Cina
Cina, sparisce sacerdote sotterraneo. Altri liberati dopo «lavaggio del cervello»
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Padre Xie Tianming avrebbe accettato di aderire agli organismi ecclesiali ufficiali, che implicano la sottomissione al Partito comunista. Come i religiosi scarcerati, sarebbe finito nelle maglie delle «guanzhi». Il fermo termina solo dopo aver dato prova di cambiamento di mentalità. Chi non obbedisce rimane sotto osservazione, senza poter più esercitare il ministero.
Padre Xie Tianming, della diocesi di Baoding (Hebei), è sparito dalle sei del pomeriggio del 10 aprile. Fonti cattoliche in Cina lo hanno rivelato ad AsiaNews. Il parroco appartiene alla comunità sotterranea (non ufficiale). La sua sparizione arriva mentre giungono notizie sulla liberazione di altri 10 sacerdoti sotterranei del luogo – e la locale Chiesa ufficiale celebra la consacrazione e dedicazione di nuove chiese.
Da quanto si è appreso, padre Xie è «scomparso» perché ha deciso di registrarsi negli organismi ecclesiali ufficiali, sottomessi al Partito Comunista Cinese (PCC). In queste situazioni, le autorità portano via un religioso, confinandolo in un posto segreto, e lo sottopongono a sessioni di «lavaggio del cervello» per la sua «rieducazione» politica. Il sacerdote rischia di rimanere a lungo in stato di fermo, fino a quando non darà «prova sicura» di un cambiamento di mentalità.
La forma di detenzione a cui questi religiosi sono costretti è definita «guanzhi»: non una vera e propria prigione, ma una restrizione di movimenti e attività, in cui sono obbligati a sessioni politiche e costrizioni per aderire agli organismi ecclesiali ufficiali: atto che comporta l’adesione e l’asservimento al PCC.
Dalla firma nel 2018 dell’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi, rinnovato poi nell’ottobre 2020 e 2022, il Fronte unito del PCC ha lanciato una campagna per costringere tutti i sacerdoti a professare la loro adesione al Partito e registrarsi ufficialmente. Di solito chi si rifiuta è allontanato dalla parrocchia o dalla comunità e finisce in stato di fermo.
Secondo le fonti, almeno metà dei sacerdoti di Baoding si sono registrati ufficialmente dopo un periodo di guanzhi. Lo stesso trattamento hanno patito i 10 religiosi scomparsi nelle mani della polizia nei primi quattro mesi del 2022. Le autorità li hanno liberati nell’ultimo anno in periodi diversi, non prima di averli costretti alle sedute di indottrinamento. Alcuni di loro hanno aderito poi agli organismi ufficiali; altri non lo hanno fatto, ma rimangono sotto osservazione, senza poter più esercitare il ministero.
Un sacerdote sotterraneo rilasciato a inizio 2023, dopo quasi un anno di detenzione, ha spiegato di non aver voluto cambiare la propria posizione. Egli è però ora confinato nella sua abitazione, controllato dalle autorità e costretto a rinunciare al suo servizio pastorale.
La comunità sotterranea di Baoding è una delle più antiche e più numerose della Chiesa in Cina.
Il loro vescovo, mons. Giacomo Su Zhimin, è nelle mani della polizia da più di 25 anni, dopo averne già passati oltre 40 ai lavori forzati sotto Mao Zedong.
I cattolici locali si sono spaccati dopo che il vicario di mons. Su, mons. Francesco An Shuxin, ha deciso di registrarsi negli organismi ufficiali.
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Immagine di Vardion via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0)
Cina
Giovani cinesi, cresce rischio obesità (e tumori): verso il 40% entro il 2030
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Un recente studio ha scoperto che quasi la metà dei tumori diagnosticati tra il 2007 e il 2021 è legato al sovrappeso. A causa dei cambiamenti socio-culturali, sono sempre di più i giovani obesi. Il governo di Pechino ha lanciato un piano strategico per evitare un’esorbitante spesa economica.
Circa due giovani cinesi su cinque rischiano di essere in sovrappeso o affetti da obesità entro il 2030, con una maggiore probabilità di incorrere in malattie gravi come il cancro.
È questo l’allarme lanciato da un gruppo di scienziati cinesi attraverso uno studio pubblicato di recente sulla rivista americana Med. «Se non modifichiamo radicalmente la tendenza dell’obesità, l’incidenza dei tumori ad essa correlati continuerà inevitabilmente a crescere. Ciò costituirà un enorme fardello per l’economia e il sistema sanitario cinese», ha dichiarato al Global Times Yang Jinkui, tra gli autori del report ed endocrinologo presso la Capital Medical University di Pechino.
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Il team di ricercatori ha analizzato più di 651mila nuovi casi di cancro diagnosticati in Cina tra il 2007 e il 2021, scoprendo che circa il 48% rientrava tra i 12 tipi di tumore che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità sono legati all’obesità.
Dallo studio emerge anche che, nello stesso intervallo di tempo, l’incidenza di tumori in Cina è aumentata del 3,6%, con un tasso di giovani dai 25 ai 29 anni gravemente malati superiore al 15% annuo. In altre parole, i giovani nati tra il 1997 e il 2001 hanno una probabilità di sviluppare tumori legati all’obesità 25 volte superiore rispetto alle persone nate tra il 1962 e il 1966.
E se non verranno intraprese misure tempestive per contrastare questo trend – avvisano gli scienziati – la percentuale di tumori associati all’obesità nei giovani cinesi è destinata a raddoppiare nel prossimo decennio. Previsioni che hanno buone probabilità di avverarsi: al momento la Cina è uno tra i Paesi con il più alto numero di giovani in sovrappeso o affetti da obesità, e la percentuale potrebbe raggiungere il 40% entro il 2030.
Le cause di questo fenomeno sono legate al rapido sviluppo dell’economia cinese e ai cambiamenti socio-culturali che hanno interessato il Dragone negli ultimi decenni. Con il miglioramento degli standard di vita della popolazione cinese, infatti, le abitudini alimentari delle persone sono cambiate, privilegiando il consumo di cibi di origine animale, di cereali raffinati e di alimenti altamente trasformati.
I ritmi quotidiani, inoltre, hanno indotto sempre più famiglie a risparmiare tempo mangiando al ristorante, dove spesso sono serviti piatti ricchi di grassi, zuccheri e calorie.
Anche la possibilità di poter ordinare prodotti alimentari a domicilio tramite le app online ha contribuito all’aumento dell’obesità tra gli adolescenti, facilitando la possibilità di reperire in qualsiasi momento cibo spazzatura.
Altrettanto influente è la tendenza all’inattività fisica e alla sedentarietà, dovuto all’incremento di tempo trascorso davanti agli apparecchi elettronici e all’eccessivo carico di studio, che a sua volta provoca stress, altro fattore che favorisce l’obesità.
Un ulteriore aspetto da non sottovalutare è l’eredità genetica: la probabilità che un bambino diventi obeso è fino a 15 volte maggiore se entrambi i genitori lo sono. Considerato che la percentuale di adulti cinesi in sovrappeso è in continuo aumento (anche se ancora tra le più basse al mondo) la situazione è alquanto preoccupante.
Ad avere un notevole impatto sul fenomeno è stata anche la pandemia di Covid-19 e il conseguente lockdown nazionale che ha limitato le possibilità di svolgere attività fisica all’aperto.
Diversamente dal passato, tuttavia, il sovrappeso in età infantile o adolescenziale non sembra essere più un problema in prevalenza urbano. Uno studio pubblicato a maggio di quest’anno sulla rivista Chinese Medical Journal rivela che il numero di bambini e ragazzi affetti da obesità nelle zone rurali cinesi è in crescita e potrebbe addirittura superare quello dei loro coetanei nelle città entro il 2027.
Le ragioni di questa inversione di tendenza sono ancora una volta da attribuire al generale sviluppo socio-economico del Paese e alla conseguente riduzione del gap tra le zone rurali e urbane, che ha fatto sì che i giovani nelle campagne siano esposti agli stessi rischi di sviluppare l’obesità, ma con minori possibilità di accesso a una dieta diversificata, ad adeguati servizi sanitari e a una corretta educazione alimentare. Anche le misure nazionali di prevenzione sanitaria sembrano avere uno scarso effetto nei villaggi rurali.
Se la situazione finora descritta non migliorerà, tra il 2025 e il 209 la Cina dovrà affrontare, secondo le stime, una spesa economica intorno ai 218 mila miliardi di yuan (28,5 trilioni di euro). Per scongiurare questo epilogo, nell’ottobre 2020 il governo cinese ha lanciato un piano strategico per controllare e prevenire l’obesità nelle giovani generazioni, con l’obiettivo di ridurne il tasso di crescita annuale del 70% entro il 2030.
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Tale programma, che coinvolge le famiglie, le scuole e le istituzioni mediche, promuove lo svolgimento di almeno tre ore di attività fisica ad alta intensità a settimana e sottolinea l’importanza di seguire una dieta sana ed equilibrata. Tra gli interventi implementati in questo senso ricordiamo il progetto noto come «Happy 10 minutes», per incentivare l’esercizio fisico, e i cosiddetti «Student Health Education Action» e «Healthy Children Action Plan», per sensibilizzare i giovani su una corretta alimentazione.
Alcuni esperti ritengono, tuttavia, che per ottenere risultati più efficaci sarebbe opportuno imporre una tassa del 20% sulle bevande zuccherate e limitare la vendita di cibi processati ai bambini.
In occasione della Terza conferenza sull’obesità in Cina (COC2024), tenutasi a Pechino a metà agosto, il professore Zhang Zhongtao ha ribadito che, nonostante i numerosi sforzi già compiuti, restano ancora molti obiettivi da raggiungere, come l’ampliamento dei canali di comunicazione per la prevenzione e il rafforzamento dei meccanismi di cooperazione ambulatoriale interdisciplinare negli ospedali.
«Di fronte a queste sfide», ha dichiarato Zhang, «abbiamo urgentemente bisogno di collaborare con una rete di prevenzione e cura dell’obesità guidata da professionisti e che coinvolga l’intera società».
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Cina
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Cina
Mar Cinese meridionale: Pechino chiede a Kuala Lumpur di fermare le attività estrattive
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La compagnia statale della Malaysia opera in aree che sono sotto la sovranità nazionale. In una nota inviata all’ambasciata malese, la Cina ha espresso il proprio disappunto, anche se il premier Anwar Ibrahim in passato aveva accennato alla possibilità di negoziati per risolvere la questione delle rivendicazioni cinesi.
La Cina ha chiesto alla Malaysia di interrompere tutte le attività di estrazione di petrolio al largo delle coste dello Stato di Sarawak, dove opera la compagnia Petronas.
Una richiesta avanzata tramite una nota di protesta inviata all’ambasciata malese in Cina la settimana scorsa, secondo quanto scritto dal quotidiano Philippine Daily Inquirer, che ha pubblicato il documento. «La parte cinese, ancora una volta, esorta la parte malese a rispettare realmente la sovranità territoriale e gli interessi marittimi della Cina e a interrompere immediatamente l’attività di esplorazione», si legge nella nota.
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La Cina accusa la Malaysia di invadere le aree delimitate nel Mar Cinese meridionale dalla cosiddetta linea dei nove tratti, su cui Pechino rivendica la propria sovranità, anche se si tratta di una zona a soli 100 km da Sarawak e a quasi 2mila chilometri di distanza dalla Cina continentale. E anche se nel 2016 la Corte permanente di arbitrato dell’Aia ha dichiarato nulle e illecite le rivendicazioni cinesi.
Il documento esprime anche un certo disappunto per le attività di esplorazione di gas e petrolio vicino alla barriera corallina di Luconia, un’area che i malesi chiamano «Gugusan Beting Raja Jarum», e la Cina conosce come «Nankang Ansha» e «Beikang Ansha». La zona si trova a circa 150 chilometri a nord del Borneo malese, all’interno della zona economica esclusiva di 200 miglia nautiche dalla Malaysia.
Negli ultimi anni la Cina ha aumentato il numero di attività militari nel Mar Cinese meridionale nel tentativo di far valere le proprie rivendicazioni territoriali, entrando in collisione con Taiwan e i Paesi del Sud-Est asiatico.
Al contrario, il primo ministro malese Anwar Ibrahim, nel tentativo di calmare le tensioni, ha finora usato toni diplomatici concilianti. Solo tre mesi fa il premier aveva definito la Cina un «vero amico».
«La gente dice: la Malaysia è un’economia in crescita. Non permettete alla Cina di abusare del suo privilegio e di estorcere denaro al Paese. Io ho risposto di no. Al contrario, vogliamo trarre vantaggio l’uno dall’altro, vogliamo imparare l’uno dall’altro e vogliamo trarre profitto da questo impegno», aveva affermato Anwar Ibrahim durante la visita del primo ministro cinese Li Qiang il 20 giugno.
L’anno scorso, Anwar aveva suscitato una certa indignazione per aver suggerito che il governo era pronto a negoziare le rivendicazioni territoriali della Cina nel Mar Cinese meridionale. «Ho sottolineato che la Malesia considera l’area come territorio malese, quindi Petronas continuerà le sue attività di esplorazione», aveva detto il premier, informando il Parlamento. «Ma se la Cina ritiene che questo sia un suo diritto, la Malaysia è aperta ai negoziati».
Dichiarazioni che avevano attirato l’immediata condanna dell’opposizione malese, rappresentata dalla coalizione del Perikatan Nasional. L’ex primo ministro Muhyiddin Yassin aveva commentato dicendo che i diritti territoriali della Malaysia non sono disponibili alla negoziazione «anche se sono rivendicati dalla Cina».
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In un secondo momento il governo aveva chiarito che il commento del premier segnalava la volontà che tutte le questioni relative al Mar Cinese Meridionale fossero risolte pacificamente.
La Malaysia esercita la sovranità sugli atolli e la barriera corallina di Luconia dal 1963 e nel 1974 il governo ha incorporato la compagnia energetica Petronas, conferendole i diritti di esplorazione.
Come sottolineato dall’Energy Information Administration statunitense, nel Mar Cinese meridionale si trovano quasi 3,6 miliardi di barili di petrolio e oltre 40mila miliardi di piedi cubi di gas naturale tra giacimenti certi e probabili.
Secondo i dati della Rystad Energy di Oslo, la maggior parte di queste risorse si trova all’interno di acque cinesi (1,4 miliardi di barili di petrolio e 5,7 trilioni di piedi cubi di gas naturale) e della Malaysia (1,3 miliardi di barili di petrolio e 29 trilioni di piedi cubi di gas naturale).
Secondo i dati della Malaysian Investment Development Authority, l’industria del petrolio e del gas contribuisce per circa il 20% al PIL malese. Come affermato dall’Istituto Yusof Ishak di Singapore, il settore «è stato sfruttato in modo molto efficace per lo sviluppo economico a lungo termine» grazie alla promozione dell’imprenditorialità nazionale.
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