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Lettera a due amici in prima linea

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Pubblichiamo questa lettera del collaboratore di Renovatio 21 Alessandro Corsini, che scrive a una coppia di sanitari nostri sostenitori che ha appena perso il lavoro a causa del rifiuto di sottoporsi al vaccino.

 

 

 

Cari amici miei, compagni di tante battaglie,

 

 

Come va in prima linea?

 

Qui dalla nostra posizione, al momento più riparata, si sentono in lontananza tanti spari, sembra di sentire grida disperate che graffiano i nostri cuori, facendoci quasi sperare di essere inviati nella mischia per potervi sostenere.

 

Viviamo in una guerra terribile e voi la state combattendo sin dai suoi primi istanti faccia a faccia con il nemico, come dovrebbe sempre fare una prima linea che si rispetti; con voi intendo medici, infermieri, OSS che in maniera ammirevole ed eroica avete imbracciato per primi, fieramente, senza esitazioni, le armi dell’obiezione di coscienza di fronte all’obbligo satanico dell’inoculazione sperimentale; della rettitudine morale, al cospetto di una evidente cooperazione al male dalle conseguenze nefaste per le anime; e del coraggio, come reazione ad un Moloch affamato, smanioso di divenire sovrano dei corpi di miliardi di esseri umani.

 

Di solito, in prima linea, si mandano i combattenti più sacrificabili utili solo a preparare il campo per gli altri nelle retrovie, anche per noi che siamo qui ad ammirarvi da lontano.

 

Tranquilli, tra poco la seconda linea, composta dagli insegnanti, quelli bravi, verrà a darvi manforte, e poi, chissà, tra non molto potremmo rivederci e combattere di nuovo fianco a fianco, come ai tempi delle battaglie per le scuole dei nostri figli.

 

Purtroppo non tutti coloro che sarebbero chiamati a combattere e ad aiutarvi hanno onorato questi giorni di sacrificio: come in ogni guerra, i buoni non si devono preoccupare solo delle minacce provenienti dalle file del nemico, ma ahimè, anche dai tradimenti, dall’indifferenza e dall’inettitudine dei propri commilitoni.

 

Cari amici, mentre voi siete lì in trincea, sotto le bombe di un lavoro perso ingiustamente sotto un vile ricatto che mette a repentaglio la vostra vita e quella dei vostri figli, c’è chi questa guerra non la sta nemmeno combattendo, e forse neanche si è accorto sia iniziata

Ebbene sì cari amici, mentre voi siete lì in trincea, sotto le bombe di un lavoro perso ingiustamente sotto un vile ricatto che mette a repentaglio la vostra vita e quella dei vostri figli, c’è chi questa guerra non la sta nemmeno combattendo, e forse neanche si è accorto sia iniziata: ci sono i vigliacchi, coloro che per una vita, a parole, da cristiani ipocriti, hanno rivendicato una superiorità morale rispetto agli altri fratelli, riempiendosi la bocca di concetti che nemmeno comprendono, come per esempio il più inflazionato «salviamo il seme della Fede», non capendo che l’unico modo per salvarlo sarà sempre il sacrificio, anche estremo se richiesto.

 

«Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà» (Mt 16, 25).

 

«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gio 12, 24).

 

Come padri e madri di famiglia, cosa lasceremmo in eredità ai nostri figli, se non fossimo fedeli e coerenti sino alla fine di fronte a principi morali assoluti quali l’inviolabilità della vita umana, palesemente stuprata da un’atroce filiera farmaceutica, assetata di sangue innocente sia nella sua origine che nel suo obiettivo finale?

 

Quale insegnamento potrà mai dare ai propri figli, un padre di famiglia, sempre dichiaratosi contro l’aborto, ed ora cedevole nel farsi inoculare con un siero macchiato di sangue innocente?

Poi ci sono i «disertori», coloro cioè che sarebbero fondamentali nel sostenerci nella buona battaglia ma che nel momento del bisogno sono letteralmente spariti

 

Ci sono le anime belle, coloro che non si sono accorte nemmeno che una guerra decisiva sia iniziata, figuriamoci se saranno mai disposte a combatterla: costoro si sono contaminati talmente tanto con il mondo, da aver perso irrimediabilmente la percezione del bene e del male.

 

Essi non si indignano più per nulla, il loro spirito critico è piegato su se stesso, anestetizzato da anni di compromessi e di adattamento al «male minore».

 

Queste figure, apparentemente buone, sostenitrici convinte della non belligeranza col mondo, nemmeno ora, con lo svelarsi nel piano del nemico di odiose pratiche ricattatorie e delle tragiche conseguenze sulla salute delle «cavie» degli inutili sieri sperimentali, sono in grado di vedere, di interrogarsi, di mettersi in discussione lasciandosi alle spalle false certezze omologanti diventate per loro il nuovo «decalogo».

 

Ci sono gli inetti, persone che pur avendo parlato per anni di ciò che sarebbe accaduto, di come il Male sarebbe arrivato alla resa dei conti con il «piccolo resto» di combattenti, al presentarsi reale della prova, ne rimangono pietrificati.

 

Anni di convegni, di apparente controinformazione, pagine e pagine di articoli, di saggi e di conferenze, per poi accorgersi di essere incatenati alla comodità del non schierarsi mai. Dietro alla tendenza spocchiosa e da «figli di papà» del sentirsi sempre super partes, «non siamo né guelfi né ghibellini» dicono dall’alto della loro saccenza, è evidente come emerga la totale mancanza di una spinta propulsiva, assorbita da situazioni di comodo a cui non rinuncerebbero per nulla al mondo, veri e propri idoli cui sacrificare la propria libertà, la propria intelligenza e la propria coscienza: l’amicizia di comodo, il quieto vivere famigliare, il prestigio sociale, il rispetto umano, una buona posizione lavorativa.

 

Queste figure somigliano in modo impressionante al giovane ricco del Vangelo che chiese a Gesù:

 

«“Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?” Gesù gli rispose: “Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. “Quali?” gli chiese. E Gesù rispose: “Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso. Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso”. E il giovane a lui: “Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora?” Gesù gli disse: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dàllo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi”. Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni». (Mt 19,16-30)

 

Poi ci sono i «disertori», coloro cioè che sarebbero fondamentali nel sostenerci nella buona battaglia ma che nel momento del bisogno sono letteralmente spariti: e qui duole dirlo ma l’assenza di guide spirituali forti e coraggiose, tranne in rarissimi casi, si è fatta sentire, soprattutto tra gli «intoccabili» tradizionalisti.

 

Com’è possibile che tante famiglie si trovino in prima fila a combattere nella difesa di ciò che è rimasto di più sacro sguarnite del sostegno morale e spirituale di santi sacerdoti, i quali, addirittura tra gli insospettabili, sono stati spesso occasione di scandalo per i fedeli stessi?

 

Disertori: i loro continui silenzi ci parlano di pastori completamente distaccati dalla realtà, che non esortano più a vivere con virilità e radicalità le virtù cristiane (che voi in prima linea state eroicamente testimoniando già oggi, mentre vi sto scrivendo questa lettera).

 

Non ci capiscono, vedete, non comprendono più la nostra radicalità, la nostra fermezza e la nostra testardaggine: non lo possono fare perché non ci hanno seguito sul campo di battaglia in questi duri anni post legge Lorenzin (2017) che ci hanno portato fino a questo punto.

 

Noi già da anni viviamo la «segregazione razziale» dei nostri figli, essendo stati obiettori della prima ora; già da anni conoscevamo la Necrocultura che sta alla base della follia sanitaria in atto

Noi già da anni viviamo la «segregazione razziale» dei nostri figli, essendo stati obiettori della prima ora; già da anni conoscevamo la Necrocultura che sta alla base della follia sanitaria in atto.

 

La considerazione amara, che vale non solo per i sacerdoti bensì per gran parte dell’intellighenzia cattolica, è che il vuoto lasciato dai disertori, si è riempito con personalità provenienti da ambienti totalmente estranei alla Chiesa – davvero «i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» perché «non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

 

Sta tutto qua vedete, e voi che siete laggiù a soffrire sotto il fuoco nemico lo sapete meglio di me; la differenza sta tutta tra l’esserci e il non esserci, tra il riconoscere i segni dei tempi e percorrere la strada che Dio ci presenta, occasione, chissà, di santificazione personale, e il voler privarsi di tutto questo, nascondendosi dietro a una falsa idea di Fede, legalista, calcolatrice, in poche parole farisaica.

 

Cosa farebbe Gesù al nostro posto? Sarebbe in prima linea con voi cari medici, infermieri e OSS assetati di giustizia, sostenendovi davanti al sinedrio della nuova falsa religione scientista, stringendo forte le vostre mani che per anni hanno a loro volta stretto milioni di mani di anziani, bisognosi e malati a cui voi, consapevolmente o inconsapevolmente avete portato Cristo

Non dobbiamo nasconderci dietro la sterile e cinica idea di liceità di un atto morale, questo non farebbe altro che trasformare la nostra vita in un insieme di azioni meccaniche esteriori lontane anni luce dal nostro cuore, dove Dio da sempre vuole abitare e in cui vuole essere da noi adorato; bensì dobbiamo chiederci se compiendo quell’atto, quell’azione, noi rendiamo o meno servizio e gloria a Dio stesso, arrivando a pensare cosa Gesù avrebbe fatto al nostro posto.

 

E cosa farebbe Gesù al nostro posto? Sarebbe in prima linea con voi cari medici, infermieri e OSS assetati di giustizia, sostenendovi davanti al sinedrio della nuova falsa religione scientista, stringendo forte le vostre mani che per anni hanno a loro volta stretto milioni di mani di anziani, bisognosi e malati a cui voi, consapevolmente o inconsapevolmente avete portato Cristo.

 

Resistete laggiù in prima linea, cari amici, stiamo arrivando anche noi, e non vi lasceremo soli!

 

Dedicato a C. e M. (e ai loro splendidi bambini)

 

 

Alessandro Corsini

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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