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Economia

Da cittadini a consumatori. Da consumatori a schiavi

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C’è un signore quasi 80enne a cui voglio bene che mi chiama spesso per risolvergli alcuni problemini informatici. Non che sia un esperto, ma ambedue sappiamo che il fatto che appartengo alla generazione successiva alla sua aiuta.

 

Praticamente tutte le volte ho risolto; inutile nascondere che un’ampia porzione di chiamate riguardavano il pezzo di hardware più delicato e irrazionale: la stampante. Un oggetto a suo modo carico di significati: abolito oramai nelle case di chi ha meno di quaranta anni ma irrinunziabile per i più anziani, è l’unica parte del computer che fa qualcosa di fisico, produce documenti di carta, materia, roba.

 

La sua storia economica stupisce ancora: la stampante è un piccolo robot in grado di eseguire movimenti micrologici in velocità pazzesca, tuttavia costa poco, talvolta pochissimo – molti ricordano quando invece il prezzo era esorbitante, al punto che si portavano i file in copisteria. Poi, con la realizzazione che il danaro vero stava nella rivendita delle cartucce, la printer vide il suo prezzo precipitare.

 

La vecchia stampante a getto d’inchiostro dava problemi al mio amico. Alla seconda cartuccia cambiata, gli ho detto che probabilmente il problema era nella stampante, e visto che non veniva rilevato dalla macchina, forse era il caso di cambiarla – ripararla? No. Con quello che costano

 

Incaricato della missione, gli trovo nel giro di 24 ore una stampante laser stupenda. Piccolina, semplice fino al minimalismo. un design che viene voglia di piazzarla in mostra sulla mensola della sala da pranzo come un vaso cinese, emana perfino un lucore perlaceo azzeccatissimo, come i primi Mac, forse meglio ancora.

 

Eccomi quindi pronto ad eseguire l’installazione. Attacca il computer, attacca la corrente, collega la USB (a dire la verità, la presa è un po’ nascosta…). Fai una stampa di prova.  Ze-ze-ze-ze-ehmmmm. Fanne un’altra. Zin-zin-uuunnn. Il suono della stampa cibernetica dà gioia. Fai una prova della funzione fotocopia. Clic. Uhm-Uhmm-ze-ze-ze-zeeeem. Tutto perfetto. Buonanotte.

 

Il giorno dopo tuttavia, mi richiama. Si vergogna un po’ a dirlo, visto lo sforzo che ho fatto, e la paura di sembrare invadente. La stampante non va.

 

Trovato il tempo di visitarlo, mi rendo conto che non è un problema di software (disinstallare la precedente, mettere la presente come stampante principale: pensavo fosse semplicemente quello). Seguo le istruzioni, mi infilo nell’applicazione della casa madre. Non trovo soluzione.

 

Un segno inquietante lampeggia sulla stampante, come fosse in Stato di errore. L’errore, però, non si trova – in realtà non c’è.

 

La stampante in realtà funziona: trovato il modo di fare stampe di prova in automatico, mi esce una paginata che dice che la stampante è bloccata, deve essere configurata. Configurata? Lo è. L’ho fatto ieri. Leggo meglio: bisogna collegarla al WiFi, altrimenti non va.

 

A questo punto mi convinco che si tratti di un piccolo, innocente errore del produttore – una rinomatissima multinazionale. Si tratterà solo di disattivare qualcosa, dire alla stampa che non mi interessa il WiFi, che a casa del signore 80enne non c’è ed è pure giusto così. Voglio solo che la stampante continui a stampare come ha fatto nei primi giorni, quando abbiamo prodotto almeno una dozzina di stampe, tra prove e documenti medici vari. Non è che ci vuole molto: ci sarà uno switch da qualche parte, un comando che posso dare dal software per dire che salto l’installazione della rete nel dispositivo, il WiFi nella macchinetta non ce lo voglio, in verità neanche lo ho.

 

Le istruzioni, sia quelle di carta ancora incellofanate nella scatola sia quelle online del sito del produttore, non aiutano nemmeno alla lontana. Cerco un tutorial su YouTube. Qui mi viene rivelato l’orrore: altri hanno avuto il mio stesso problema. E il motivo è semplice: la nostra stampante funziona solo con il WiFi. Cioè: se non esegui quel passaggio – connettere in rete per sempre la periferica – non puoi utilizzarla in altro modo, neanche se ti ha appena dimostrato che con il cavo va.

 

Un tizio su YouTube dice che è proprio così, e quello che è peggio è che il software per fare la registrazione – perché oltre che la macchinetta in rete vogliono, ovvio, che tu ti faccia un account sulla loro piattaforma – non funziona bene, né sul PC né sul telefono. Sotto vi sono decine di commenti, tutti concordano. Anche a me è capitato. È incredibile. È spazzatura. Avidi. Non comprerò mai più qualcosa con quel marchio. Un diluvio.

 

A quel punto, confesso, sono talmente scioccato da essere incredulo. Non mi resta che provare l’elemento più raro e difficile dei problemi informatici: l’assistenza umana. Chiamo un numero, una voce di androide mi dice che potrebbero rispondermi da fuori della UE, e se non mi va bene devo dirlo a chi mi risponderà («Buongiorno, non voglio parlare con Lei, è un extracomunitario» – chiaro che si tratta dell’ennesima legge europea allucinante che bisogna rispettare, come il GDPR, fatto da qualcuno che non si rendeva conto di quanto stava complicando la vita alle persone normali, o forse implementato proprio per questo). Poi un «menu» vocale, dove nessuna delle tre opzioni è la mia, che è anche piuttosto semplice: problema alla stampante, fatemi parlare con qualcuno.

 

Alla fine, tuttavia, mi rispondono, e perfino dall’Italia. Il tono del signore passa dal gentile, allo stupito, infine all’imbarazzato. Mi conferma che sì, la stampante va solo se mettiamo il WiFi.

 

«Ma come, ha stampato fino a poco fa usando solo il cavo USB… in casa il WiFi non c’è» gli dico sperando che la logica si abbatta su di lui e sulla sua multinazionale in modo che mi diano ragione.

 

«No. È pensata solo per andare in WiFi. La stampante consente di fare solo un numero di stampe via cavo al momento dell’installazione. Poi basta».

 

Sono basito. Resto qualche secondo in silenzio, fino al momento in cui realizzo che potrei star creando disagio.

 

Il tizio è cortese, mi dice che potrebbe forse mandarmi una stampante a cavo usata, forse pagando qualcosa. Saluto. Riattacco. La stampante, bella ed elegante, finisce re-inscatolata immantinente. Raus. Reso.

 

Il lettore che è arrivato fin qui, si chiederà come mai abbia raccontato una storia così minimale, comune. Per una volta non si parla di guerra atomica, demoni irati, geopolitiche abissali, programmi di sterminio. Parliamo di stampanti che non vanno, sì: perché questa storia ha in sé un significato spaventoso.

 

La realtà del problema era di non difficile comprensione: la stampante poteva tranquillamente essere usata con il cavo, come aveva dimostrato di poter fare, ma la funzione veniva bloccata dal software del produttore, che così ti obbligava a collegare in rete la tua stampante – in modo che la multinazionale avesse informazioni costanti sullo stato del prodotto che hai comprato.

 

Perché? Perché la prima cosa che trovavi aprendo la scatola era una brochure, il cui contenuto era ripetuto in un adesivo che copriva il muso della stampante, su un servizio di consegna automatica delle cartucce: stai per finire il toner, e automaticamente ti arriva a casa, perché il produttore controlla, grazie al fatto che hai connesso il WiFi, quanto ti manca e fa scattare una spedizione al momento del bisogno. Mica una brutta idea: di fatto, prima della disavventura, avevo pensato addirittura che potevo abbonare il signore mio amico.

 

Al momento della configurazione poi potrebbe venire chiesta l’email, viene creato un profilo nel database della grande azienda, forse viene chiesta, ineludibilmente, la carta di credito. Del resto, l’offerta è quella di iniziare con il programma di sostituzione automatica delle cartucce con una cifra irrisoria, che però va corrisposta – di modo che poi hanno, oltre che il tuo recapito fisico ed elettronico, anche il numero con cui farti fare strisciate cicliche.

 

La stampante, comprata come un oggetto, una commodity, è divenuta solo un’esca per captare dati e abbonamenti, una propaggina fatta di atomi della subscription economy.

 

Il fatto è che non è che hai alternativa: o fai come dicono loro, o la stampante che hai appena comprato non va, non vale più nulla per te, è inservibile. Non credo che tanti, davanti ad un bivio del genere, possano aver fatto la mia scelta – rimpacchetto tutto e arrivederci. Tutti vengono tranquillamente obbligati a seguire la direttiva che porta esattamente dove vuole il grande ente.

 

Alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, davanti a una richiesta proveniente dal sistema operativo, dai social, da qualche altro software dove di fatto non vi era altra scelta che schiacciare «Continua», «Accetta» o una cosa così. Nel gergo del web li chiamano dark pattern. L’utente è portato a compiere azioni perché non vi è altra opzione possibile, non un «Declina» o un «Cancella», talvolta nemmeno il tasto X per chiudere, la finestra. Devi fare quello che ti dicono: punto.

 

Forse a qualcuno comincia a suonare qualche campanello, e comincia a capire dove voglio arrivare.

 

Se mi obblighi a fare qualcosa che non voglio, perché non mi dai scelta, di fatto mi stai privando della libertà, oltre che di diritti codificati nella Carta costituzionale e nei vari codici che regolano il commercio e le relazioni umane.

 

Una volta eravamo cittadini, cioè latori di diritti, espressi in regole che fondano lo Stato stesso. Il cittadino dotato di diritti gode di determinati poteri: pensate all’habeas corpus. Il cittadino, quindi, riconosceva l’importanza collettiva delle istituzioni, di cui aveva rispetto (pensate al fatto che tutti, un tempo, si vestivano bene per andare a votare).

 

Il cittadino, dimentico degli orrori del mondo senza regole – quello delle guerre, dei collassi nazionali, delle crisi sacrificali della società – ben presto ha cominciato a percepire come garantiti quei diritti, al punto da permettersi perfino di ignorarne l’esistenza.

 

Con l’avvento della prosperità del dopoguerra è divenuto sempre più evidente che il cittadino, in cui era accresciuto un nuovo potere – il potere di acquisto – si stava trasformando in qualcos’altro: un consumatore. Anche lo Stato in qualche modo lo riconosce: elementi necessari alla vita come l’acqua, il gas e l’elettricità non sono erogati al cittadino, ma all’utenza, cioè al consumatore.

 

Il consumatore in realtà ha con i grandi marchi dell’industria che lo rifornisce un rapporto migliore di quello che ha con lo Stato. Morto ogni sentimento nazionale e considerato perfino pericoloso il nazionalismo, lo Stato è percepito come qualcosa che non ti puoi scegliere, e che quindi che può cozzare contro la tua felicità personale, perché, secondo la logica liberal-utilitarista, è buono e giusto solo ciò che si può scegliere (comprese le cose ultime: genere sessuale, bambini, morte, etc.)

 

Quindi, i grandi brand godono del favore del cittadino-consumatore più ancora dello Stato-nazione o quel che ne rimane. Alcuni sociologi hanno ipotizzato che i grandi marchi hanno preso il posto delle realtà sociali che, assieme ai loro simboli, sono retrocesse nella vita delle persone: la religione, la politica o anche l’esercito.

 

Di fatto, la felicità del popolo dei consumatori è evidente soprattutto in estate durante i mega-concerti di rock e dintorni: fenomeni di ritrovi di massa per chi consuma lo stesso prodotto, che in questo caso è un cantante famoso. Il fenomeno dei biker, è qualcosa di diverso? No: tendenzialmente è l’espressione orgogliosa di consumatori organizzati – gli eventi dei Ducatisti fanno arrivare talmente tante persone che le moto, come cavallette, possono intasare l’uscita dell’autostrada.

 

Chi non ha un amico patito di Apple, con qualche cimelio in casa, e magari l’adesivo con la mela esibito tamarristicamente sul culo dell’auto? Chi non conosce un esempio di sostenitore zelota della Nintendo? Ci sono perfino, e non sono pochi, i fan della Coca-cola: non solo la bevono, collezionano le lattine, hanno in casa i poster.

 

I consumatori hanno prosperato, più felici – in teoria – che mai, per decenni. Sceglievano l’istituzione cui obbedire, la grande realtà che era possibile perfino amare. Perché il brand, cioè la grande industria che ti fornisce l’oggetto di consumo, a sua volta rispettava i suoi consumatori, financo li riamava, sotto forma di prodotti soddisfacenti. Lo insegnavano nei corsi di marketing: il vertice della piramide è quando la sola visione del marchio stimola sensazioni positive nel consumatore, proprio come in un rapporto amoroso.

 

Ora è divenuto chiaro che anche l’era del consumatore è finita. I grandi soggetti economici non cercando più un rapporto con l’utente: ne cercano il controllo. La tecnologia cibernetica lo rende possibile. I dati che lui stesso fornisce, oltre che il suo recapito, rende possibile di comandarlo e tracciarlo – non devo più trovare il cliente, non devo fare in modo che venga da me, so già dove si trova, di cosa ha bisogno, conosco le modalità in cui posso insistere per prendermi il suo danaro.

 

Come per quanto la relazione tra Stato e cittadino: non è più un rapporto, è una sottomissione. Non c’è più la collaborazione, c’è il controllo. Non c’è lo scambio, c’è la sorveglianza.

 

Da una visione personale del marketing – che faceva uso di psicologia sociale, sociologia e altre scienze umane – siamo passati alla meccanica impersonale del digitale, dove è possibile controllare, cioè sottomettere, il consumatore. E non c’è alternativa alcuna: ora si fa solo così, e le aziende che non spingono il consumatore negli imbuti della digitalizzazione cesseranno di esistere a breve – così ci ripetono.

 

Caro cliente, ci interessi solo se ci darai in continuazione i dati tuoi e della stampante che hai comprato, altrimenti la rendiamo inservibile. Ma mica è solo il caso della stampante.

 

Abbiamo detto dei dark pattern dei vari software, che aprono finestre di dialogo in cui puoi schiacciare solo quello che vogliono loro senza altra scelta. Uno di questi casi ha prodotto, nel mio piccolo, un effetto così grottesco che stava per entrare a latere di una causa in tribunale.

 

Ma pensate a come l’informatica, o meglio, l’Internet of Things – la connessione di ogni oggetto in rete, come da sogno espresso nei libri di Casaleggio – stia per cambiare radicalmente tutto: avrete sentito parlare delle auto che saranno in grado, nel caso saltiate una rate del leasing, di bloccarsi e magari di autosequestrarsi. Lo stesso, in verità, potrà dirsi possibile per ogni elettrodomestico, dal telefonino al bollitore del the, dalla TV alla lavatrice-smart: tutti dispositivi pronti per il credito sociale europeo, quello per cui perderai punto per mancata vaccinazione, per aver scritto qualcosa contro la politica del governo o aver espresso dubbi sulla beltà dell’immigrazione di massa e dell’Ucraina.

 

Ecco che anche il consumatore è finito: senza più i diritti del cittadino, e senza più nemmeno le gioie e le libertà del consumo, egli è divenuto un essere umano sprotetto e privo di scelta – cioè uno schiavo.

 

Abbiamo capito che tale trasformazione ulteriore della persona umana va bene alla massa: la pandemia è stata una grande ricerca di mercato per capire fino a dove potevano spingersi nell’implementare la nuova schiavitù, e si è capito che potevano arrivare perfino a livello subcellulare: la vaccinazione universale mRNA altro non è se non un grande dark pattern di estremo successo, quella cosa per cui dovevi farlo anche se non ti obbligavano, solo ti toglievano il lavoro e la vita sociale, il sostentamento e il senso di appartenenza alla società.

 

Milioni, forse miliardi, sono finiti nell’imbuto della siringa globale: sono entrati cittadini-consumatori, sono usciti schiavi.

 

Quindi, non ci sorprendiamo se anche le grandi aziende ora ci trattano come schiavi. È il paradigma mondiale che è cambiato: non siete più persone libere che hanno diritti inalienabili, siete utenti di una piattaforma cui possono essere concessi, in base a meccaniche premiali basate sul vostro comportamento, degli «accessi», che il potere più alto (che magari nemmeno è più umano: magari è un algoritmo) vi può assegnare e revocare come vuole.

 

L’arrivo del danaro programmabile CBDC, che qui prenderà la forma dell’euro digitale, lo sancirà una volta per tutte: potrete vivere fino a quando lo decideranno sopra. Poi, semplicemente, vi spegneranno.

 

Siamo soggetti, quindi – nel senso di sudditi, o anche meno di quello, perché il potere può esercitare su di noi capricci sempre più intollerabili.

 

Siamo solo degli schiavi, e oramai ve lo dice perfino la vostra stampante.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

P.S. Se volete sapere com’è finita la storia del signore: resa la printer-schiavitù, gli ho trovato, non senza difficoltà, una stampante che va solo a cavo. È enorme, scura, tozza, bruttissima. Ci ho messo un’ora ad installare il driver, che era fornito via disco (ricordate cosa è?) oppure si scaricava dal sito in un pratico file da 400 mega, praticamente Moby Dick. Però funziona tutto. La scomodità, si è capito, è la prima moneta che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà.

 

P.P. S. Full disclosure: lo scrivente è ducatista, nintendista, possessore di vari prodotti Apple, bevitore, con moderazione e anche no, di Coca-cola. Ammetto tutto. Ma niente raduni, collezionismi eccessivi, adesivi deturpanti nel didietro della macchina, peraltro già gravemente segnato dalla grandine.

 

 

 

Economia

Softwarista canadese nega di essere Satoshi, l’inventore del Bitcoin

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Un progettista di software canadese ha negato di essere il creatore di Bitcoin dopo la pubblicazione di un documentario che afferma di aver risolto il mistero che circonda la criptovaluta più popolare al mondo.

 

Money Electric: The Bitcoin Mystery, trasmesso martedì sulla rete televisiva statunitense HBO, sostiene che Peter Todd, un uomo di Toronto che collabora alla programmazione principale della valuta digitale, sia in realtà Satoshi Nakamoto, la persona che ha fondato Bitcoin nel 2009. Satoshi ha smesso di postare online ed è in gran parte scomparso dalla vita pubblica nel 2011.

 

Il trentanovenne canadese, coinvolto nello sviluppo del Bitcoin durante i suoi primi anni, ha poi negato ogni accusa.

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«Non sono Satoshi», ha scritto Todd in un’e-mail alla rivista TIME. «Ho scoperto Bitcoin per la prima volta leggendo il white paper, come ho detto pubblicamente molte volte».

 

Il documentario di 100 minuti presenta prove in gran parte indiziarie, tra cui l’uso dell’inglese britannico-canadese nei post del forum da parte di Satoshi.

 

Il regista Cullen Hoback – già noto per un’eccezionale serie documentaria che individuava i probabili veri personaggi dietro QAnon – ha detto di essere «molto, molto sicuro» che Todd sia Satoshi, scrive TIME. «Quando ho messo insieme una lista di perché e perché non potrebbe essere lui, la lista ‘potrebbe non essere lui’ era molto corta».

 

La pubblicazione ha tuttavia citato altri quattro primi «Bitcoiner» che avrebbero espresso scetticismo sul fatto che Todd avesse effettivamente le capacità di programmazione necessarie per creare il token di criptovaluta più importante al mondo.

 

L’identità di Satoshi Nakamoto, pseudonimo dell’autore di un white paper intitolato «Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System» del 2008, rimane un mistero. Sono emerse varie teorie, ma a oggi nessuno sa chi sia Nakamoto.

 

Nel 2021, il CEO di Tesla, Elon Musk, ha affermato che l’esperto di criptovalute iper-riservato Nick Szabo potrebbe essere il creatore della criptovaluta più popolare al mondo.

 

Uno dei candidati più celebrati era un ingegnere informatico nippo-americano di 75 anni di nome Dorian Satoshi Nakamoto. Nel 2014, è diventato oggetto di un ampio reportage della rivista Newsweek, che sosteneva di aver identificato l’inventore di Bitcoin. L’uomo, tuttavia, ha negato qualsiasi coinvolgimento nella criptovaluta.

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Il mistero che circonda l’identità del creatore di Bitcoin è stato descritto come un fattore che ha contribuito alla popolarità del token. Secondo Austin Campbell, professore alla Columbia Business School, «Il fatto che Bitcoin sia stato in un certo senso messo in circolazione e poi Satoshi sia scomparso è parte integrante del suo successo».

 

Se Satoshi venisse identificato, potrebbe rischiare di essere arrestato per evasione fiscale, violazione di regolamenti finanziari e di altro tipo, data l’incriminazione di personaggi di alto profilo nel mondo delle criptovalute come Changpeng Zhao. Il fondatore del principale exchange di criptovalute al mondo, Binance, è stato condannato a quattro mesi di prigione ad aprile dopo essersi dichiarato colpevole di aver violato le leggi sul riciclaggio di denaro.

 

Gli analisti hanno avvertito che se l’identità di Satoshi venisse rivelata, potrebbe vendere i suoi oltre un milione di Bitcoin e far crollare il prezzo del token dall’attuale livello di 57.766 dollari.

 

Come riportato da Renovatio 21, due mesi fa l’FBI aveva risposto a una richiesta ai sensi del Freedom of Information Act (FOIA) da parte di un giornalista, insinuando che il creatore di Bitcoin Satoshi Nakamoto può essere un «individuo terzo» di cui non l’agenzia né conferma né nega di avere dei file.

 

Recentemente l’investitore miliardario Peter Thiel, creatore con Elon Musk di PayPal, ha rivelato di ritenere di aver conosciuto una persona che protebbe essere Satoshi ad un evento sulle valute digitali precedente al lancio del Bitcoin «sulla spiaggia di Anguilla nel febbraio del 2000». Thiel aveva investito in Bitcoin dopo aver dichiarato che «potrebbe essere un’arma finanziaria cinese contro gli USA».

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Un ospite di Tucker Carlson, l’impreditore informato Ajmad Masad, ha ipotizzato che Satoshi potrebbe essere invece il programmatore rodesiano Paul Leroux, creatore nel 1999 dei software di criptaggio E4M («Encryption for the Masses») e TrueCrypt, poi arrestato negli USA per narcotraffico. Il Leroux sta ora scontando una condanna ad un quarto di secolo nelle prigioni statunitensi. Un articolo si Wired nota che l’arresto di Le Roux e gli ultimi post di Satoshi Nakamoto sul repository originale di Bitcoin sono avvenuti più o meno nello stesso periodo.

 

Carlson ad un recente evento sulle critpovalute, al quale ha partecipato anche Trump, ha dichiarato che il Bitcoin potrebbe essere stato creato dalla CIA.

 

Trump, che ha promesso che farà degli USA la superpotenza delle criptovalute, lo scorso mese ha fatto la sua prima transizione pubblica in Bitcoin comprando un cheeseburgherro. Negli scorsi mesi, il candidato ha reiterato la sua volontà di dare la grazia a Ross Ulbricht, gestore del marketplace del Dark Web Ross Ulbricht in carcere da oramai più di una decade.

 

Come riportato da Renovatio 21, un’iniziativa crypto della famiglia Trump è stata hackerata il mese scorso.

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Economia

Sachs: gli USA trasformano il dollaro in un’arma

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Il governo degli Stati Uniti ha trasformato il dollaro in un’arma anziché usarlo come mezzo di scambio o riserva di valore, ha affermato Jeffrey Sachs, pluripremiato economista e analista di politiche pubbliche americano.   Sachs ha fatto questa osservazione giovedì nel suo discorso tramite collegamento video a un incontro dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali dei BRICS. I funzionari si sono incontrati a Mosca per discutere del miglioramento del sistema monetario e finanziario internazionale, in vista del vertice BRICS 2024 a Kazan alla fine di questo mese.   Secondo l’economista, la militarizzazione del dollaro stava ovviamente avvenendo attraverso il sequestro di beni russi congelati. Ha anche menzionato il congelamento da parte del governo statunitense di fondi statali iraniani, venezuelani, afghani e di altri.

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Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno congelato circa 300 miliardi di dollari in asset della banca centrale russa, di cui circa 5 miliardi di dollari sono depositati in banche americane, come parte della campagna di sanzioni relativa all’Ucraina. Ad aprile, il presidente Joe Biden ha firmato una legge che consente il sequestro dei fondi russi detenuti negli Stati Uniti e il loro trasferimento a un fondo per la ricostruzione dell’Ucraina.   «Non si può usare il dollaro come meccanismo di pagamento», ha detto Sachs, quando un presidente da solo può firmare ordini e sequestrare essenzialmente miliardi di dollari in asset russi. La valuta statunitense è diventata «uno strumento di politica aggressiva», ha concluso l’economista statunitense.   «Ho detto al mio governo negli ultimi 15 anni “smettetela di farlo, è una follia, distruggerà la fiducia nel dollaro”. Non si può continuare con questo sistema, non riguarda solo la Russia».   Il Sachs ha sottolineato che la Cina desidera avere scambi commerciali normali senza minacce di sanzioni da parte degli Stati Uniti ma, sebbene le banche cinesi facciano parte del sistema SWIFT, devono rispettarlo per paura di essere tagliate fuori dalla rete finanziaria internazionale.   «Quindi, il punto è che abbiamo bisogno di alternative, questo è chiaro», ha affermato Sachs. «Certo, i Paesi hanno bisogno di meccanismi di pagamento non in dollari. Avremo bisogno di alcune entità veloci, veicoli speciali che non siano anche coinvolte nei sistemi di pagamento in dollari… entità che non possono essere direttamente sanzionate».   L’economista ha sottolineato che «la migliore alternativa sarebbe che gli Stati Uniti recuperassero il buonsenso, la decenza e la legalità e smettessero di imporre sanzioni unilaterali».   Le azioni degli Stati Uniti sono «assolutamente scorrette» e illegali secondo gli standard del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, ha affermato Sachs, che è anche presidente dell’UN Sustainable Development Solutions Network.   Il Sachs è l’inventore della shock therapy, il processo per portare il capitalismo spinto in Paesi non-liberisti, come ad esempio quelli dell’ex mondo sovietico, dove egli ha lavorato a lungo negli anni Novanta, arrivando ad essere consigliere economico del presidente russo Boris Eltsin.   Sachs, che ha lavorato anche lungo le bisettrici geopolitiche di Giorgio Soros, è stato spesso ospite del Vaticano Bergogliano, arrivando ad aiutare, a quanto si dice, la stesura dell’enciclica ecologista Laudato Sii. Alcuni, tuttavia, ritengono che egli già collaborasse con il papato di Wojtyla per la stesura dell’enciclica Centesimus Annus, scritta nel centenario della Rerum Novarum di papa Leone XIII e inerente alla dottrina sociale della Chiesa in materia economica.   Il cattedratico sembra da qualche anno entrato in una sorta di arco di redenzione: dieci anni fa si oppose frontalmente alla politica militare di Obama in Siria, ora a quella di Biden in Ucraina e in Palestina.

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In un recente evento organizzato dai venture capitalist del podcast All-in, Sachs è comparso assieme a John Mearsheimer, capofila del pensiero geopolitico realista, nemico dell’interventismo americano.     In due lunghe interviste con Tucker Carlson, Sachs negli scorsi mesi è sembrato poter mettere a fuoco molto bene i problemi che affliggono la macchina governativa americana nelle sue relazioni con il mondo, sottolineando la miopia, e la prepotenza, di Washington, e facendo rivelazioni interessanti, come quando racconta di quella volta che, informato sul campo del fatto che il presidente haitiano François «Papa Doc» Duvalier stava venendo fatto evacuare dagli americani (in pratica, un piccolo colpo di Stato in esecuzione), telefonò ad un giornalista del New York Times, che gli disse che il suo caporedattore aveva dichiarato la cosa poco interessante.   Al contempo, il Sachs, come tante persone perbene rimaste raziocinanti, sembra più che mai terrorizzato dall’eventualità di un conflitto termonucleare, citando come fonte della sua preoccupazione il futuro dei suoi nipoti.

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Economia

Cuba vuole entrare nei BRICS

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Cuba ha ufficialmente presentato domanda per entrare a far parte dei BRICS come stato partner, ha rivelato l’alto funzionario del Ministero degli Esteri Carlos Pereira. L’ambasciatore russo all’Avana, Viktor Coronelli, ha dichiarato il mese scorso che il Presidente Vladimir Putin aveva esteso un invito alla sua controparte cubana, Miguel Diaz-Canel, per partecipare a un imminente vertice dei BRICS a Kazan.

 

In un post su X di martedì, Pereira ha scritto: «Cuba ha ufficialmente presentato domanda di adesione ai BRICS come paese partner in una missiva al presidente russo, Vladimir Putin, che detiene la presidenza del gruppo».

 

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Il diplomatico cubano, che è direttore generale per gli affari bilaterali, ha definito il gruppo un «attore chiave nella geopolitica globale e una speranza per i paesi del Sud».

 

I BRICS sono stati originariamente fondati nel 2006 da Brasile, Russia, India e Cina, con l’adesione del Sudafrica nel 2011. Quest’anno, altri quattro paesi (Egitto, Iran, Etiopia ed Emirati Arabi Uniti) sono diventati ufficialmente membri del gruppo, con l’Arabia Saudita che sta attualmente ultimando il processo di adesione.

 

 

Durante un incontro dei rappresentanti della sicurezza dei BRICS a San Pietroburgo il mese scorso, Putin ha rivelato che «ad oggi, circa tre dozzine di Paesi, 34 stati per l’esattezza, hanno dichiarato il loro desiderio di unirsi alle attività del nostro gruppo». Ha aggiunto che gli attuali stati membri avevano concordato di discutere la concessione dello status di partner ad alcune di queste nazioni e di approvare potenzialmente alcune delle offerte durante il vertice di Kazan dal 22 al 24 ottobre.

 

Se concordato, lo status di partner diventerà una nuova forma di adesione parziale per i paesi aspiranti, destinata a rappresentare una transizione graduale verso la piena integrazione nel gruppo.

 

A fine settembre, il ministro degli Esteri bielorusso Maksim Ryzhenkov ha affermato che almeno dieci nuovi membri, tra cui il suo Paese, avrebbero potuto essere ammessi all’evento.

 

All’inizio dello stesso mese, l’assistente presidenziale russo Yury Ushakov ha confermato che la Turchia aveva ufficialmente presentato domanda di adesione ai BRICS, diventando il primo Stato della NATO a farlo.

 

Tra le altre nazioni che hanno espresso il desiderio di entrare a far parte dei BRICS ci sono Azerbaigian, Algeria, Vietnam, Indonesia, Pakistan, Malesia, Nigeria, Thailandia, Venezuela, Kazakistan, Palestina, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Bangladesh, Bahrein, Kuwait, Senegal e Bolivia.

 

Con gli attuali stati membri che rappresentano il 28% del prodotto interno lordo nominale mondiale, Putin ha annunciato il mese scorso che il gruppo ha «lavorato per creare il nostro sistema di pagamento e regolamento». Ciò aiuterebbe a garantire «l’assistenza efficace e indipendente di tutto il commercio estero» tra gli Stati membri, ha spiegato.

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Immagine di travelmag.com via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

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