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Economia

Da cittadini a consumatori. Da consumatori a schiavi

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C’è un signore quasi 80enne a cui voglio bene che mi chiama spesso per risolvergli alcuni problemini informatici. Non che sia un esperto, ma ambedue sappiamo che il fatto che appartengo alla generazione successiva alla sua aiuta.

 

Praticamente tutte le volte ho risolto; inutile nascondere che un’ampia porzione di chiamate riguardavano il pezzo di hardware più delicato e irrazionale: la stampante. Un oggetto a suo modo carico di significati: abolito oramai nelle case di chi ha meno di quaranta anni ma irrinunziabile per i più anziani, è l’unica parte del computer che fa qualcosa di fisico, produce documenti di carta, materia, roba.

 

La sua storia economica stupisce ancora: la stampante è un piccolo robot in grado di eseguire movimenti micrologici in velocità pazzesca, tuttavia costa poco, talvolta pochissimo – molti ricordano quando invece il prezzo era esorbitante, al punto che si portavano i file in copisteria. Poi, con la realizzazione che il danaro vero stava nella rivendita delle cartucce, la printer vide il suo prezzo precipitare.

 

La vecchia stampante a getto d’inchiostro dava problemi al mio amico. Alla seconda cartuccia cambiata, gli ho detto che probabilmente il problema era nella stampante, e visto che non veniva rilevato dalla macchina, forse era il caso di cambiarla – ripararla? No. Con quello che costano

 

Incaricato della missione, gli trovo nel giro di 24 ore una stampante laser stupenda. Piccolina, semplice fino al minimalismo. un design che viene voglia di piazzarla in mostra sulla mensola della sala da pranzo come un vaso cinese, emana perfino un lucore perlaceo azzeccatissimo, come i primi Mac, forse meglio ancora.

 

Eccomi quindi pronto ad eseguire l’installazione. Attacca il computer, attacca la corrente, collega la USB (a dire la verità, la presa è un po’ nascosta…). Fai una stampa di prova.  Ze-ze-ze-ze-ehmmmm. Fanne un’altra. Zin-zin-uuunnn. Il suono della stampa cibernetica dà gioia. Fai una prova della funzione fotocopia. Clic. Uhm-Uhmm-ze-ze-ze-zeeeem. Tutto perfetto. Buonanotte.

 

Il giorno dopo tuttavia, mi richiama. Si vergogna un po’ a dirlo, visto lo sforzo che ho fatto, e la paura di sembrare invadente. La stampante non va.

 

Trovato il tempo di visitarlo, mi rendo conto che non è un problema di software (disinstallare la precedente, mettere la presente come stampante principale: pensavo fosse semplicemente quello). Seguo le istruzioni, mi infilo nell’applicazione della casa madre. Non trovo soluzione.

 

Un segno inquietante lampeggia sulla stampante, come fosse in Stato di errore. L’errore, però, non si trova – in realtà non c’è.

 

La stampante in realtà funziona: trovato il modo di fare stampe di prova in automatico, mi esce una paginata che dice che la stampante è bloccata, deve essere configurata. Configurata? Lo è. L’ho fatto ieri. Leggo meglio: bisogna collegarla al WiFi, altrimenti non va.

 

A questo punto mi convinco che si tratti di un piccolo, innocente errore del produttore – una rinomatissima multinazionale. Si tratterà solo di disattivare qualcosa, dire alla stampa che non mi interessa il WiFi, che a casa del signore 80enne non c’è ed è pure giusto così. Voglio solo che la stampante continui a stampare come ha fatto nei primi giorni, quando abbiamo prodotto almeno una dozzina di stampe, tra prove e documenti medici vari. Non è che ci vuole molto: ci sarà uno switch da qualche parte, un comando che posso dare dal software per dire che salto l’installazione della rete nel dispositivo, il WiFi nella macchinetta non ce lo voglio, in verità neanche lo ho.

 

Le istruzioni, sia quelle di carta ancora incellofanate nella scatola sia quelle online del sito del produttore, non aiutano nemmeno alla lontana. Cerco un tutorial su YouTube. Qui mi viene rivelato l’orrore: altri hanno avuto il mio stesso problema. E il motivo è semplice: la nostra stampante funziona solo con il WiFi. Cioè: se non esegui quel passaggio – connettere in rete per sempre la periferica – non puoi utilizzarla in altro modo, neanche se ti ha appena dimostrato che con il cavo va.

 

Un tizio su YouTube dice che è proprio così, e quello che è peggio è che il software per fare la registrazione – perché oltre che la macchinetta in rete vogliono, ovvio, che tu ti faccia un account sulla loro piattaforma – non funziona bene, né sul PC né sul telefono. Sotto vi sono decine di commenti, tutti concordano. Anche a me è capitato. È incredibile. È spazzatura. Avidi. Non comprerò mai più qualcosa con quel marchio. Un diluvio.

 

A quel punto, confesso, sono talmente scioccato da essere incredulo. Non mi resta che provare l’elemento più raro e difficile dei problemi informatici: l’assistenza umana. Chiamo un numero, una voce di androide mi dice che potrebbero rispondermi da fuori della UE, e se non mi va bene devo dirlo a chi mi risponderà («Buongiorno, non voglio parlare con Lei, è un extracomunitario» – chiaro che si tratta dell’ennesima legge europea allucinante che bisogna rispettare, come il GDPR, fatto da qualcuno che non si rendeva conto di quanto stava complicando la vita alle persone normali, o forse implementato proprio per questo). Poi un «menu» vocale, dove nessuna delle tre opzioni è la mia, che è anche piuttosto semplice: problema alla stampante, fatemi parlare con qualcuno.

 

Alla fine, tuttavia, mi rispondono, e perfino dall’Italia. Il tono del signore passa dal gentile, allo stupito, infine all’imbarazzato. Mi conferma che sì, la stampante va solo se mettiamo il WiFi.

 

«Ma come, ha stampato fino a poco fa usando solo il cavo USB… in casa il WiFi non c’è» gli dico sperando che la logica si abbatta su di lui e sulla sua multinazionale in modo che mi diano ragione.

 

«No. È pensata solo per andare in WiFi. La stampante consente di fare solo un numero di stampe via cavo al momento dell’installazione. Poi basta».

 

Sono basito. Resto qualche secondo in silenzio, fino al momento in cui realizzo che potrei star creando disagio.

 

Il tizio è cortese, mi dice che potrebbe forse mandarmi una stampante a cavo usata, forse pagando qualcosa. Saluto. Riattacco. La stampante, bella ed elegante, finisce re-inscatolata immantinente. Raus. Reso.

 

Il lettore che è arrivato fin qui, si chiederà come mai abbia raccontato una storia così minimale, comune. Per una volta non si parla di guerra atomica, demoni irati, geopolitiche abissali, programmi di sterminio. Parliamo di stampanti che non vanno, sì: perché questa storia ha in sé un significato spaventoso.

 

La realtà del problema era di non difficile comprensione: la stampante poteva tranquillamente essere usata con il cavo, come aveva dimostrato di poter fare, ma la funzione veniva bloccata dal software del produttore, che così ti obbligava a collegare in rete la tua stampante – in modo che la multinazionale avesse informazioni costanti sullo stato del prodotto che hai comprato.

 

Perché? Perché la prima cosa che trovavi aprendo la scatola era una brochure, il cui contenuto era ripetuto in un adesivo che copriva il muso della stampante, su un servizio di consegna automatica delle cartucce: stai per finire il toner, e automaticamente ti arriva a casa, perché il produttore controlla, grazie al fatto che hai connesso il WiFi, quanto ti manca e fa scattare una spedizione al momento del bisogno. Mica una brutta idea: di fatto, prima della disavventura, avevo pensato addirittura che potevo abbonare il signore mio amico.

 

Al momento della configurazione poi potrebbe venire chiesta l’email, viene creato un profilo nel database della grande azienda, forse viene chiesta, ineludibilmente, la carta di credito. Del resto, l’offerta è quella di iniziare con il programma di sostituzione automatica delle cartucce con una cifra irrisoria, che però va corrisposta – di modo che poi hanno, oltre che il tuo recapito fisico ed elettronico, anche il numero con cui farti fare strisciate cicliche.

 

La stampante, comprata come un oggetto, una commodity, è divenuta solo un’esca per captare dati e abbonamenti, una propaggina fatta di atomi della subscription economy.

 

Il fatto è che non è che hai alternativa: o fai come dicono loro, o la stampante che hai appena comprato non va, non vale più nulla per te, è inservibile. Non credo che tanti, davanti ad un bivio del genere, possano aver fatto la mia scelta – rimpacchetto tutto e arrivederci. Tutti vengono tranquillamente obbligati a seguire la direttiva che porta esattamente dove vuole il grande ente.

 

Alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, davanti a una richiesta proveniente dal sistema operativo, dai social, da qualche altro software dove di fatto non vi era altra scelta che schiacciare «Continua», «Accetta» o una cosa così. Nel gergo del web li chiamano dark pattern. L’utente è portato a compiere azioni perché non vi è altra opzione possibile, non un «Declina» o un «Cancella», talvolta nemmeno il tasto X per chiudere, la finestra. Devi fare quello che ti dicono: punto.

 

Forse a qualcuno comincia a suonare qualche campanello, e comincia a capire dove voglio arrivare.

 

Se mi obblighi a fare qualcosa che non voglio, perché non mi dai scelta, di fatto mi stai privando della libertà, oltre che di diritti codificati nella Carta costituzionale e nei vari codici che regolano il commercio e le relazioni umane.

 

Una volta eravamo cittadini, cioè latori di diritti, espressi in regole che fondano lo Stato stesso. Il cittadino dotato di diritti gode di determinati poteri: pensate all’habeas corpus. Il cittadino, quindi, riconosceva l’importanza collettiva delle istituzioni, di cui aveva rispetto (pensate al fatto che tutti, un tempo, si vestivano bene per andare a votare).

 

Il cittadino, dimentico degli orrori del mondo senza regole – quello delle guerre, dei collassi nazionali, delle crisi sacrificali della società – ben presto ha cominciato a percepire come garantiti quei diritti, al punto da permettersi perfino di ignorarne l’esistenza.

 

Con l’avvento della prosperità del dopoguerra è divenuto sempre più evidente che il cittadino, in cui era accresciuto un nuovo potere – il potere di acquisto – si stava trasformando in qualcos’altro: un consumatore. Anche lo Stato in qualche modo lo riconosce: elementi necessari alla vita come l’acqua, il gas e l’elettricità non sono erogati al cittadino, ma all’utenza, cioè al consumatore.

 

Il consumatore in realtà ha con i grandi marchi dell’industria che lo rifornisce un rapporto migliore di quello che ha con lo Stato. Morto ogni sentimento nazionale e considerato perfino pericoloso il nazionalismo, lo Stato è percepito come qualcosa che non ti puoi scegliere, e che quindi che può cozzare contro la tua felicità personale, perché, secondo la logica liberal-utilitarista, è buono e giusto solo ciò che si può scegliere (comprese le cose ultime: genere sessuale, bambini, morte, etc.)

 

Quindi, i grandi brand godono del favore del cittadino-consumatore più ancora dello Stato-nazione o quel che ne rimane. Alcuni sociologi hanno ipotizzato che i grandi marchi hanno preso il posto delle realtà sociali che, assieme ai loro simboli, sono retrocesse nella vita delle persone: la religione, la politica o anche l’esercito.

 

Di fatto, la felicità del popolo dei consumatori è evidente soprattutto in estate durante i mega-concerti di rock e dintorni: fenomeni di ritrovi di massa per chi consuma lo stesso prodotto, che in questo caso è un cantante famoso. Il fenomeno dei biker, è qualcosa di diverso? No: tendenzialmente è l’espressione orgogliosa di consumatori organizzati – gli eventi dei Ducatisti fanno arrivare talmente tante persone che le moto, come cavallette, possono intasare l’uscita dell’autostrada.

 

Chi non ha un amico patito di Apple, con qualche cimelio in casa, e magari l’adesivo con la mela esibito tamarristicamente sul culo dell’auto? Chi non conosce un esempio di sostenitore zelota della Nintendo? Ci sono perfino, e non sono pochi, i fan della Coca-cola: non solo la bevono, collezionano le lattine, hanno in casa i poster.

 

I consumatori hanno prosperato, più felici – in teoria – che mai, per decenni. Sceglievano l’istituzione cui obbedire, la grande realtà che era possibile perfino amare. Perché il brand, cioè la grande industria che ti fornisce l’oggetto di consumo, a sua volta rispettava i suoi consumatori, financo li riamava, sotto forma di prodotti soddisfacenti. Lo insegnavano nei corsi di marketing: il vertice della piramide è quando la sola visione del marchio stimola sensazioni positive nel consumatore, proprio come in un rapporto amoroso.

 

Ora è divenuto chiaro che anche l’era del consumatore è finita. I grandi soggetti economici non cercando più un rapporto con l’utente: ne cercano il controllo. La tecnologia cibernetica lo rende possibile. I dati che lui stesso fornisce, oltre che il suo recapito, rende possibile di comandarlo e tracciarlo – non devo più trovare il cliente, non devo fare in modo che venga da me, so già dove si trova, di cosa ha bisogno, conosco le modalità in cui posso insistere per prendermi il suo danaro.

 

Come per quanto la relazione tra Stato e cittadino: non è più un rapporto, è una sottomissione. Non c’è più la collaborazione, c’è il controllo. Non c’è lo scambio, c’è la sorveglianza.

 

Da una visione personale del marketing – che faceva uso di psicologia sociale, sociologia e altre scienze umane – siamo passati alla meccanica impersonale del digitale, dove è possibile controllare, cioè sottomettere, il consumatore. E non c’è alternativa alcuna: ora si fa solo così, e le aziende che non spingono il consumatore negli imbuti della digitalizzazione cesseranno di esistere a breve – così ci ripetono.

 

Caro cliente, ci interessi solo se ci darai in continuazione i dati tuoi e della stampante che hai comprato, altrimenti la rendiamo inservibile. Ma mica è solo il caso della stampante.

 

Abbiamo detto dei dark pattern dei vari software, che aprono finestre di dialogo in cui puoi schiacciare solo quello che vogliono loro senza altra scelta. Uno di questi casi ha prodotto, nel mio piccolo, un effetto così grottesco che stava per entrare a latere di una causa in tribunale.

 

Ma pensate a come l’informatica, o meglio, l’Internet of Things – la connessione di ogni oggetto in rete, come da sogno espresso nei libri di Casaleggio – stia per cambiare radicalmente tutto: avrete sentito parlare delle auto che saranno in grado, nel caso saltiate una rate del leasing, di bloccarsi e magari di autosequestrarsi. Lo stesso, in verità, potrà dirsi possibile per ogni elettrodomestico, dal telefonino al bollitore del the, dalla TV alla lavatrice-smart: tutti dispositivi pronti per il credito sociale europeo, quello per cui perderai punto per mancata vaccinazione, per aver scritto qualcosa contro la politica del governo o aver espresso dubbi sulla beltà dell’immigrazione di massa e dell’Ucraina.

 

Ecco che anche il consumatore è finito: senza più i diritti del cittadino, e senza più nemmeno le gioie e le libertà del consumo, egli è divenuto un essere umano sprotetto e privo di scelta – cioè uno schiavo.

 

Abbiamo capito che tale trasformazione ulteriore della persona umana va bene alla massa: la pandemia è stata una grande ricerca di mercato per capire fino a dove potevano spingersi nell’implementare la nuova schiavitù, e si è capito che potevano arrivare perfino a livello subcellulare: la vaccinazione universale mRNA altro non è se non un grande dark pattern di estremo successo, quella cosa per cui dovevi farlo anche se non ti obbligavano, solo ti toglievano il lavoro e la vita sociale, il sostentamento e il senso di appartenenza alla società.

 

Milioni, forse miliardi, sono finiti nell’imbuto della siringa globale: sono entrati cittadini-consumatori, sono usciti schiavi.

 

Quindi, non ci sorprendiamo se anche le grandi aziende ora ci trattano come schiavi. È il paradigma mondiale che è cambiato: non siete più persone libere che hanno diritti inalienabili, siete utenti di una piattaforma cui possono essere concessi, in base a meccaniche premiali basate sul vostro comportamento, degli «accessi», che il potere più alto (che magari nemmeno è più umano: magari è un algoritmo) vi può assegnare e revocare come vuole.

 

L’arrivo del danaro programmabile CBDC, che qui prenderà la forma dell’euro digitale, lo sancirà una volta per tutte: potrete vivere fino a quando lo decideranno sopra. Poi, semplicemente, vi spegneranno.

 

Siamo soggetti, quindi – nel senso di sudditi, o anche meno di quello, perché il potere può esercitare su di noi capricci sempre più intollerabili.

 

Siamo solo degli schiavi, e oramai ve lo dice perfino la vostra stampante.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

P.S. Se volete sapere com’è finita la storia del signore: resa la printer-schiavitù, gli ho trovato, non senza difficoltà, una stampante che va solo a cavo. È enorme, scura, tozza, bruttissima. Ci ho messo un’ora ad installare il driver, che era fornito via disco (ricordate cosa è?) oppure si scaricava dal sito in un pratico file da 400 mega, praticamente Moby Dick. Però funziona tutto. La scomodità, si è capito, è la prima moneta che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà.

 

P.P. S. Full disclosure: lo scrivente è ducatista, nintendista, possessore di vari prodotti Apple, bevitore, con moderazione e anche no, di Coca-cola. Ammetto tutto. Ma niente raduni, collezionismi eccessivi, adesivi deturpanti nel didietro della macchina, peraltro già gravemente segnato dalla grandine.

 

 

 

Economia

Amazon abbandona il sistema senza casse nei negozi: si è scoperto che la sua IA era alimentata da 1.000 lavoratori umani

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Il colosso dell’e-commerce Amazon starebbe rinunziando alla sua speciale tecnologia «Just Walk Out» che permetteva ai clienti di mettere la spesa nella borsa e lasciare il negozio senza dover fare la fila alla cassa. Lo riporta The Information, testata californiana che si occupa del business della grande tecnologia.

 

La tecnologia, disponibile solo nella metà dei negozi Amazon Fresh, utilizzava una serie di telecamere e sensori per tracciare ciò con cui gli acquirenti lasciavano il negozio. Tuttavia, secondo quanto si apprende, invece di chiudere il ciclo tecnologico con la pura automazione e l’intelligenza artificiale, l’azienda ha dovuto fare affidamento anche su un esercito di oltre 1.000 lavoratori in India, che fungevano da cassieri a distanza.

 

Di questo progetto denominato «Just Walk Out» – uno stratagemma di marketing per convincere più clienti a fare acquisti nei suoi negozi, minando attivamente il mercato del lavoro locale – forse non ne sentiremo la mancanza.

 

Nel 2018 Amazon ha iniziato a lanciare il suo sistema «Just Walk Out», che avrebbe dovuto rivoluzionare l’esperienza di vendita al dettaglio con l’intelligenza artificiale in tutto il mondo. Diverse altre società, tra cui Walmart, hanno seguito l’esempio annunciando negozi simili senza cassiere.

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Tuttavia più di cinque anni dopo, il sistema sembra essere diventato sempre più un peso. Stando sempre a quanto riportato da The Information, la tecnologia era troppo lenta e costosa da implementare, con i cassieri in outsourcing che avrebbero impiegato ore per inviare i dati in modo che i clienti potessero ricevere le loro ricevute.

 

Oltre a fare affidamento su manodopera a basso costo e in outsourcing e invece di pagare salari equi a livello locale, le critiche hanno anche messo in dubbio la pratica di Amazon di raccogliere una quantità gigantesca di dati sensibili, compreso il comportamento dei clienti in negozio, trasformando una rapida visita al negozio in un incubo per la privacy, scrive Futurism.

 

L’anno scorso, il gruppo di difesa dei consumatori Surveillance Technology Oversight Project, aveva intentato un’azione legale collettiva contro Amazon, accusando la società di non aver informato i clienti che stava vendendo segretamente dati a Starbucks a scopo di lucro.

 

Nonostante la spinta aggressiva nel mercato al dettaglio, l’impatto dei negozi di alimentari di Amazon negli Stati Uniti, è ancora notevolmente inferiore a quella dei suoi concorrenti quali Walmart, Costco e Kroger, come sottolinea Gizmodo.

 

Invece di «Just Walk Out», Amazon ora scommette su scanner e schermi incorporati nel carrello della spesa chiamato «Dash Carts». Resta da vedere se i «Dash Carts» si riveleranno meno invasivi dal punto di vista della privacy dei dati.

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Immagine di Sikander Iqbal via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

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Economia

FMI e Banca Mondiale si incontrano a Washington «all’ombra della guerra»

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I capi delle due più grandi istituzioni finanziarie mondialiste, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale si starebbero incontrando a Washington in queste ore per discutere il rischio sistemico che comporta la guerra in corso. Lo riporta il giornalista britannico Martin Wolf, che serve come principale commentatore economico del Financial Times.   L’articolo si intitola oscuramente «L’ombra della guerra si allunga sull’economia globale».   L’editorialista britannico afferma che «i politici stanno camminando sulle uova» per una serie di ragioni, incluso il fatto che «un quinto della fornitura mondiale di petrolio è passata attraverso lo Stretto di Hormuz, in fondo al Golfo, nel 2018. Questo è il punto di strozzatura della fornitura di energia globale».   «Una guerra tra Iran e Israele, che includa forse gli Stati Uniti, potrebbe essere devastante» avverte l’Economist. «I politici responsabili dell’economia mondiale riuniti a Washington questa settimana per le riunioni primaverili del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale sono spettatori: possono solo sperare che i saggi consigli prevalgano in Medio Oriente».

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«Se il disastro fosse davvero evitato, come potrebbe essere l’economia mondiale?» si chiede la pubblicazione britannica.   Come riportato da Renovatio 21, lo scorso dicembre il FMI pubblicò un rapporto i cui dati suggerivano come il dollaro stesse perdendo il suo dominio sull’economia mondiale.   Durante le usuali incontri primaverili tra FMI e Banca Mondiale dell’anno passato si era discusso, invece, delle valute digitali di Stato – le famigerate CBDC.   Il progetto di una CBDC globale, una valuta digitale sintetica globale controllata dalle banche centrali, ha lunga storia. Nel 2019, prima di pandemia, dedollarizzazionesuperinflazione e crash bancari che stiamo vedendo, l’allora governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney ne aveva parlato all’annuale incontro dei banchieri centrali di Jackson Hole, nel Wyoming nel 2019.   Come riportato da Renovatio 21, l’euro digitale sembra in piattaforma di lancio, e la presidente della Banca Centrale Europea Christine Lagarde sembra aver ammesso che sarà usato per la sorveglianza dei cittadini.

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Immagine di World Bank Photo Collection via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
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Economia

La Bank of America lancia un allarme sul petrolio a 130 dollari

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Una guerra totale tra Israele e Iran potrebbe far salire i prezzi del petrolio di 30-40 dollari al barile, hanno detto ai clienti gli esperti della Bank of America in una nota di ricerca vista dall’emittente statunitense CNBC.

 

Teheran e Gerusalemme Ovest si scambiano minacce da quando l’Iran ha condotto il suo primo attacco militare diretto contro lo Stato Ebraico lo scorso fine settimana, in rappresaglia per un sospetto attacco aereo israeliano sulla missione diplomatica iraniana in Siria all’inizio di questo mese.

 

Se le ostilità si trasformassero in un conflitto prolungato che colpisse le infrastrutture energetiche e interrompesse le forniture di greggio iraniano, il prezzo del Brent di riferimento globale potrebbe aumentare «sostanzialmente» a 130 dollari nel secondo trimestre di quest’anno, ha affermato martedì una nota di ricerca della Bank of America, secondo cui CNBC, aggiungendo che il petrolio greggio statunitense potrebbe salire a 123 dollari.

 

Secondo quanto riferito, lo scenario presuppone che la produzione petrolifera iraniana diminuisca fino a 1,5 milioni di barili al giorno (BPD). Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), l’Iran, membro fondatore dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC), produce circa 3,2 milioni di barili di petrolio al giorno.

 

L’anno scorso Teheran si è classificata come la seconda maggiore fonte di crescita dell’offerta al mondo dopo gli Stati Uniti.

 

Se un conflitto portasse a sconvolgimenti al di fuori dell’Iran, come ad esempio la perdita del mercato di 2 milioni di barili al giorno o più, i prezzi potrebbero aumentare di 50 dollari al barile, secondo la nota. Il Brent alla fine si attesterà intorno ai 100 dollari nel 2025, mentre il benchmark statunitense West Texas Intermediate (WTI) scenderà a 93 dollari, secondo le previsioni.

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Il prezzo del greggio Brent è salito a oltre 91 dollari al barile all’inizio di questo mese dopo che Teheran ha minacciato ritorsioni contro Israele. Tuttavia, come ha sottolineato il team di economia globale della banca, nei giorni successivi allo sciopero di ritorsione i prezzi del petrolio greggio sono crollati a causa «delle limitate vittime e dei danni» che ha causato.

 

Gli analisti hanno avvertito che la reazione del mercato «potrebbe non riflettere le implicazioni economiche e geopolitiche a medio termine» del primo attacco militare diretto dell’Iran contro Israele.

 

Se una guerra fosse limitata alle due nazioni, la Bank of America vedrebbe un impatto minimo sulla crescita economica degli Stati Uniti e sulla politica monetaria della Federal Reserve. Una guerra regionale generale, tuttavia, potrebbe avere un impatto sostanziale sugli Stati Uniti, secondo l’istituzione.

 

I futures del Brent venivano scambiati a 86,6 dollari al barile alle 11:29 GMT sull’Intercontinental Exchange (ICE). I futures WTI venivano scambiati a 82 dollari al barile a New York, scrive RT.

 

Come riportato da Renovatio 21, i prezzi del petrolio sono stati scossi anche dagli attacchi ucraini alle infrastrutture petrolifere russe, una politica bellica rivendicata dal ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba nella richiesta di fornire ulteriori armi a Kiev. La spinta al prezzo del petrolio data dagli attacchi dei droni ucraini su raffinerie russe è stata evidente quattro settimane fa, con il costo dell’oro nero salito a 86 dollari dopo un episodio.

 

Il petrolio è particolarmente sensibile alle questioni geopolitiche: nelle ultime ore, quando si erano sparse le voci di un imminente attacco iraniano ad Israele, il prezzo del greggio era schizzato sopra i 90 dollari al barile. La tensione nel Golfo di Aden, con gli Houthi che attaccano perfino le petroliere russe, contribuisce al caos sui mercati, con Goldman Sachs che ritiene che i prezzi potrebbero perfino raddoppiare. Dopo i forti aumenti registrati nel terzo trimestre 2023, Fitch Rating ha comunicato che il petrolio potrebbe toccare i 120 dollari.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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