Economia
Il collasso delle banche è per portarci alla moneta digitale

Mentre scrivo pare sia partito in Europa il domino delle banche. Che il contagio si fermi a quelle piccole, o prosegua tirando giù istituti nazionali, alla fine non cambia molto.
La Silicon Valley Band, come è stato notato, non è una banca qualsiasi: ha in pancia tutto il danaro che il Venture Capital – concentrato quasi tutto in uffici a Sandhill Road, la via che porta a Stanford – e quindi con la Banca vanno a morire, perché impossibilitate di ritirare il proprio danaro, centinaia, migliaia di startup tecnologiche. È il collasso dell’intero settore tecnologico californiano, quello che di fatto governa il mondo. Lo avete visto anche voi: da mesi, Google, Facebook e compagnia licenziano decine di migliaia di dipendenti.
I venture capitalist in questi ultimi giorni twittavano impazziti: salvataggio bancario subito! Altrimenti, i loro investimenti sarebbero andati in fumo. Detto, fatto: Biden ha proceduto con il bailout. Il presidente senile si è fatto riprendere in TV con tutta l’ufficialità della Casa Bianca: il sistema bancario è al sicuro. Eccerto, detto da lui, si fidano tutti.
Si tratta del secondo più grande crack bancario della storia d’America. Quello della banca Signature, che è seguito di poco, è il terzo. La situazione è senza precedenti.
Pare chiaro che né alla SVB né alla Signature sapevano cosa stessero facendo. Con la FED che stampa danaro, in realtà, non sapevano dove metterlo. Potevano occuparsi di altro. Nel 2020 donarono a Black Lives Matter e affini 73 milioni di dollari.
Poco prima del crack, la SVB sui social mostrava le foto del «ritiro» per l’uguaglianza delle donne della banca, andate a sciare in una località di prestigio. La Signature ha prodotto video woke, con balletti e video musicali dei dipendenti, che vanno ben al di là del cringe. La stessa banca pochi mesi prima faceva un evento, forse ancora visibile in rete, sui pronomi gender da utilizzare tra i colleghi e con i clienti.
Is it surprising that Signature Bank failed?
Their executive team spent millions of dollars to produce music videos & TV shows about themselves
Try not to cringe as you watch this: pic.twitter.com/16K70FQq5o
— Genevieve Roch-Decter, CFA (@GRDecter) March 13, 2023
Tutto facevano, meno che fare le banche. Il Daily Mail ha scritto che il board della SVB era costituito da donne che come competenza avevano l’essere tutte mega-donor (cioè grandi donatrici) dei Clinton e di Obama. In rete tutti si chiedono come sia stato possibile il crack, visto che a bordo c’erano anche persone che avevano testimoniato da vicino il collasso della Lehman Brothers nel 2008.
La Silicon Valley Bank, del resto, non veniva da un brutto periodo. Aveva asset per 40 miliardi di dollari nel 2019. Con la pandemia, e i super affari conseguenti della Silicon Valley che serviva l’umanità rinchiusa in internet e nei propri appartamenti in lockdown, arrivò nel 2022 alla cifra di 221 miliardi. Davvero, i soldi non sapevano dove metterli, il tracollo deve essere stato repentino, ma non troppo: il CEO ed altri hanno venduto le loro azioni, ricevendo in cambio milioni, prima del patatrac. Siamo alle solite: specie se osserviamo le scene della gente che va allo sportello e, di contro, gli impiegati chiamano la polizia.
Lo spezzatino immediato ha visto la HSBC – la Banca di Hong Kong e Shanghai, antica istituzione britannica coinvolta nella guerra dell’oppio un secolo e mezzo fa e nel riciclo dei miliardi dei narcos di recente – comprarsi il ramo della SVB in Albione: per una sterlina. Una storia che abbiamo già sentito… e che ricorderemo tra un attimo.
Ora, qualcuno in America parla di una situazione, amministrativa e mediatica, che quasi chiamava questo fallimento. Lo «specialista» TV Jim Cramer, volto del canale anti-Trump MSNBC, consigliava i titoli SVB e Signature ancora poche settimane fa. Tucker Carlson ieri sera si è lasciato scappare che sembra quasi che l’amministrazione Biden invitasse questo piccolo disastro per le banche regionali, mentre le grandi banche andrebbero benissimo. Di nostro abbiamo captato qualche segnale, non sappiamo quanto credibile, che punta il dito verso Peter Thiel e i suoi fondi di investimento, che avrebbero fatto muovere capitali nella SVB di modo da generare il caos.
Di fatto c’è che in borsa il giorno dopo l’annuncio della fine di SVB sono crollate tutte le banche regionali. Western Alliance, -75%; First Republic, -65%; Zions Bancorp, -43%; PacWest, -41%; Comerica, -33%; Fifth Third, -20%. Le contrattazioni sono state quindi fermate. Ma il destino del credito regionale USA pare segnato.
Scusate, ma questa situazione ci ricorda qualcosa. Le piccole banche spariscono… e vengono ingollate dai grandi istituti.
Dov’era successo? Ah, sì, in Italia. Ricorderete: al governo c’era Renzi, che con un decreto toglie il voto capitario alle Banche Popolari e obbliga quelle con attivi superiori a 8 miliardi a diventare società per azioni nel giro di un anno e mezzo dalle disposizioni di Bankitalia. «Abbiamo un sistema bancario molto solido, la nostra operazione sulle banche popolari lo rafforzerà ancora di più», disse il premier in un’intervista al settimanale L’Espresso, testata allora posseduta da Carlo de Benedetti. Particolare non privo di significato: Renzi fu attaccato perché, durante un colloquio con il finanziere piddino svizzero già FIAT e Rothscild, avrebbe fornito informazioni privilegiate che lo avrebbero favorito.
Il decreto, scrive Il Fatto, fu «un terremoto: le prime 10 [Banche popolari] si devono quotare in Borsa e trasformarsi in Spa, abbandonando il voto capitario (una testa un voto a prescindere dal numero di azioni) che le rendeva non scalabili. Un pezzo del credito italiano viene consegnato al mercato, acquisendo valore da un giorno all’altro».
«La settimana prima del decreto, elaborato da Bankitalia, i titoli di alcune popolari già quotate hanno strani rialzi (Etruria sale del 65%)». Già: Etruria. Ricordate?
Non c’è solo De Benedetti. L’11 marzo 2015 l’autorità di controllo CONSOB sente Serra, capo di un hedge fund londinese e sostenitore delle Leopolde di Renzi, «nell’ambito dell’indagine sul possibile abuso di informazioni privilegiate relative all’acquisto di quote in diversi istituti popolari».
La fine è nota. Dopo scandali vari (come la scoperta dei prestiti «baciati») vengono disintegrati quasi tutti i banchi popolari maggiori. UBI Banca si prende Etruria. La Banca Popolare di Bari viene salvata direttamente dallo Stato. Le due venete, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (quest’ultima, per anni, apparsa come invincibile) vengono assorbite da Intesa San Paolo. Vengono comprate per un euro – ah, ecco dove avevamo sentito quella storia.
Molti risparmiatori, che si erano fatti convincere ad investire nella banca invece che tenersi il conto corrente, nel processo hanno perso tutto. Tutto: un’intera vita di risparmi, senza averne una vita di riserva per rifarsi. I casi sono talvolta tremendi: non c’è solo il nonno che vuole comprare l’appartamento al nipote, c’è la madre che non ha più i soldi per curare il cancro della figlia. Storie così. Gente ingenua? No, si erano fatti persuadere perché la banca popolare, piccola ed amichevole, era una dolce certezza in un mondo sempre più instabile.
All’epoca avevo parlato con una persona addentro alle cose delle popolari disintegrate. Un professionista lucido e tranquillo – mille anni luce dal partigiano o dal complottista. Il suo discorso era semplice. Mi diceva che il diktat contro le popolari era nato a Francoforte, alla BCE, e da qui trasmesso a Bankitalia. C’era il fatto che alcune banche dei laender, le banche regionali tedesche, erano saltate con la catastrofe del 2008. Lo stesso anche per alcuni istituti britannici. Tutti salvati dallo Stato. Le popolari italiane, invece, avevano retto. Farle fuori faceva parte di una logica che trascendeva logiche nazionali. Si trattava, diceva, un progetto di riordino e accentramento del credito che aveva portata vastissima. Poteva anche esserci stato il caso che avessero illuso qualche pezzo grosso che la sua popolare sarebbe sopravvissuta. Invece fu il bagno di sangue generale, senza pietà alcuna.
Ora, rammento questa chiacchierata di un pranzo di lustri fa solo per dire che, con probabilità, stiamo assistendo allo stesso fenomeno, solo su scala americana.
Ho, però, un grande dubbio. In Italia, quella volta, a beneficiare della sparizione dei piccoli istituti furono le grandi banche. Mentre scrivo, in Europa le Borse sono in caduta libera.
Credit Suisse è collassata, mandando in fumo 355 miliardi. Commerzbank e Deutsche Bank stanno perdendo quasi l’8%. La francese Société Generale perde oltre il 10% e BNP Paribas il 9,8%. In Italia Unicredit ed Intesa Sanpaolo perdono il 7%, Unipol il 5%, Banco BPM il 5,85%.
È partito il contagio? Può essere. Tuttavia crediamo che, arrivati a questo punto, a beneficiarne non saranno più i pesci grossi, né in Europa, né in USA. Non vi sarà una grande banca che comprerà quella in difficoltà (come con le popolari), o anche se sarà così, si tratterà solo di un passaggio, di uno strumento temporaneo.
Perché appare chiaro che una nuova grande crisi finanziaria non potrà far altro che chiamare la soluzione già invocata da tutte le élite, la CBDC: Central Bank Digital Currency, la moneta elettronica emessa dalle Banche Centrali nazionali, ovvero il «Bitcoin di Stato».
Su Renovatio 21, ne abbiamo parlato ad nauseam, e sappiamo che, in Europa, il lancio dell’eurodigitale è definito «inevitabile» dalla stessa BCE, e correrà su piattaforme informatiche dove – sorpresa – viaggiava il green pass. Sistemi concepiti e realizzati prima della pandemia.
È il caso di ripetere questa enormità: le banche potrebbero essere sul punto di essere disrupted, disintermediate. Il portafoglio digitale del cittadino non avrà bisogno di istituti che gli tengano i soldi: perché quei soldi non esistono, sono puro software. Non stanno abolendo solo il contante: stanno per abolire anche le banche.
Ma come può il potere desiderare un mondo senza banche? Cosa ne guadagnerebbe? Qui diventa chiaro un altro tema che sfugge ai più: non lo fanno per i soldi, lo fanno per il controllo. Quello è il loro vero obbiettivo: sorvegliare e punire, sanzionare e dirigere l’intera popolazione, come si è visto benissimo durante il biennio pandemico, come e più di quello che fanno nell’incubo biototalitario digitale cinese.
La moneta digitale, il danaro programmabile, sarà questo: vi impedirà di comprare e di vendere, vi spegnerà con un click. Le multe saranno contestabili, forse, solo a posteriori, perché prelevate direttamente dal conto elettronico – come ovviamente le tasse. Alcuni prodotti non vi sarà possibili comprarli (la Nutella, se al database risulta che avete il diabete) altri vi saranno inibiti nello spazio e nel tempo (acquistare benzina in un periodo di fermo ecologico, in una data città).
La vostra vita sarà gestita da una piattaforma che realizza il potere finale del danaro: la manipolazione dell’esistenza umana. L’unico rapporto che potrete avere col sistema, a quel punto, sarà la vostra sottomissione. La vostra schiavitù.
Potete non credere a tutti le bandierine che Renovatio 21 ha sollevato in questi anni: l’ID digitale, propalato dalla Francia allo Sri Lanka, da Bologna all’Ucraina, stranamente sostenuto da banche come quelle del Canada, ad esempio, che citano il World Economic Forum senza bene rendersi conto di esseri tacchini entusiasti del Natale.
Prestate, tuttavia, un secondo di attenzione a questa notizia apparsa neanche sei giorni fa sul sito dello SWIFT, la che agisce come intermediario finanziario esecutore delle transazioni finanziarie mondiali. «Il successo dei test apre la strada all’uso transfrontaliero di CBDC» titola la pagina. «Nell’ottobre dello scorso anno, abbiamo annunciato di aver sviluppato con successo una soluzione per consentire ai CBDC di spostarsi tra i sistemi basati su DLT [cioè tecnologia Blockchain, ndr] e quelli basati su fiat [cioè il danaro comune, ndr] utilizzando l’infrastruttura finanziaria esistente».
La transizione, insomma, è pronta. «Ora abbiamo testato questa soluzione in un ambiente di prova con 18 banche centrali e commerciali. I partecipanti hanno espresso un forte sostegno per il continuo sviluppo della soluzione, osservando che ha consentito lo scambio continuo di CBDC, anche quelli costruiti su piattaforme diverse».
Vale la pena di ricordare cosa è successo con lo SWIFT. A inizio 2022, con l’impennata delle tensioni con la Russia per l’Ucraina, si minacciò di espellere Mosca dal circuito SWIFT. Impossibile, dissero molti – si tratta dell’equivalente di una bomba nucleare finanziaria. È solo il tintinnare delle sciabole. Non lo faranno mai, è una cosa mai vista.
Invece, poi, lo hanno fatto. La Russia è stata buttata fuori dallo SWIFT: prima della distruzione del Nord Stream, avevano tirato giù anche questa infrastruttura. Ora il Cremlino lavora con l’Iran e con la Cina per costruire alternative al circuito.
Curioso: stanno per partire con la moneta digitale, ma nel giro pare di capire che non vogliono i russi. Né, a breve, chiunque si identificherà con il blocco anti-occidentale che va creandosi nella geopolitica planetaria – quello che peraltro, diciamo en passant, è pure fuori dai confini del vaccino mRNA.
Qualcuno deve aver deciso che l’Occidente deve subire per primo questa trasformazione radicale, la digitalizzazione dell’economia e quindi della vita umana, divenuta un oggetto cibernetico, quindi, etimologicamente, controllabile.
La popolazione lo accetterà: si è visto col COVID. Gli altri Paesi, quelli che potrebbero essere renitenti (perché hanno cultura diversa, o forse perché non hanno al vertice politici venduti) verranno convinti poi, magari a suon di droni, di armi biologiche, di bombe atomiche.
Il disegno potrebbe essere questo. È un incubo, lo so. Ma bisogna pure cominciare a raccontarlo. E a fare qualcosa.
Roberto Dal Bosco
Ambiente
Il Portogallo accusa la Francia per il blackout

Il Portogallo intende chiedere alla Commissione Europea di fare pressione sulla Francia per le limitate forniture di elettricità da parte di quest’ultima. Lo ha riportato domenica il Financial Times, citando il ministro dell’Energia Maria da Graça Carvalho. La mossa segue il blackout del 28 aprile che ha lasciato milioni di persone in Spagna, Portogallo e in alcune zone della Francia meridionale senza elettricità per un massimo di dieci ore.
Il Portogallo, a quanto pare, incolpa Parigi per non aver completato e ampliato le interconnessioni elettriche critiche con la Spagna – carenze che, secondo Lisbona, hanno aggravato il blackout, limitando il supporto energetico transfrontaliero. L’interruzione di corrente è stata descritta come la più grande nella storia europea recente.
Carvalho sostiene che Bruxelles ha l’autorità di dirimere la questione in base al diritto dell’UE, sottolineando che le deboli interconnessioni tra Francia e Spagna continuano a ostacolare il mercato energetico interno dell’Unione.
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«Coinvolgeremo il presidente della Commissione Europea su questo per garantire che siamo tutti integrati», ha affermato, auspicando una risoluzione. «Questa è una questione europea, non una questione tra i tre Paesi».
Il ministro lusitano ha esortato la Commissione a intervenire qualora il mercato interno fosse compromesso, sottolineando il suo potere di esercitare pressione sulla Francia affinché acceleri i lavori sulle infrastrutture.
La penisola iberica ha uno dei livelli di connettività energetica più bassi dell’UE, ha osservato il Financial Times. I collegamenti elettrici tra Francia e Spagna sono stati automaticamente interrotti per salvaguardare la rete europea più ampia dopo che il sistema spagnolo ha iniziato misteriosamente a cedere durante il grande blackout di tre settimane fa.
All’inizio di questa settimana, il ministro spagnolo per la transizione ecologica, Sara Aagesen, ha dichiarato che un’indagine iniziale aveva rivelato che la reazione a catena delle disconnessioni della rete era stata innescata da guasti alla produzione di energia nelle province di Granada, Badajoz e Siviglia.
Una valutazione tecnica preliminare condotta da Entso-E, l’associazione europea dei gestori dei sistemi di trasmissione, ha segnalato che 2,2 gigawatt di capacità sono andati offline nel sud della Spagna meno di un minuto prima del collasso completo del sistema. Le cause profonde dei guasti alla sottostazione sono ancora in fase di indagine.
Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa era stato lanciato l’allarme per possibili blackout in Francia a seguito della serqua di problemi che, d’improvviso, si erano trovate ad affrontare le centrali atomiche francesi.
La vicenda lasciava intravedere la possibilità che la Francia possa mandare in blackout anche l’Italia. L’Italia denuclearizzata importa dalla Francia una certa quantità di energia elettrica (prodotta anche da centrali nucleari, certo), che si pensa attorno al 4-5%. Una situazione complicata dagli sconvolgimenti del settore energetico degli ultimi anni, con l’impennata dei prezzi a seguito della guerra ucraina e la conseguente nazionalizzazione da parte di Parigi della grande azienda energetica nazionale EDF.
Secondo quanto riportato da La Repubblica nel settembre 2022, l’«equilibrio è a rischio perché EDF, il colosso energetico francese che è stato appena nazionalizzato, avrebbe avvisato i gestori della rete italiana della possibilità di bloccare il dispacciamento verso questa sponda delle Alpi nel 2023 e 2024, per privilegiare le esigenze interne» scrive il quotidiano di Largo Fochetti. «La produzione elettrica transalpina dal nucleare è destinata a precipitare ai mini da trent’anni, trasformando Parigi da un esportatore netto di elettricità a un importatore. Un problema che si somma ai ben noti in arrivo in questi mesi da Mosca».
Nel frattempo, in tutto il mondo vediamo la nuova corsa alla costruzione di centrali atomiche. L’Olanda le vuole. La Corea del Sud le vuole. Il Giappone continua a riaccendere le centrali. Gran parte della Germania, pure qualche ministro, vorrebbe tenersela. La Cina va dritta nonostante misteri e disastri appena scampati (in centrali dove ha investito pure Hunter Biden).
Inutile ricordare al lettore chi domina la produzione di energia nucleare, con ampia expertise sulla tecnologia, nel mondo: bravi, la Federazione Russa.
Ricordando sempre che pure Bill Gates, novello Montgomery Burns, sta costruendo una sua centrale atomica in Wyoming. Come riportato da Renovatio 21, la multinazionale di Bill Gates sarebbe dietro l’inaspettata riapertura della centrale atomica di Three Miles Island, il luogo del peggior incidente ad un reattore nella storia degli Stati Uniti, che sembrava essere stata chiusa definitivamente nel 2019. Anche Google, per star dietro alla mostruosa richiesta di energia richiesta dall’Intelligenza Artificiale, sta correndo verso la costruzione di sette piccoli reattori nucleari per alimentare i data center IA.
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L’Italia rimane ferma al referendum di quasi 40 anni fa, quando c’erano ancora i Verdi, un partito tra i tanti (Socialisti, Democristiani, Socialdemocratici, Repubblicani, Liberali) spazzati via pochi anni dopo: il danno fatto, tuttavia, è rimasto con noi, e lo patiremo in modo assai doloroso.
Tra qualche giorno il Paese voterà un nuovo Parlamento: qualcuno ha sentito parlare di nucleare da qualche parte?
Del resto, sappiamo che l’Italia denuclearizzata è un grande affare per il cugino francese. Il quale premia solennemente con Legions d’honeur a raffica personaggi di un dato partito politico maggioritario, che ha inglobato molte delle istanze dei Verdi, e che di fatto si propone come esecutore di quell’Agenda Verde onusiana che tanto piace anche alle élite stile Davos.
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Immagine di Danieltarrino via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
Economia
Il ministro francese incontrerà le aziende di criptovalute dopo il tentativo di rapimento di un dirigente

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En plein Paris, un homme a été violenté par des individus cagoulés, habillés tout en noir. Ils tentaient de l’enlever. Un homme a surgi, extincteur à la main, pour les faire fuir. →https://t.co/P0qV6PR40v pic.twitter.com/9f4r2Gi7ho
— Le Figaro (@Le_Figaro) May 13, 2025
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Economia
Trump interrompe i colloqui sui dazi per la maggior parte dei Paesi

Washington informerà per posta 150 Paesi sui dazi doganali aggiornate con gli Stati Uniti entro le prossime settimane, ha annunciato venerdì il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Non è più possibile incontrare individualmente ogni Paese che cerca un accordo commerciale, ha spiegato.
Il 2 aprile, ribattezzato dal presidente degli Stati Uniti «Giorno della Liberazione», la Casa Bianca ha imposto un dazio base del 10% su tutti i beni importati e supplementi aggiuntivi a paesi come Cina, Messico e Canada, adducendo come causa gli squilibri commerciali.
All’epoca il presidente degli Stati Uniti aveva dichiarato che la Casa Bianca avrebbe negoziato accordi individuali con tutti i suoi partner commerciali nelle settimane successive, ma ora ha lasciato intendere che l’amministrazione stabilirà i termini unilateralmente.
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Intervenendo venerdì a una tavola rotonda economica in Arabia Saudita, Trump ha dichiarato che gli Stati Uniti imporranno nuovi dazi «nelle prossime due o tre settimane». Washington era stata contattata da numerosi governi che chiedevano accordi individuali, ma, ha sottolineato Trump, «non è possibile incontrare il numero di persone che desiderano incontrarci».
«Allo stesso tempo, abbiamo 150 paesi che vogliono raggiungere un accordo», ha affermato.
Trump ha affermato che il segretario al Tesoro Scott Bessent e il segretario al Commercio Howard Lutnick saranno incaricati di inviare lettere in cui saranno specificate le nuove aliquote dei daziche verranno applicate a ciascun Paese.
I nuovi dazi «saranno molto eque, ma diremo alla gente quanto pagherà per fare affari negli Stati Uniti».
Importanti catene di vendita al dettaglio statunitensi come Walmart e Target hanno dichiarato di voler aumentare i prezzi in risposta all’aumento dei costi delle importazioni. Trump ha respinto le preoccupazioni, sostenendo che eventuali aumenti di prezzo saranno limitati e che le aziende si adatteranno riorganizzando le proprie catene di approvvigionamento.
La Casa Bianca non ha ancora reso noto il contenuto delle lettere né i dazi esatti che verranno applicati. Non è inoltre chiaro se ai Paesi verranno fornite tempistiche o condizioni per la modifica dei dazi.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
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