberalismo, ma di fascismo: divieni il difensore del tradizionalismo, del conservatorismo, del fascismo. Quindi fermati qui. O divieni progressista liberale o sei finito, o ti cancelleremo. Questo è ciò che osserviamo».
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«E vedere i sedicenti liberali bandire il suo libro, che non è un manuale per fabbricare bombe o invadere l’Ucraina» dice Carlson. «Sai, queste sono opere filosofiche. Ti dice che non è, ovviamente, non è liberale in alcun senso. Mi chiedo però, quando si arriva al punto in cui l’individuo non riesce più a liberarsi da nulla, quando non è nemmeno più umano. Qual è il prossimo passo?»
«Ciò è descritto nei film, nei film americani, nei film, in molti modi. Quindi penso che, sai, tutta la fantascienza, quasi tutta quella del XIX secolo, è stata realizzata nella realtà negli anni Venti. Quindi non c’è niente di più realistico della fantascienza. E se consideriamo Matrix o Terminator, abbiamo tantissime versioni del futuro più o meno coincidenti, il futuro con la situazione post-umana o umana opzionale o con l’Intelligenza Artificiale», replica Dugin.
«Hollywood ha realizzato molti, molti, molti film. Penso che rappresentino correttamente la realtà del prossimo futuro. Ad esempio, se consideriamo l’uomo, la natura umana, come una specie di animale razionale, allora con la nostra tecnologia si può produrli, così da poter creare animali razionali o combinarli o costruirli con l’Intelligenza Artificiale».
«È una specie di re del mondo. Direi che non solo può manipolare, ma creare realtà perché le realtà sono solo immagini, solo sensazioni, solo sentimenti. Quindi penso che il futurismo post-umanista sia non solo una sorta di descrizione realistica di un futuro molto possibile e probabile, ma anche una sorta di manifesto politico. Questo è un pio desiderio».
«Il fatto che i film non descrivono un brillante futuro tradizionale. Non conosco nessun film sul futuro e sull’Occidente che dipinga un ritorno alla vita tradizionale, alla prosperità, alle famiglie con molti figli… e tutto è abbastanza nell’ombra, abbastanza oscuro. Quindi, se sei abituato a dipingere tutto di nero soprattutto nel futuro, quindi questo futuro nero una volta arriva e penso che sia il fatto che non abbiamo altra scelta. O Matrix o Intelligenza Artificiale o qualcosa del genere o Terminator. Quindi la scelta è già fuori dai limiti dell’umanità. E questa non è solo fantasia, credo. Questo è una sorta di progetto politico. Ed è facile immaginarlo, poiché abbiamo visto i film, seguono più o meno da vicino questa agenda progressista, direi».
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Carlson procede con un’ultima domanda, chiedendo del fenomeno per cui «per oltre 70 anni un gruppo di persone in Occidente e negli Stati Uniti, liberali, hanno difeso efficacemente il sistema sovietico e lo stalinismo, e molti vi hanno partecipato personalmente spiando per Stalin, lo ha sostenuto nei nostri media» dice il giornalista. «Amavano Boris Eltsin perché era ubriaco. Ma nel 2000, la leadership di questo Paese è cambiata e la Russia è diventata il loro principale nemico. Quindi, dopo 80 anni e passa di difesa della Russia, si sono messi ad odiare la Russia. Che cosa è tutto questo? Perché il cambiamento?»
«Penso che, prima di tutto, Putin sia un leader tradizionale. Quando Putin salì al potere, fin dall’inizio, ha cominciato a sottrarre il nostro Paese, la Russia, all’influenza globale. Così ha iniziato a contraddire l’agenda progressista globale. E queste persone che sostenevano l’Unione Sovietica erano progressisti, che hanno avuto la sensazione di avere a che fare con qualcuno che non condivide l’agenda progressista e che ha tentato con successo di restaurare i valori tradizionali, la sovranità dello Stato, il cristianesimo, la famiglia tradizionale».
«Questo non era evidente fin dall’inizio, da fuori. Ma quando Putin ha insistito sempre di più su questa agenda tradizionale, direi, sulla particolarità e spiritualità della civiltà russa come un tipo speciale di regione del mondo che aveva e ha ora, pochissime somiglianze con i progressisti, gli ideali progressisti. Quindi penso che abbiano scoperto, abbiano identificato cosa esattamente è Putin. È una sorta di leader, un leader politico che difende i valori tradizionali».
Solo di recente, un anno fa, Putin ha emanato un decreto di difesa politica dei valori tradizionali. É stato un punto di svolta, direi. Ma gli osservatori del campo progressista in Occidente, penso che lo abbiano capito correttamente fin dall’inizio del suo governo. Quindi, questo odio non è solo casuale, qualcosa di casuale o uno stato d’animo. Non lo è… È metafisico».
«Quindi, se il tuo compito principale e il tuo obiettivo principale è distruggere i valori tradizionali, la famiglia tradizionale, gli stati tradizionali, le relazioni tradizionali, le credenze tradizionali e qualcuno con l’arma nucleare – questo non è l’argomento più piccolo, ma nemmeno il meno importante – può resistere e difendere i valori tradizionali che stai per abolire… Ecco, penso che ci sia qualche fondamento per questa russofobia e per l’odio per Putin. Quindi non è solo un caso. Non si tratta di un cambiamento irrazionale dal filosovietismo alla russofobia. È qualcosa di più profondo direi. Questa è la mia ipotesi».
Tanto, tanto materiale su cui riflettere.
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Immagine screenshot da Tucker Carlson Network
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Pensiero2 settimane fa
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