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Economia

Da cittadini a consumatori. Da consumatori a schiavi

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C’è un signore quasi 80enne a cui voglio bene che mi chiama spesso per risolvergli alcuni problemini informatici. Non che sia un esperto, ma ambedue sappiamo che il fatto che appartengo alla generazione successiva alla sua aiuta.

 

Praticamente tutte le volte ho risolto; inutile nascondere che un’ampia porzione di chiamate riguardavano il pezzo di hardware più delicato e irrazionale: la stampante. Un oggetto a suo modo carico di significati: abolito oramai nelle case di chi ha meno di quaranta anni ma irrinunziabile per i più anziani, è l’unica parte del computer che fa qualcosa di fisico, produce documenti di carta, materia, roba.

 

La sua storia economica stupisce ancora: la stampante è un piccolo robot in grado di eseguire movimenti micrologici in velocità pazzesca, tuttavia costa poco, talvolta pochissimo – molti ricordano quando invece il prezzo era esorbitante, al punto che si portavano i file in copisteria. Poi, con la realizzazione che il danaro vero stava nella rivendita delle cartucce, la printer vide il suo prezzo precipitare.

 

La vecchia stampante a getto d’inchiostro dava problemi al mio amico. Alla seconda cartuccia cambiata, gli ho detto che probabilmente il problema era nella stampante, e visto che non veniva rilevato dalla macchina, forse era il caso di cambiarla – ripararla? No. Con quello che costano

 

Incaricato della missione, gli trovo nel giro di 24 ore una stampante laser stupenda. Piccolina, semplice fino al minimalismo. un design che viene voglia di piazzarla in mostra sulla mensola della sala da pranzo come un vaso cinese, emana perfino un lucore perlaceo azzeccatissimo, come i primi Mac, forse meglio ancora.

 

Eccomi quindi pronto ad eseguire l’installazione. Attacca il computer, attacca la corrente, collega la USB (a dire la verità, la presa è un po’ nascosta…). Fai una stampa di prova.  Ze-ze-ze-ze-ehmmmm. Fanne un’altra. Zin-zin-uuunnn. Il suono della stampa cibernetica dà gioia. Fai una prova della funzione fotocopia. Clic. Uhm-Uhmm-ze-ze-ze-zeeeem. Tutto perfetto. Buonanotte.

 

Il giorno dopo tuttavia, mi richiama. Si vergogna un po’ a dirlo, visto lo sforzo che ho fatto, e la paura di sembrare invadente. La stampante non va.

 

Trovato il tempo di visitarlo, mi rendo conto che non è un problema di software (disinstallare la precedente, mettere la presente come stampante principale: pensavo fosse semplicemente quello). Seguo le istruzioni, mi infilo nell’applicazione della casa madre. Non trovo soluzione.

 

Un segno inquietante lampeggia sulla stampante, come fosse in Stato di errore. L’errore, però, non si trova – in realtà non c’è.

 

La stampante in realtà funziona: trovato il modo di fare stampe di prova in automatico, mi esce una paginata che dice che la stampante è bloccata, deve essere configurata. Configurata? Lo è. L’ho fatto ieri. Leggo meglio: bisogna collegarla al WiFi, altrimenti non va.

 

A questo punto mi convinco che si tratti di un piccolo, innocente errore del produttore – una rinomatissima multinazionale. Si tratterà solo di disattivare qualcosa, dire alla stampa che non mi interessa il WiFi, che a casa del signore 80enne non c’è ed è pure giusto così. Voglio solo che la stampante continui a stampare come ha fatto nei primi giorni, quando abbiamo prodotto almeno una dozzina di stampe, tra prove e documenti medici vari. Non è che ci vuole molto: ci sarà uno switch da qualche parte, un comando che posso dare dal software per dire che salto l’installazione della rete nel dispositivo, il WiFi nella macchinetta non ce lo voglio, in verità neanche lo ho.

 

Le istruzioni, sia quelle di carta ancora incellofanate nella scatola sia quelle online del sito del produttore, non aiutano nemmeno alla lontana. Cerco un tutorial su YouTube. Qui mi viene rivelato l’orrore: altri hanno avuto il mio stesso problema. E il motivo è semplice: la nostra stampante funziona solo con il WiFi. Cioè: se non esegui quel passaggio – connettere in rete per sempre la periferica – non puoi utilizzarla in altro modo, neanche se ti ha appena dimostrato che con il cavo va.

 

Un tizio su YouTube dice che è proprio così, e quello che è peggio è che il software per fare la registrazione – perché oltre che la macchinetta in rete vogliono, ovvio, che tu ti faccia un account sulla loro piattaforma – non funziona bene, né sul PC né sul telefono. Sotto vi sono decine di commenti, tutti concordano. Anche a me è capitato. È incredibile. È spazzatura. Avidi. Non comprerò mai più qualcosa con quel marchio. Un diluvio.

 

A quel punto, confesso, sono talmente scioccato da essere incredulo. Non mi resta che provare l’elemento più raro e difficile dei problemi informatici: l’assistenza umana. Chiamo un numero, una voce di androide mi dice che potrebbero rispondermi da fuori della UE, e se non mi va bene devo dirlo a chi mi risponderà («Buongiorno, non voglio parlare con Lei, è un extracomunitario» – chiaro che si tratta dell’ennesima legge europea allucinante che bisogna rispettare, come il GDPR, fatto da qualcuno che non si rendeva conto di quanto stava complicando la vita alle persone normali, o forse implementato proprio per questo). Poi un «menu» vocale, dove nessuna delle tre opzioni è la mia, che è anche piuttosto semplice: problema alla stampante, fatemi parlare con qualcuno.

 

Alla fine, tuttavia, mi rispondono, e perfino dall’Italia. Il tono del signore passa dal gentile, allo stupito, infine all’imbarazzato. Mi conferma che sì, la stampante va solo se mettiamo il WiFi.

 

«Ma come, ha stampato fino a poco fa usando solo il cavo USB… in casa il WiFi non c’è» gli dico sperando che la logica si abbatta su di lui e sulla sua multinazionale in modo che mi diano ragione.

 

«No. È pensata solo per andare in WiFi. La stampante consente di fare solo un numero di stampe via cavo al momento dell’installazione. Poi basta».

 

Sono basito. Resto qualche secondo in silenzio, fino al momento in cui realizzo che potrei star creando disagio.

 

Il tizio è cortese, mi dice che potrebbe forse mandarmi una stampante a cavo usata, forse pagando qualcosa. Saluto. Riattacco. La stampante, bella ed elegante, finisce re-inscatolata immantinente. Raus. Reso.

 

Il lettore che è arrivato fin qui, si chiederà come mai abbia raccontato una storia così minimale, comune. Per una volta non si parla di guerra atomica, demoni irati, geopolitiche abissali, programmi di sterminio. Parliamo di stampanti che non vanno, sì: perché questa storia ha in sé un significato spaventoso.

 

La realtà del problema era di non difficile comprensione: la stampante poteva tranquillamente essere usata con il cavo, come aveva dimostrato di poter fare, ma la funzione veniva bloccata dal software del produttore, che così ti obbligava a collegare in rete la tua stampante – in modo che la multinazionale avesse informazioni costanti sullo stato del prodotto che hai comprato.

 

Perché? Perché la prima cosa che trovavi aprendo la scatola era una brochure, il cui contenuto era ripetuto in un adesivo che copriva il muso della stampante, su un servizio di consegna automatica delle cartucce: stai per finire il toner, e automaticamente ti arriva a casa, perché il produttore controlla, grazie al fatto che hai connesso il WiFi, quanto ti manca e fa scattare una spedizione al momento del bisogno. Mica una brutta idea: di fatto, prima della disavventura, avevo pensato addirittura che potevo abbonare il signore mio amico.

 

Al momento della configurazione poi potrebbe venire chiesta l’email, viene creato un profilo nel database della grande azienda, forse viene chiesta, ineludibilmente, la carta di credito. Del resto, l’offerta è quella di iniziare con il programma di sostituzione automatica delle cartucce con una cifra irrisoria, che però va corrisposta – di modo che poi hanno, oltre che il tuo recapito fisico ed elettronico, anche il numero con cui farti fare strisciate cicliche.

 

La stampante, comprata come un oggetto, una commodity, è divenuta solo un’esca per captare dati e abbonamenti, una propaggina fatta di atomi della subscription economy.

 

Il fatto è che non è che hai alternativa: o fai come dicono loro, o la stampante che hai appena comprato non va, non vale più nulla per te, è inservibile. Non credo che tanti, davanti ad un bivio del genere, possano aver fatto la mia scelta – rimpacchetto tutto e arrivederci. Tutti vengono tranquillamente obbligati a seguire la direttiva che porta esattamente dove vuole il grande ente.

 

Alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, davanti a una richiesta proveniente dal sistema operativo, dai social, da qualche altro software dove di fatto non vi era altra scelta che schiacciare «Continua», «Accetta» o una cosa così. Nel gergo del web li chiamano dark pattern. L’utente è portato a compiere azioni perché non vi è altra opzione possibile, non un «Declina» o un «Cancella», talvolta nemmeno il tasto X per chiudere, la finestra. Devi fare quello che ti dicono: punto.

 

Forse a qualcuno comincia a suonare qualche campanello, e comincia a capire dove voglio arrivare.

 

Se mi obblighi a fare qualcosa che non voglio, perché non mi dai scelta, di fatto mi stai privando della libertà, oltre che di diritti codificati nella Carta costituzionale e nei vari codici che regolano il commercio e le relazioni umane.

 

Una volta eravamo cittadini, cioè latori di diritti, espressi in regole che fondano lo Stato stesso. Il cittadino dotato di diritti gode di determinati poteri: pensate all’habeas corpus. Il cittadino, quindi, riconosceva l’importanza collettiva delle istituzioni, di cui aveva rispetto (pensate al fatto che tutti, un tempo, si vestivano bene per andare a votare).

 

Il cittadino, dimentico degli orrori del mondo senza regole – quello delle guerre, dei collassi nazionali, delle crisi sacrificali della società – ben presto ha cominciato a percepire come garantiti quei diritti, al punto da permettersi perfino di ignorarne l’esistenza.

 

Con l’avvento della prosperità del dopoguerra è divenuto sempre più evidente che il cittadino, in cui era accresciuto un nuovo potere – il potere di acquisto – si stava trasformando in qualcos’altro: un consumatore. Anche lo Stato in qualche modo lo riconosce: elementi necessari alla vita come l’acqua, il gas e l’elettricità non sono erogati al cittadino, ma all’utenza, cioè al consumatore.

 

Il consumatore in realtà ha con i grandi marchi dell’industria che lo rifornisce un rapporto migliore di quello che ha con lo Stato. Morto ogni sentimento nazionale e considerato perfino pericoloso il nazionalismo, lo Stato è percepito come qualcosa che non ti puoi scegliere, e che quindi che può cozzare contro la tua felicità personale, perché, secondo la logica liberal-utilitarista, è buono e giusto solo ciò che si può scegliere (comprese le cose ultime: genere sessuale, bambini, morte, etc.)

 

Quindi, i grandi brand godono del favore del cittadino-consumatore più ancora dello Stato-nazione o quel che ne rimane. Alcuni sociologi hanno ipotizzato che i grandi marchi hanno preso il posto delle realtà sociali che, assieme ai loro simboli, sono retrocesse nella vita delle persone: la religione, la politica o anche l’esercito.

 

Di fatto, la felicità del popolo dei consumatori è evidente soprattutto in estate durante i mega-concerti di rock e dintorni: fenomeni di ritrovi di massa per chi consuma lo stesso prodotto, che in questo caso è un cantante famoso. Il fenomeno dei biker, è qualcosa di diverso? No: tendenzialmente è l’espressione orgogliosa di consumatori organizzati – gli eventi dei Ducatisti fanno arrivare talmente tante persone che le moto, come cavallette, possono intasare l’uscita dell’autostrada.

 

Chi non ha un amico patito di Apple, con qualche cimelio in casa, e magari l’adesivo con la mela esibito tamarristicamente sul culo dell’auto? Chi non conosce un esempio di sostenitore zelota della Nintendo? Ci sono perfino, e non sono pochi, i fan della Coca-cola: non solo la bevono, collezionano le lattine, hanno in casa i poster.

 

I consumatori hanno prosperato, più felici – in teoria – che mai, per decenni. Sceglievano l’istituzione cui obbedire, la grande realtà che era possibile perfino amare. Perché il brand, cioè la grande industria che ti fornisce l’oggetto di consumo, a sua volta rispettava i suoi consumatori, financo li riamava, sotto forma di prodotti soddisfacenti. Lo insegnavano nei corsi di marketing: il vertice della piramide è quando la sola visione del marchio stimola sensazioni positive nel consumatore, proprio come in un rapporto amoroso.

 

Ora è divenuto chiaro che anche l’era del consumatore è finita. I grandi soggetti economici non cercando più un rapporto con l’utente: ne cercano il controllo. La tecnologia cibernetica lo rende possibile. I dati che lui stesso fornisce, oltre che il suo recapito, rende possibile di comandarlo e tracciarlo – non devo più trovare il cliente, non devo fare in modo che venga da me, so già dove si trova, di cosa ha bisogno, conosco le modalità in cui posso insistere per prendermi il suo danaro.

 

Come per quanto la relazione tra Stato e cittadino: non è più un rapporto, è una sottomissione. Non c’è più la collaborazione, c’è il controllo. Non c’è lo scambio, c’è la sorveglianza.

 

Da una visione personale del marketing – che faceva uso di psicologia sociale, sociologia e altre scienze umane – siamo passati alla meccanica impersonale del digitale, dove è possibile controllare, cioè sottomettere, il consumatore. E non c’è alternativa alcuna: ora si fa solo così, e le aziende che non spingono il consumatore negli imbuti della digitalizzazione cesseranno di esistere a breve – così ci ripetono.

 

Caro cliente, ci interessi solo se ci darai in continuazione i dati tuoi e della stampante che hai comprato, altrimenti la rendiamo inservibile. Ma mica è solo il caso della stampante.

 

Abbiamo detto dei dark pattern dei vari software, che aprono finestre di dialogo in cui puoi schiacciare solo quello che vogliono loro senza altra scelta. Uno di questi casi ha prodotto, nel mio piccolo, un effetto così grottesco che stava per entrare a latere di una causa in tribunale.

 

Ma pensate a come l’informatica, o meglio, l’Internet of Things – la connessione di ogni oggetto in rete, come da sogno espresso nei libri di Casaleggio – stia per cambiare radicalmente tutto: avrete sentito parlare delle auto che saranno in grado, nel caso saltiate una rate del leasing, di bloccarsi e magari di autosequestrarsi. Lo stesso, in verità, potrà dirsi possibile per ogni elettrodomestico, dal telefonino al bollitore del the, dalla TV alla lavatrice-smart: tutti dispositivi pronti per il credito sociale europeo, quello per cui perderai punto per mancata vaccinazione, per aver scritto qualcosa contro la politica del governo o aver espresso dubbi sulla beltà dell’immigrazione di massa e dell’Ucraina.

 

Ecco che anche il consumatore è finito: senza più i diritti del cittadino, e senza più nemmeno le gioie e le libertà del consumo, egli è divenuto un essere umano sprotetto e privo di scelta – cioè uno schiavo.

 

Abbiamo capito che tale trasformazione ulteriore della persona umana va bene alla massa: la pandemia è stata una grande ricerca di mercato per capire fino a dove potevano spingersi nell’implementare la nuova schiavitù, e si è capito che potevano arrivare perfino a livello subcellulare: la vaccinazione universale mRNA altro non è se non un grande dark pattern di estremo successo, quella cosa per cui dovevi farlo anche se non ti obbligavano, solo ti toglievano il lavoro e la vita sociale, il sostentamento e il senso di appartenenza alla società.

 

Milioni, forse miliardi, sono finiti nell’imbuto della siringa globale: sono entrati cittadini-consumatori, sono usciti schiavi.

 

Quindi, non ci sorprendiamo se anche le grandi aziende ora ci trattano come schiavi. È il paradigma mondiale che è cambiato: non siete più persone libere che hanno diritti inalienabili, siete utenti di una piattaforma cui possono essere concessi, in base a meccaniche premiali basate sul vostro comportamento, degli «accessi», che il potere più alto (che magari nemmeno è più umano: magari è un algoritmo) vi può assegnare e revocare come vuole.

 

L’arrivo del danaro programmabile CBDC, che qui prenderà la forma dell’euro digitale, lo sancirà una volta per tutte: potrete vivere fino a quando lo decideranno sopra. Poi, semplicemente, vi spegneranno.

 

Siamo soggetti, quindi – nel senso di sudditi, o anche meno di quello, perché il potere può esercitare su di noi capricci sempre più intollerabili.

 

Siamo solo degli schiavi, e oramai ve lo dice perfino la vostra stampante.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

P.S. Se volete sapere com’è finita la storia del signore: resa la printer-schiavitù, gli ho trovato, non senza difficoltà, una stampante che va solo a cavo. È enorme, scura, tozza, bruttissima. Ci ho messo un’ora ad installare il driver, che era fornito via disco (ricordate cosa è?) oppure si scaricava dal sito in un pratico file da 400 mega, praticamente Moby Dick. Però funziona tutto. La scomodità, si è capito, è la prima moneta che si deve pagare se si vuole mantenere la libertà.

 

P.P. S. Full disclosure: lo scrivente è ducatista, nintendista, possessore di vari prodotti Apple, bevitore, con moderazione e anche no, di Coca-cola. Ammetto tutto. Ma niente raduni, collezionismi eccessivi, adesivi deturpanti nel didietro della macchina, peraltro già gravemente segnato dalla grandine.

 

 

 

Economia

La Norvegia ha guadagnato 31 miliardi di dollari dal conflitto in Ucraina

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La Norvegia ha registrato entrate record da petrolio e gas lo scorso anno dopo che il conflitto in Ucraina ha fatto lievitare i prezzi dell’energia, ha riferito martedì l’emittente NRK.

 

Secondo il canale, citando l’istituto di ricerca NHH, la Norvegia, Paese ricchissimi di idrocarburi che si trova fuori dalla UE ma dentro la NATO, ha guadagnato 334 miliardi di corone (31,3 miliardi di dollari) nel 2022 in ricavi dalle esportazioni di gas naturale, a fronte di una grave interruzione delle forniture di gasdotto russo.

 

«Riteniamo che il prezzo del carbone e la carenza di offerta russa spieghino la maggior parte delle fluttuazioni del prezzo del gas naturale nel 2022», hanno scritto i ricercatori dell’NHH.

 

Secondo il rapporto, questa cifra rappresentava il 27% dei ricavi delle esportazioni di gas norvegese nel 2022, escluse le forniture al Regno Unito. Ha indicato che il 2022 è stato un anno record in termini di entrate del gas norvegese.

 

«È una cifra follemente alta», ha detto il leader del Partito Verde norvegese, Arild Hermstad, citato da NRK. «È riprovevole che la Norvegia tragga profitto dalla sfortuna altrui. Il governo rende imbarazzante essere norvegese».

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Le entrate eccezionali hanno portato alcuni politici ad accusare la Norvegia di essere un «profittatore di guerra», un’etichetta che Oslo rifiuta. Un anno fa, si era detto, il Paese scandinavo era stato indicato che il Centro Norvegese per la Risoluzione dei Conflitti (NOREF) poteva fungere da canale riservato per i colloqui russo-americani.

 

L’anno passato il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh ha indicato in una base sottomarina in Norvegia uno dei fulcri dei piani piano americano di far saltare il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2. «A Washington, i pianificatori sapevano di dover andare in Norvegia. “I norvegesi – dice la fonte – odiavano i russi e la marina era piena di marinai e sommozzatori eccellenti, con generazioni di esperienza nell’esplorazione di petrolio e gas in acque profonde altamente redditizie”. Inoltre ci si poteva fidare di loro per mantenere la missione segreta».

 

Va ricordato che l’attuale segretario NATO, il Jens Stoltenberg, è norvegese.

 

Paese confinante con la Russia, il livello di tensione di Oslo può essere testimoniato dai recenti allarmi contro Hvaldimir, un beluga che vive in un fiordo sospettato di essere una spia russa.

 

Oltre che di gas, la Norvegia si è rivelata negli ultimi tempi come un grande esportatore di sperma umano, un fatto che potrebbe suggerire quanto sulla riproduzione artificiale cercata dalle coppiette borghesi (omosessuali o eterosessuali che siano) può spuntare l’ombra dell’eugenetica «nordica» cara ad Adolfo Hitler.

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Economia

Lavrov: gli Stati Uniti utilizzano il dollaro come arma per le guerre commerciali globali

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Gli Stati Uniti stanno utilizzando il dollaro per scatenare guerre commerciali in tutto il mondo, mentre anche la cooperazione economica internazionale viene utilizzata come arma, ha detto lunedì il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Lo riporta il sito governativo russo RT.   Gli Stati Uniti e i loro alleati nell’UE stanno utilizzando una vasta gamma di strumenti di «ingegneria geopolitica», che includono, tra le altre cose, «scatenare guerre commerciali ed economiche», ha detto Lavrov al Primakov Readings International Forum.   «Le attività dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, principalmente per la risoluzione delle controversie, sono state bloccate dai Paesi occidentali. Sono stati distrutti i fondamenti giuridici fondamentali delle relazioni economiche mondiali, come la libera concorrenza e l’immunità della proprietà», ha osservato il diplomatico russo.   Lavrov ha continuato affermando che la valuta americana è stata a lungo utilizzata come arma, aggiungendo che le «azioni distruttive» delle nazioni occidentali hanno prodotto l’effetto opposto a quello previsto. Il diplomatico ha sostenuto che le sanzioni guidate dagli Stati Uniti volte a isolare la Russia e paralizzare la sua economia hanno in realtà stimolato il «rafforzamento del multipolarismo negli affari internazionali».   Secondo Lavrov, nel mondo cresce la consapevolezza che «nessuno è immune» di fronte alle «azioni aggressive di Washington e Bruxelles», osservando che non solo la Russia ma molti altri paesi stanno ora riducendo «coerentemente» la loro dipendenza dalle valute occidentali passando ad alternative per gli accordi commerciali con l’estero.   La tendenza globale verso l’utilizzo delle valute nazionali negli scambi commerciali al posto del dollaro statunitense ha iniziato a prendere slancio lo scorso anno dopo che le sanzioni legate all’Ucraina hanno visto la Russia tagliata fuori dal sistema finanziario occidentale e hanno anche visto il congelamento delle sue riserve estere.   Man mano che la multipolarità prende forma, sempre più nazioni stanno lavorando alla creazione di nuovi corridoi di trasporto e catene di approvvigionamento. Nel frattempo, un modello di globalizzazione «ingiusto» e «sbilanciato» è diventato obsoleto, ha affermato Lavrov.   In passato Lavrov aveva parlato dell’inizio di un nuovo sistema finanziario ed economico che emergerà dalla fine della guerra per procura americano in Est Europa.   Come riportato da Renovatio 21, un anno e mezzo fa, agli albori del conflitto ucraino, Lavrov, osservando l’incipiente processo di de-dollarizzazione, arrivò a chiedersi pubblicamente se la diplomazia USA non avesse perso la testa.    

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia  
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Alimentazione

I prezzi del cacao vicini ai massimi storici

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Secondo i dati commerciali, la scorsa settimana i prezzi del cacao sono saliti al livello più alto in quasi mezzo secolo, a causa del calo dell’offerta globale.

 

I futures di New York per l’ingrediente chiave per la produzione del cioccolato sono saliti sopra i 4.200 dollari per tonnellata, il prezzo più alto per la merce dal settembre 1977, superando il picco del 2011 derivante dal divieto di esportazione di cacao di quell’anno da parte della Costa d’Avorio. Quest’anno i prezzi sono saliti alle stelle di circa il 75%.

 

Gli esperti hanno attribuito l’impennata dei prezzi agli scarsi raccolti in Costa d’Avorio e Ghana, che forniscono due terzi delle fave di cacao del mondo, a causa di condizioni meteorologiche estreme e malattie dei raccolti dovute al minore utilizzo di fertilizzanti da parte degli agricoltori. L’inizio del raccolto in entrambe le regioni è già rimasto indietro rispetto al ritmo della scorsa stagione, riferiscono i media, facendo temere un’ulteriore contrazione del mercato già sottofornito.

 

Secondo i dati di Trading Economics, i coltivatori della Costa d’Avorio hanno spedito 348.560 tonnellate di cacao dal 1° ottobre al 12 novembre, una cifra inferiore del 25,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

 

Gli analisti del settore sottolineano inoltre che ulteriori impennate dei prezzi sono probabilmente dovute alla minaccia per l’offerta globale rappresentata dal fenomeno meteorologico El Niño, che si prevede prosciugherà l’Africa occidentale nei prossimi mesi.

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Le carenze di approvvigionamento sono inoltre aggravate da un aumento della domanda globale di fave di cacao, con la lavorazione in Europa, Brasile e Costa d’Avorio in aumento negli ultimi mesi.

 

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Cacao (ICCO), il mercato globale si trova ad affrontare un deficit di 116.000 tonnellate di cacao per la stagione di crescita in corso (da ottobre 2022 a settembre 2023).

 

L’albero del cacao, originario della foresta amazzonica, fu addomesticato per la prima volta 5.300 anni fa in Sud America prima di essere introdotto in America Centrale dagli Olmechi. Il cacao veniva consumato dalle culture preispaniche durante cerimonie spirituali e i suoi semi erano una valuta comune in Mesoamerica.

 

L’albero del cacao cresce in una zona geografica limitata e oggi l’Africa occidentale produce quasi l’81% del raccolto mondiale. Le tre principali varietà di pianta del cacao sono Forastero, Criollo e Trinitario, di cui Forastero è la più utilizzata.

 

Nel 2020, la produzione globale di fave di cacao ha raggiunto i 5,8 milioni di tonnellate, con la Costa d’Avorio in testa con il 38% del totale, seguita da Ghana e Indonesia. Le fave di cacao, il burro di cacao e il cacao in polvere vengono negoziati sui mercati dei futures, con Londra che si concentra sul cacao dell’Africa occidentale e New York sul cacao del sud-est asiatico.

 

Il cacao contribuisce in modo significativo ad economie come la Nigeria e la domanda di prodotti a base di cacao continua a crescere costantemente a un ritmo superiore al 3% annuo dal 2008.

 

Per produrre 1 chilogrammo di cioccolato vengono lavorate dalle 300 alle 600 fave di cacao. I chicchi vengono tostati, spezzati e sgusciati, ottenendo pezzi chiamati pennini, che vengono macinati in una pasta densa nota come liquore al cioccolato o pasta di cacao. Il liquore viene trasformato in cioccolato aggiungendo burro di cacao, zucchero e talvolta vaniglia e lecitina.

 

In alternativa, il cacao in polvere e il burro di cacao possono essere separati utilizzando una pressa idraulica o il processo Broma.

 

La tostatura può essere effettuata anche sul chicco intero o sulla punta, influenzando il sapore finale. Il cacao contiene sostanze fitochimiche come flavanoli, procianidine e altri flavonoidi, e il cioccolato e i prodotti a base di cacao ricchi di flavanoli possono avere un leggero effetto di abbassamento della pressione sanguigna. I chicchi contengono anche teobromina e una piccola quantità di caffeina.

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Immagine di formulatehealth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

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