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Cina

Cina, le autorità demoliscono a picconate la casa di sacerdoti e suore

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

La chiesa locale, che è enorme, è al momento risparmiata. I fedeli chiedono di pregare per far cambiare idea al sindaco. L’abitazione distrutta si trova in un’area di alto valore urbanistico. La comunità cattolica del luogo è senza vescovo dal 2005. Il rinnovo a ottobre dell’Accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi non ha fermato la repressione governativa.

 

 

 

La polizia di Datong (Shanxi) ha iniziato ieri a demolire la casa della diocesi locale che serve per i sacerdoti e come convento delle suore. AsiaNews lo ha appresso da fonti sul luogo che hanno fatto circolare online video dell’accaduto.

 

La chiesa e l’abitazione sono lì da 100 anni e hanno tutti i permessi. Si trovano però in un’area di alto valore urbanistico. La prima è al momento risparmiata: è enorme e la sua demolizione farebbe scalpore, anche a livello internazionale. L’altro edificio è stato distrutto invece a colpi di martello e picconi.

 

I fedeli di Datong lanciano messaggi su Wechat chiedendo a tutti di pregare per fermare il comportamento irragionevole del sindaco. Dal 2005 la diocesi è senza vescovo: è tra quelle «ufficiali», riconosciute dal Partito Comunista Cinese. L’ultimo pastore è stato mons. Taddeo Guo Yingong, che ha iniziato il suo ministero nel 1990 ed è morto nel 2005. Aveva passato più di10 anni ai lavori forzati durante la Rivoluzione culturale.

 

Nel novembre 2018 un gruppo di fedeli della diocesi ha diffuso una lettera aperta e firmata, con cui denunciava la crescente oppressione del governo verso la comunità cristiana dopo il varo dei Nuovi regolamenti sulle attività religiose.

 

La firma nel 2018, e il duplice rinnovo nell’ottobre 2020 e 2022, dell’Accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi non ha fermato la repressione governativa dei cattolici cinesi, soprattutto di quelli non ufficiali (sotterranei).

 

Il caso della diocesi di Datong non è l’unico di distruzione di luoghi sacri o proprietà della Chiesa cattolica. Nel Paese dura da anni la campagna statale per la eliminazione di croci troppo in vista, decorazioni, dipinti e statue giudicati «troppo occidentali»: un modo per affermare la «sinicizzazione» e un cristianesimo «secondo le caratteristiche cinesi», sottomesso all’autorità del Partito.

 

L’accordo non sembra funzionare neanche dal punto di vista delle nomine. A novembre la Santa Sede ha denunciato la violazione dell’intesa da parte delle autorità cinesi con la nomina di mons. Giovanni Peng Weizhao come vescovo ausiliare della diocesi di Jiangxi.

 

Nonostante le molte sedi vacanti è dall’8 settembre 2021 che non avviene alcuna investitura di un vescovo in Cina.

 

 

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Immagini da AsiaNews

 

 

 

 

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Cancro

Cina, indagata clinica che prometteva di curare il cancro con la medicina tradizionale

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Almeno 15 persone sono morte dopo essersi rivolte alla struttura, hanno spiegato le autorità. Il fondatore della clinica, Wu Pengfei, promuoveva le pratiche online e prescriveva ai pazienti medicinali contenenti erbe tossiche.

 

Una clinica di medicina tradizionale cinese della provincia centrale dell’Hubei è sotto indagine per la morte di 15 persone che erano alla ricerca di un trattamento per il cancro. Il fondatore della clinica, Wu Pengfei, sosteneva, in alcuni contenuti circolati online, di poter utilizzare la medicina tradizionale cinese per curare i tumori.

 

Un articolo pubblicato sul quotidiano Beijing News ha spiegato che tra il 18 aprile e il 31 maggio (data di apertura e chiusura della clinica), oltre 390 pazienti hanno visitato la struttura. Tra questi, 15 sono morti e 20 hanno visto le loro condizioni di salute peggiorare in maniera grave. Finora Wu Pengfei è stato sanzionato al pagamento di 417mila yuan, (oltre 57mila dollari) per aver commesso «atti illegali»: l’impiego di personale non sanitario per svolgere pratiche mediche e l’assenza di registri per gli acquisti e le prescrizioni di medicinali.

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In un video promozionale circolato online, un collega di Wu diceva di possedere «competenze mediche uniche» e di essere la «prima persona in Cina a curare il cancro utilizzando la medicina tradizionale cinese». Ma Hou Yuanxiang – questo il suo nome – era già stato in precedenza condannato per produzione e vendita di farmaci contraffatti. Nei video promozionali, Wu sosteneva anche che 3mila pazienti erano guariti dal cancro grazie alle pratiche di Hou, e la clinica godeva di tassi di guarigione di oltre l’80%.

 

Wang Xiaoying ha raccontato a Beijing News che suo fratello, Xiaobo, si era rivolto alla clinica dopo a febbraio che gli era stato diagnosticato un tumore al fegato. La famiglia era venuta a conoscenza della clinica grazie a un account online che ne promuoveva i servizi. Dopo aver pagato 18.620 yuan, Xiaobo è stato sottoposto per sette giorni a un trattamento di moxibustione, durante il quale un’erba chiamata moxa viene bruciata sulla pelle o vicino ad essa.

 

In seguito a un consulto di appena cinque minuti gli era inoltre stato prescritto un farmaco – ha continuato la sorella – che però non si è rivelato efficace: dopo due settimane di cure, il fratello aveva perso 5 chili di peso. Ricoverato in ospedale per un’ascite (un accumulo di liquido nell’addome), Xiaobo è morto un mese dopo.

 

Un medico che lavorava alla clinica e di cui Beijing News non riporta il nome, ha detto che nella preparazione dei medicinali veniva utilizzato l’aconito cinese, una radice tossica.

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La notizia ha generato una certa indignazione tra gli utenti cinesi. Alcuni hanno sottolineato l’arroganza del fondatore, che ha chiamato la clinica Yaowang Valley, che significa «valle del re della medicina», mentre altri hanno segnalato di diffidare di chi propone «medicine segrete tramandate da generazioni».

 

A inizio settimana le autorità cinesi hanno diramato un avviso con il quale affermano che sono in corso «indagini approfondite» sulle attività della clinica. I funzionari hanno inoltre ringraziato gli della rete per aver acceso i riflettori sulla questione, promettendo che i risultati dell’indagine saranno comunicati «in modo tempestivo».

 

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Cina

Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.   Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.

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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.   Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.   Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.   Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.   La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.   Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.   Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.

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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.   Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Cina

L’ex presidente della Bank of China condannato a morte

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L’ex capo di una delle principali banche cinesi ha ricevuto una condanna a morte sospesa per corruzione, ha riferito martedì la l’agenzia stampa di Stato cinese Xinhua. Il verdetto arriva come parte di una vasta repressione anti-corruzione da parte delle autorità di Pechino.

 

Liu Liange è stato condannato a morte con una sospensione di due anni per aver accettato tangenti per un valore equivalente a quasi 17 milioni di dollari e per aver concesso prestiti illegalmente, secondo Xinhua. Liu è stato presidente della Banca di Cina per quattro anni fino alle sue dimissioni nel marzo 2023, diverse settimane prima che le autorità rivelassero che stava affrontando accuse di corruzione.

 

È stato arrestato nell’ottobre dell’anno scorso. Secondo la sentenza di martedì, tutti i beni personali di Liu saranno confiscati e tutti i suoi guadagni illeciti dovranno essere recuperati e consegnati alla tesoreria dello Stato.

 

La sospensione di due anni, concessa perché l’imputato ha collaborato con le autorità e ha mostrato rimorso, significa che la sentenza verrà eseguita solo se Liu commetterà altri crimini durante il periodo, ha riferito Reuters. Se la sospensione venisse concessa, il 63enne sconterebbe l’ergastolo.

 

Liu è l’ultima figura di alto profilo ad essere condannata a morte nell’ambito delle vaste misure anticorruzione ordinate dal presidente Xi Jinping e mirate al settore finanziario del Paese, che vale 60 trilioni di dollari.

 

L’ex vicegovernatore della banca centrale Fan Yifei è stato condannato a morte per corruzione in ottobre, con una sospensione della pena di due anni.

 

A maggio, Bai Tianhui, ex dirigente di una delle più grandi società di gestione patrimoniale controllate dallo Stato, è stato condannato a morte per aver accettato tangenti per un valore di quasi 152 milioni di dollari.

 

Xi ha fatto della lotta alla corruzione una questione politica chiave da quando è diventato presidente un decennio fa. La campagna gode di un notevole sostegno pubblico, sebbene i critici affermino che consente al presidente di consolidare il potere sostituendo i rivali con lealisti in posizioni chiave.

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