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Persecuzioni

Ennesima chiesa canadese distrutta dalle fiamme. La polizia: «incidente sospetto»

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Una delle più antiche chiese cattoliche nella provincia canadese dell’Alberta è arsa tra le fiamme la scorsa settimana in quello che la polizia ha ritenuto un incidente «sospetto». Lo riporta il sito canadese Lifesitenews.

 

La distruzione dell’ennesima storica chiesa cattolica in Canada è avvenuta giovedì scorso nella remota città di Fort Chipewyan, nell’Alberta settentrionale. L’incendio ha visto la chiesa cattolica della Natività della Beata Vergine  vecchia di 113 anni, ridotta a nient’altro che alle sue fondamenta bruciate. La chiesa era stata edificata dai missionari Oblati nel 1909.

 

Sebbene le forze dell’ordine abbiano affermato che la causa generale dell’incendio non è ancora chiara, secondo la Royal Canadian Mounted Police (RCMP), il rogo viene trattato come «sospetto».

 

«Lo riteniamo sospetto», ha detto ai media il portavoce dell’RCMP, il caporale Troy Savinkoff. «Ma stiamo ancora indagando per vedere quale sia la potenziale causa dell’incendio».

 

Il numero di chiese finite nel fuoco negli ultimi mesi è impressionante.

 

Dalla primavera del 2021, oltre 100 chiese, la maggior parte delle quali cattoliche, sono state bruciate o vandalizzate in tutto il Canada.

 

Tali attacchi alle chiese sono avvenuti poco dopo la scoperta di tombe anonime in  scuole residenziali ora chiuse, un  tempo gestite dalla Chiesa in alcune parti del Canada, nella primavera dello scorso anno, uno scandalo anticlericale in realtà già smontato come bufala da tempo, al quale tuttavia ha dato nuova vita la visita di Bergoglio nel Paese con annesse scuse e riti di negromanzia pagana con i First Nation, gli indigeni canadesi.

 

Gli incendi potrebbero essere quindi diretta conseguenza della vera fake news propalata dai media mainstream nel 2021, secondo cui centinaia di bambini sarebbero stati sepolti e ignorati dai preti cattolici e dalle suore che gestivano alcune scuole. Le fosse comuni di cui hanno parlato i giornali, semplicemente non sono state trovate. Le accuse di genocidio contro la Chiesa cattolica, tuttavia, sono rimaste.

 

Il primo ministro canadese Justin Trudeau, allievo del programma del World Economic Forum Young Global Leaders, l’anno scorso ha aspettato settimane prima di riconoscere il vandalismo contro le chiese per poi dire che che è  «comprensibile» che le chiese siano state bruciate, puntualizzando come questo sia però «inaccettabile e sbagliato».

 

Come riportato da Renovatio 21, il programma di trasformazione dell’un tempo molto cattolico Canada procede in modo spedito, tra la liberalizzazione imponente dell’eutanasia, che ha superato i 10 mila morti nel 2021, e che si appresta ad essere utilizzata anche a persone con malattie mentali, è l’introduzione dell’ID digitale nazionale, spinto da un programma del sistema bancario legato al WEF e accelerato, a quanto sembra, in concomitanza con le proteste dei camionisti ad inizio anno., cui il governo Trudeau ha opposto una «guerra finanziaria totale» mai vista altrove.

 

Tutto questo avviene, guarda un po’, mentre le chiese vengono date alle fiamme…

 

 

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India, tensioni mortali tra indù e cristiani

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Lo stato di Manipur (India) decreta il coprifuoco mentre le rivalità religiose ed etniche pongono indù e cristiani gli uni contro gli altri, in un contesto di crescente immigrazione dal vicino Myanmar, dove le popolazioni cristiane fuggono dalla guerra civile che sta insanguinando il loro Paese.

 

Parlando della Nigeria, questo sito ha recentemente citato il fattore etnico come elemento di spiegazione delle violenze di cui più spesso fanno le spese i cristiani. Un contesto simile si osserva nel Manipur, Stato al confine con il Myanmar, Paese dilaniato da una sanguinosa guerra civile ma anche vero e proprio Eldorado per il traffico di droga.

 

In questa zona del Nord-Est dell’India è in corso un conflitto a porte chiuse che contrappone i Metei – gruppo etnico dominante di religione indù che rappresenta circa il 53% della popolazione locale – ai Kuki-zo, gruppo etnico cristiano stimato Il 41% dei 3,2 milioni di abitanti del Manipur.

 

Questa rivalità ancestrale ha dato origine a rinnovate violenze da un anno e mezzo, da quando un tribunale locale, contestando i vantaggi concessi all’etnia Kuki-zo a causa del suo status di minoranza, ha deciso di riconoscere diritti equivalenti ai Metei, ancora favoriti dalla la loro posizione dominante.

 

Anche se la Corte Suprema di Nuova Delhi ha annullato la decisione dei giudici di Manipur, il danno è fatto: da maggio 2023 le violenze hanno causato la morte di oltre 230 persone – la maggior parte kuki-zo – 60.000 persone sono state costrette a intraprendere il cammino dell’esilio e più di 300 chiese furono bruciate. I cristiani accusano gli indù di voler «cancellare le tracce stesse della loro esistenza», specifica Ucanews.

 

Il 10 settembre 2024, il governo del Manipur, guidato dal partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party (BJP), ha imposto un coprifuoco generale dopo che le violenze interetniche hanno causato nuovamente la morte di 11 persone. «Invece di proteggere le comunità vulnerabili e difendere lo stato di diritto, le autorità stanno gettando benzina sul fuoco dividendo ulteriormente le posizioni», ha affermato Meenakshi Ganguly, vicedirettore di Human Rights Watch in Asia.

 

Va detto che il primo ministro del Manipur, N. Biren Singh, non contento di favorire la posizione della sua etnia Metei, accusa i kuki-zo di accogliere gli immigrati in fuga dal vicino Myanmar in guerra. Questi immigrati appartengono al gruppo etnico cristiano Chin, che condivide forti legami etnici con i kuki-zo.

 

«La polizia di frontiera è stata allertata che sono in corso operazioni di ricerca», ha detto Kuldiep Singh, consigliere per la sicurezza di Manipur, aggiungendo che i distretti collinari, dove vivono le tribù Kuki, sono sotto maggiore sorveglianza da parte delle forze militari federali.

 

A questo bisogna aggiungere un altro ingrediente: l’oppio e le metanfetamine, di cui il vicino Myanmar è diventato uno dei principali paesi produttori al mondo. Con l’obiettivo di finanziare la guerra, gruppi armati – dall’esercito regolare birmano ai secessionisti chin legati all’indiano Kuki-zo – si dedicano in totale impunità al traffico di droga, che preoccupa sempre più i loro vicini e i cui effetti collaterali si fanno sentire sul piano militare. Ad Ovest, nelle periferie francesi per parlare solo di esse.

 

Inoltre, il 17 settembre, Amit Shah, ministro federale degli Interni, ha dichiarato durante una conferenza stampa nella capitale indiana che era stata preparata una «road map per la pace». «Stiamo parlando sia con kuki-zo che con Meitei e controlleremo la situazione», ha detto il ministro.

 

«Se c’è qualcuno che può risolvere questa crisi, quello è il governo federale», ha detto a Ucanews un alto funzionario della gerarchia cattolica. E per confidare, sotto la copertura dell’anonimato, il suo «scetticismo» sul futuro. «La situazione sarebbe potuta essere diversa se fossero state adottate misure proattive nel maggio 2023», ritiene.

 

Resta una certezza: i cristiani del Manipur non hanno finito di pagare il prezzo di conflitti che intrecciano geopolitica, religione e rivalità etniche.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Sacerdote greco-ortodosso colpito dalle bombe israeliane in Libano

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   La vittima è padre Gregorius Saloum, parroco di Ibl al-Saqi, nel sud del Paese. Il prete gravemente ferito nell’attacco avvenuto ieri assieme alla moglie e ai figli. Colpito anche villaggio cristiano di Kfour, vicino a Nabatieh, dove si sono registrati pesanti danni alla locale chiesa.   I raid aerei israeliani nel sud del Libano continuano a colpire anche i cristiani: è di oggi pomeriggio la notizia al momento non verificabile secondo cui sarebbe morto padre Gregorius Saloum, parroco della Chiesa greco-ortodossa di Ibl al-Saqi, nel sud del Paese.   L’informazione è stata rilanciata in rete da Quds News Network, anche se non vi sono al momento conferme ufficiali sul decesso. In precedenza diverse fonti avevano parlato di «ferimento» del sacerdote, affiliato al Patriarcato ortodosso di Antiochia, che risulta ricoverato nel reparto di terapia intensiva di un ospedale di Beirut per cure mediche.

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In un continuo alternarsi di voci, resta il sentimento di profondo timore e preoccupazione dei cristiani libanesi, segnati dalla guerra fra Hezbollah e Israele con l’ingresso la notte scorsa di truppe dell’esercito con la stella di David (IDF) nell’ambito di una «limitata» operazione di terra. Le fonti riferiscono anche che nell’attacco avvenuto ieri sarebbero rimasti feriti anche la moglie e i figli di padre Gregorius, ma al momento non si hanno ulteriori dettagli sulle loro condizioni. La sua abitazione, situata sulla collina di al-Sagi, sarebbe stata investita da una raffica di missili.   La vicenda del prete ortodosso è solo l’ultima di una serie di attacchi e distruzioni che riguardano pure i cristiani libanesi, in una guerra che solo sulla carta riguarda il Partito di Dio e l’esercito israeliano ma nei fatti investe tutta la popolazione del Paese dei cedri. Ieri, infatti, era stato colpito anche il villaggio cristiano di Kfour, vicino a Nabatieh, dove si sono registrati pesanti danni alla locale chiesa causato dallo Tsahal (IDF, in ebraico).   Prima ancora a essere centrato dai caccia israeliani era stato il villaggio di Aïn el-Delb, nei pressi di Sidone, nel Sud del Paese. Nell’area, a maggioranza cristiana, sono 32 le vittime accertate e una di queste era una donna cristiana. A questi si aggiungono decine di feriti.   Una fonte di AsiaNews aveva spiegato che l’obiettivo dell’attacco era un combattente esperto e di primo piano di Hezbollah, identificato con il nome di Ahmad Awarki, che risulta essere fra l’altro il «responsabile» del movimento sciita per la città di Sidone. Per raggiungerlo ed essere sicuri di ucciderlo non hanno esitato a colpire a tappeto e un intero edificio è crollato investito dalla raffica di missili.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Cristiani di Raqqa: incontro con gli ultimi Mohicani

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C’erano cinquemila cristiani a Raqqa (Siria) prima dell’arrivo dei soldati della jihad. Dieci anni dopo, ne restano solo ventisei. Cifre che parlano più forte di un lungo discorso. Tre di questi «ultimi Mohicani» testimoniano e confermano che il futuro dei cristiani orientali nella regione è più che mai punteggiato.

 

«Raqqa è stata presa dallo Stato Islamico (IS) nel 2013 e dichiarata capitale del califfato nel 2014», ricorda il sito Open Doors. I cristiani allora abbandonarono tutti la città, solo una manciata è ancora aggrappata a questo luogo.

 

Lo scorso aprile «tre chiese sono state consegnate ai cristiani di Raqqa», riferisce lo stesso sito. Ma la Chiesa dei Martiri di Raqqa è «l’unico luogo di culto cristiano» ad aver potuto risorgere dalle sue ceneri: una chiesa «robusta e fiera (che) innalza la sua croce di ferro verso un cielo di polvere» (La Croix).

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Armin Mardoian spiega all’inviato speciale di La Croix : «la chiesa è stata ricostruita identica nel 2023, ma i cristiani la gestiscono solo dallo scorso febbraio», constata questo ex fabbro che gestisce l’entità che protegge la proprietà di assiri, siriaci. Cristiani caldei e armeni.

 

«Sotto Daesh, le tre chiese della città sono state sequestrate, saccheggiate e quelle che non erano state demolite sono state bombardate quando la città è stata riconquistata dalla coalizione internazionale», precisa. Il tempo in cui la comunità cristiana viveva in pace si perde nelle nebbie di un passato lontano.

 

«Prima vivevamo qui in pace e potevamo praticare liberamente la nostra religione. Ma non appena sono arrivati ​​i primi islamisti, prima con l’Esercito siriano libero, poi con il Fronte Al-Nusra e infine Daesh, praticamente tutti i cristiani sono fuggiti nel sud del Paese o in Europa», lamenta Armin Mardoian.

 

Al suo fianco, un altro cristiano che preferisce tacere il suo nome, racconta come è sopravvissuto all’inferno del jihad: ha dovuto convertirsi o pagare la «djizia», una tassa richiesta agli «infedeli» in cambio di una certa sicurezza. Il nostro uomo paga, ma dovrà accettare i codici di abbigliamento decretati dai jihadisti e chiudere la sua attività durante gli orari di preghiera.

 

«Non abbiamo nemmeno osato riunirci nelle nostre case. Avevamo tanta paura che abbiamo tolto dalle pareti le immagini della Beata Vergine e di Cristo. È stato un momento estremamente doloroso», sospira.

 

Il calvario dei cristiani durerà tre anni, un’eternità; ma anche dopo la liberazione di Raqqa, nell’ottobre 2017, e la politica di tutela delle minoranze religiose, pochissimi esuli hanno intrapreso la via del ritorno: «Ci sono cellule Daesh attive nella regione, riceviamo ancora messaggi su WhatsApp che ci minacciano e chiamano noi non credenti», sottolinea un cristiano.

 

Questa donna, originaria di Aleppo, confida di essere stata rapita dall’organizzazione Stato Islamico in compagnia del padre e del marito: tutti e tre erano stati denunciati da un tassista che voleva integrare i suoi fine settimana. Torturata e sottoposta a numerosi abusi, si è unita ai suoi correligionari con i quali finalmente dice di «sentirsi sicura, nonostante le minacce».

 

Nel febbraio 2024, «il Comitato dell’Alta Proprietà ha aperto la sua sesta filiale nazionale a Raqqa, la cui missione è proteggere i diritti delle comunità minoritarie». Ma anche «documentare le proprietà siriache (aramaiche, assire e caldee) e armene, in particolare quelle appartenenti agli assenti, nel quadro di un mandato legale», riferisce SyriacPress .

 

È nella speranza che i cristiani in esilio ritornino un giorno, che Armin Mardoian, funzionario amministrativo del Comitato, porta a termine il suo compito: è necessario «inventare le terre e le proprietà di coloro che sono stati espropriati nel caso in cui vogliano poter ritornare un giorno, ma è difficile, perché la maggior parte dei documenti ufficiali sono stati distrutti», spiega a La Croix.

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Case appartenenti a cristiani in esilio sono state acquisite illegalmente. «Bisogna fare un’indagine tra coloro che si trovano oggi in Europa, o in Australia, e preparare un dossier presso la Corte di giustizia locale per far riconoscere la situazione», aggiunge, non un po’ orgoglioso di aver «recuperato un po’ più della metà della terra appartiene alla comunità».

 

Ma non c’è da scoraggiarsi, confida addirittura uno dei tre cristiani sopravvissuti: «nel 1915, il nostro popolo fu massacrato dal regime turco. Le nostre chiese sono state trasformate in moschee, non possiamo permettere che ciò accada di nuovo». Una lotta senza il conforto dei sacramenti. Se la Chiesa dei Martiri è in piedi, non c’è ancora nessun prete a celebrare la messa.

 

«Dipendiamo dalla Chiesa cattolica di Aleppo, è loro responsabilità mandarci qualcuno», insiste uno dei tre cristiani intervistati. Ma, fatalista: «Anche se nessuno tornasse, vogliamo che le nostre chiese restino, almeno come simbolo a testimonianza che abbiamo vissuto qui. E sopravvissuto».

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

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