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Economia

Il collasso delle banche è per portarci alla moneta digitale

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Mentre scrivo pare sia partito in Europa il domino delle banche. Che il contagio si fermi a quelle piccole, o prosegua tirando giù istituti nazionali, alla fine non cambia molto.

 

La Silicon Valley Band, come è stato notato, non è una banca qualsiasi: ha in pancia tutto il danaro che il Venture Capital – concentrato quasi tutto in uffici a Sandhill Road, la via che porta a Stanford – e quindi con la Banca vanno a morire, perché impossibilitate di ritirare il proprio danaro, centinaia, migliaia di startup tecnologiche. È il collasso dell’intero settore tecnologico californiano, quello che di fatto governa il mondo. Lo avete visto anche voi: da mesi, Google, Facebook e compagnia licenziano decine di migliaia di dipendenti.

 

I venture capitalist in questi ultimi giorni twittavano impazziti: salvataggio bancario subito! Altrimenti, i loro investimenti sarebbero andati in fumo. Detto, fatto: Biden ha proceduto con il bailout. Il presidente senile si è fatto riprendere in TV con tutta l’ufficialità della Casa Bianca: il sistema bancario è al sicuro. Eccerto, detto da lui, si fidano tutti.

 

Si tratta del secondo più grande crack bancario della storia d’America. Quello della banca Signature, che è seguito di poco, è il terzo. La situazione è senza precedenti.

 

Pare chiaro che né alla SVB né alla Signature sapevano cosa stessero facendo. Con la FED che stampa danaro, in realtà, non sapevano dove metterlo. Potevano occuparsi di altro. Nel 2020 donarono a Black Lives Matter e affini 73 milioni di dollari.

 

Poco prima del crack, la SVB sui social mostrava le foto del «ritiro» per l’uguaglianza delle donne della banca, andate a sciare in una località di prestigio. La Signature ha prodotto video woke, con balletti e video musicali dei dipendenti, che vanno ben al di là del cringe. La stessa banca pochi mesi prima faceva un evento, forse ancora visibile in rete, sui pronomi gender da utilizzare tra i colleghi e con i clienti.

 

 

Tutto facevano, meno che fare le banche. Il Daily Mail ha scritto che il board della SVB era costituito da donne che come competenza avevano l’essere tutte mega-donor (cioè grandi donatrici) dei Clinton e di Obama. In rete tutti si chiedono come sia stato possibile il crack, visto che a bordo c’erano anche persone che avevano testimoniato da vicino il collasso della Lehman Brothers nel 2008.

 

La Silicon Valley Bank, del resto, non veniva da un brutto periodo. Aveva asset per 40 miliardi di dollari nel 2019. Con la pandemia, e i super affari conseguenti della Silicon Valley che serviva l’umanità rinchiusa in internet e nei propri appartamenti in lockdown, arrivò nel 2022 alla cifra di 221 miliardi. Davvero, i soldi non sapevano dove metterli, il tracollo deve essere stato repentino, ma non troppo: il CEO ed altri hanno venduto le loro azioni, ricevendo in cambio milioni, prima del patatrac. Siamo alle solite: specie se osserviamo le scene della gente che va allo sportello e, di contro, gli impiegati chiamano la polizia.

 

Lo spezzatino immediato ha visto la HSBC – la Banca di Hong Kong e Shanghai, antica istituzione britannica coinvolta nella guerra dell’oppio un secolo e mezzo fa e nel riciclo dei miliardi dei narcos di recente – comprarsi il ramo della SVB in Albione: per una sterlina. Una storia che abbiamo già sentito… e che ricorderemo tra un attimo.

 

Ora, qualcuno in America parla di una situazione, amministrativa e mediatica, che quasi chiamava questo fallimento. Lo «specialista» TV Jim Cramer, volto del canale anti-Trump MSNBC, consigliava i titoli SVB e Signature ancora poche settimane fa. Tucker Carlson ieri sera si è lasciato scappare che sembra quasi che l’amministrazione Biden invitasse questo piccolo disastro per le banche regionali, mentre le grandi banche andrebbero benissimo. Di nostro abbiamo captato qualche segnale, non sappiamo quanto credibile, che punta il dito verso Peter Thiel e i suoi fondi di investimento, che avrebbero fatto muovere capitali nella SVB di modo da generare il caos.

 

Di fatto c’è che in borsa il giorno dopo l’annuncio della fine di SVB sono crollate tutte le banche regionali. Western Alliance,  -75%; First Republic, -65%; Zions Bancorp, -43%; PacWest, -41%; Comerica, -33%; Fifth Third, -20%. Le contrattazioni sono state quindi fermate.  Ma il destino del credito regionale USA pare segnato.

 

Scusate, ma questa situazione ci ricorda qualcosa. Le piccole banche spariscono… e vengono ingollate dai grandi istituti.

 

Dov’era successo? Ah, sì, in Italia. Ricorderete: al governo c’era Renzi, che con un decreto toglie il voto capitario alle Banche Popolari e obbliga quelle con attivi superiori a 8 miliardi a diventare società per azioni nel giro di un anno e mezzo dalle disposizioni di Bankitalia. «Abbiamo un sistema bancario molto solido, la nostra operazione sulle banche popolari lo rafforzerà ancora di più», disse il premier in un’intervista al settimanale L’Espresso, testata allora posseduta da Carlo de Benedetti. Particolare non privo di significato: Renzi fu attaccato perché, durante un colloquio con il finanziere piddino svizzero già FIAT e Rothscild, avrebbe fornito informazioni privilegiate che lo avrebbero favorito.

 

Il decreto, scrive Il Fatto, fu «un terremoto: le prime 10 [Banche popolari] si devono quotare in Borsa e trasformarsi in Spa, abbandonando il voto capitario (una testa un voto a prescindere dal numero di azioni) che le rendeva non scalabili. Un pezzo del credito italiano viene consegnato al mercato, acquisendo valore da un giorno all’altro».

 

«La settimana prima del decreto, elaborato da Bankitalia, i titoli di alcune popolari già quotate hanno strani rialzi (Etruria sale del 65%)». Già: Etruria. Ricordate?

 

Non c’è solo De Benedetti. L’11 marzo 2015 l’autorità di controllo CONSOB sente Serra, capo di un hedge fund londinese e sostenitore delle Leopolde di Renzi, «nell’ambito dell’indagine sul possibile abuso di informazioni privilegiate relative all’acquisto di quote in diversi istituti popolari».

 

La fine è nota. Dopo scandali vari (come la scoperta dei prestiti «baciati») vengono disintegrati quasi tutti i banchi popolari maggiori. UBI Banca si prende Etruria. La Banca Popolare di Bari viene salvata direttamente dallo Stato. Le due venete, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (quest’ultima, per anni, apparsa come invincibile) vengono assorbite da Intesa San Paolo. Vengono comprate per un euro – ah, ecco dove avevamo sentito quella storia.

 

Molti risparmiatori, che si erano fatti convincere ad investire nella banca invece che tenersi il conto corrente, nel processo hanno perso tutto. Tutto: un’intera vita di risparmi, senza averne una vita di riserva per rifarsi. I casi sono talvolta tremendi: non c’è solo il nonno che vuole comprare l’appartamento al nipote, c’è la madre che non ha più i soldi per curare il cancro della figlia. Storie così. Gente ingenua? No, si erano fatti persuadere perché la banca popolare, piccola ed amichevole, era una dolce certezza in un mondo sempre più instabile.

 

All’epoca avevo parlato con una persona addentro alle cose delle popolari disintegrate. Un professionista lucido e tranquillo – mille anni luce dal partigiano o dal complottista. Il suo discorso era semplice. Mi diceva che il diktat contro le popolari era nato a Francoforte, alla BCE, e da qui trasmesso a Bankitalia. C’era il fatto che alcune banche dei laender, le banche regionali tedesche, erano saltate con la catastrofe del 2008. Lo stesso anche per alcuni istituti britannici. Tutti salvati dallo Stato. Le popolari italiane, invece, avevano retto. Farle fuori faceva parte di una logica che trascendeva logiche nazionali. Si trattava, diceva, un progetto di riordino e accentramento del credito che aveva portata vastissima. Poteva anche esserci stato il caso che avessero illuso qualche pezzo grosso che la sua popolare sarebbe sopravvissuta. Invece fu il bagno di sangue generale, senza pietà alcuna.

 

Ora, rammento questa chiacchierata di un pranzo di lustri fa solo per dire che, con probabilità, stiamo assistendo allo stesso fenomeno, solo su scala americana.

 

Ho, però, un grande dubbio. In Italia, quella volta, a beneficiare della sparizione dei piccoli istituti furono le grandi banche. Mentre scrivo, in Europa le Borse sono in caduta libera.

 

Credit Suisse è collassata, mandando in fumo 355 miliardi. Commerzbank e Deutsche Bank stanno perdendo quasi l’8%. La francese Société Generale perde oltre il 10% e BNP Paribas il 9,8%. In Italia Unicredit ed Intesa Sanpaolo perdono il 7%, Unipol il 5%, Banco BPM il 5,85%.

 

È partito il contagio? Può essere. Tuttavia crediamo che, arrivati a questo punto, a beneficiarne non saranno più i pesci grossi, né in Europa, né in USA. Non vi sarà una grande banca che comprerà quella in difficoltà (come con le popolari), o anche se sarà così, si tratterà solo di un passaggio, di uno strumento temporaneo.

 

Perché appare chiaro che una nuova grande crisi finanziaria non potrà far altro che chiamare la soluzione già invocata da tutte le élite, la CBDC: Central Bank Digital Currency, la moneta elettronica emessa dalle Banche Centrali nazionali, ovvero il «Bitcoin di Stato».

 

Su Renovatio 21, ne abbiamo parlato ad nauseam, e sappiamo che, in Europa, il lancio dell’eurodigitale è definito «inevitabile» dalla stessa BCE, e correrà su piattaforme informatiche dove – sorpresa – viaggiava il green pass. Sistemi concepiti e realizzati prima della pandemia.

 

È il caso di ripetere questa enormità: le banche potrebbero essere sul punto di essere disrupted, disintermediate. Il portafoglio digitale del cittadino non avrà bisogno di istituti che gli tengano i soldi: perché quei soldi non esistono, sono puro software. Non stanno abolendo solo il contante: stanno per abolire anche le banche.

 

Ma come può il potere desiderare un mondo senza banche? Cosa ne guadagnerebbe? Qui diventa chiaro un altro tema che sfugge ai più: non lo fanno per i soldi, lo fanno per il controllo. Quello è il loro vero obbiettivo: sorvegliare e punire, sanzionare e dirigere l’intera popolazione, come si è visto benissimo durante il biennio pandemico, come e più di quello che fanno nell’incubo biototalitario digitale cinese.

 

La moneta digitale, il danaro programmabile, sarà questo: vi impedirà di comprare e di vendere, vi spegnerà con un click. Le multe saranno contestabili, forse, solo a posteriori, perché prelevate direttamente dal conto elettronico – come ovviamente le tasse. Alcuni prodotti non vi sarà possibili comprarli (la Nutella, se al database risulta che avete il diabete) altri vi saranno inibiti nello spazio e nel tempo (acquistare benzina in un periodo di fermo ecologico, in una data città).

 

La vostra vita sarà gestita da una piattaforma che realizza il potere finale del danaro: la manipolazione dell’esistenza umana. L’unico rapporto che potrete avere col sistema, a quel punto, sarà la vostra sottomissione. La vostra schiavitù.

 

Potete non credere a tutti le bandierine che Renovatio 21 ha sollevato in questi anni: l’ID digitale, propalato dalla Francia allo Sri Lanka, da Bologna all’Ucraina, stranamente sostenuto da banche come quelle del Canada, ad esempio, che citano il World Economic Forum senza bene rendersi conto di esseri tacchini entusiasti del Natale.

 

Prestate, tuttavia, un secondo di attenzione a questa notizia apparsa neanche sei giorni fa sul sito dello SWIFT, la che agisce come intermediario finanziario esecutore delle transazioni finanziarie mondiali. «Il successo dei test apre la strada all’uso transfrontaliero di CBDC» titola la pagina. «Nell’ottobre dello scorso anno, abbiamo annunciato di aver sviluppato con successo una soluzione per consentire ai CBDC di spostarsi tra i sistemi basati su DLT [cioè tecnologia Blockchain, ndr] e quelli basati su fiat [cioè il danaro comune, ndr] utilizzando l’infrastruttura finanziaria esistente».

 

La transizione, insomma, è pronta. «Ora abbiamo testato questa soluzione in un ambiente di prova con 18 banche centrali e commerciali. I partecipanti hanno espresso un forte sostegno per il continuo sviluppo della soluzione, osservando che ha consentito lo scambio continuo di CBDC, anche quelli costruiti su piattaforme diverse».

Vale la pena di ricordare cosa è successo con lo SWIFT. A inizio 2022, con l’impennata delle tensioni con la Russia per l’Ucraina, si minacciò di espellere Mosca dal circuito SWIFT. Impossibile, dissero molti – si tratta dell’equivalente di una bomba nucleare finanziaria. È solo il tintinnare delle sciabole. Non lo faranno mai, è una cosa mai vista.

 

Invece, poi, lo hanno fatto. La Russia è stata buttata fuori dallo SWIFT: prima della distruzione del Nord Stream, avevano tirato giù anche questa infrastruttura. Ora il Cremlino lavora con l’Iran e con la Cina per costruire alternative al circuito.

 

Curioso: stanno per partire con la moneta digitale, ma nel giro pare di capire che non vogliono i russi. Né, a breve, chiunque si identificherà con il blocco anti-occidentale che va creandosi nella geopolitica planetaria – quello che peraltro, diciamo en passant, è pure fuori dai confini del vaccino mRNA.

 

Qualcuno deve aver deciso che l’Occidente deve subire per primo questa trasformazione radicale, la digitalizzazione dell’economia e quindi della vita umana, divenuta un oggetto cibernetico, quindi, etimologicamente, controllabile.

 

La popolazione lo accetterà: si è visto col COVID. Gli altri Paesi, quelli che potrebbero essere renitenti (perché hanno cultura diversa, o forse perché non hanno al vertice politici venduti) verranno convinti poi, magari a suon di droni, di armi biologiche, di bombe atomiche.

 

Il disegno potrebbe essere questo. È un incubo, lo so. Ma bisogna pure cominciare a raccontarlo. E a fare qualcosa.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Economia

El Salvador abbandona l’esperimento del corso legale Bitcoin e offre il supercarcere agli USA

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Il Congresso di El Salvador ha approvato una riforma che revoca lo status di Bitcoin come moneta a corso legale, in un’inversione della storica decisione del Paese del 2021, secondo quanto riportato dai media.

 

Gli emendamenti alla sua legge Bitcoin arrivano dopo un accordo di prestito con il Fondo monetario internazionale, che richiede che l’accettazione della criptovaluta sia resa volontaria nel Paese.

 

Nel 2021, El Salvador è diventato il primo Paese ad adottare la criptovaluta come moneta legale, riconoscendo ufficialmente Bitcoin insieme al dollaro statunitense, che era stata la valuta principale della nazione per due decenni.

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Le modifiche legislative approvate il 30 gennaio hanno rimosso l’accettazione obbligatoria di Bitcoin in El Salvador, rendendone l’uso interamente volontario. La riforma è stata approvata con 55 voti a favore e 2 contrari.

 

Secondo quanto riferito, gli emendamenti arrivano dopo quasi due anni di pressioni da parte del FMI, che ha esortato il Paese ad attenuare i rischi finanziari legati a Bitcoin in cambio di un prestito di 1,4 miliardi di dollari, concordato a dicembre, per stabilizzare l’economia in difficoltà del Paese.

 

Secondo Reuters, il FMI ha espressamente spinto affinché l’accettazione di Bitcoin fosse volontaria nel settore privato.

 

La mossa segna un’importante inversione di tendenza politica per El Salvador, in quanto il presidente Nayib Bukele ha sostenuto lo status di moneta legale del Bitcoin come un modo per promuovere l’inclusione finanziaria, in particolare per la popolazione senza servizi bancari.

 

Tuttavia, recenti sondaggi mostrano che il 92% dei salvadoregni ha smesso di utilizzare Bitcoin dopo la sua adozione ufficiale, evidenziando lo scetticismo pubblico nei confronti della valuta digitale, nonostante gli sforzi del governo.

 

Sebbene il Bitcoin abbia perso il suo status di moneta legale, il governo ha recentemente dichiarato che continuerà ad acquistare la criptovaluta per incrementare le sue riserve.

 

L’anno scorso, Bukele ha criticato duramente il dollaro statunitense, sostenendo che non è sostenuto da nulla e che l’economia statunitense si basa sulla «farsa» di stampare quantità illimitate di denaro. Ha continuato a prevedere che la civiltà occidentale crollerà quando questa bolla «inevitabilmente scoppierà».

 

Negli scorsi giorni il Bukele, ha proposto che gli Stati Uniti «esternalizzino parte del loro sistema carcerario», per rinchiudere criminali pericolosi nella famigerata mega-prigione del suo paese, dietro compenso.

 

La grande struttura di massima sicurezza è stata costruita per incarcerare i sospettati detenuti durante una repressione governativa della violenza delle gang.

 

Secondo quanto riferito, Bukele ha lanciato l’idea durante un recente incontro con il Segretario di Stato americano Marco Rubio, che ha visitato la nazione centroamericana nel suo primo viaggio ufficiale all’estero martedì. Rubio ha rivelato la proposta, affermando che gli Stati Uniti erano «profondamente grati» a Bukele per l’offerta.

 

«Si è offerto di ospitare nelle sue prigioni pericolosi criminali americani in custodia nel nostro Paese, compresi quelli con cittadinanza statunitense e residenza legale», ha detto Rubio ai giornalisti, aggiungendo che «nessun Paese ha mai fatto un’offerta di amicizia come questa».

 

El Salvador ha anche accettato di sostenere lo sforzo del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per reprimere l’immigrazione illegale, accogliendo migranti deportati e «criminali di qualsiasi nazionalità, siano essi MS-13 o Tren de Aragua», ha detto Rubio, menzionando le due principali bande criminali transnazionali che operano in America Centrale e Settentrionale.

 

MS-13 (Mara Salvatrucha) è composta principalmente da salvadoregni, l’altra menzionata da Rubio è in gran parte venezuelana.

 

L’offerta è stata confermata da Bukele poco dopo, con il presidente che l’ha pubblicizzata come «un’opportunità per esternalizzare parte del suo sistema carcerario» agli Stati Uniti.

 

«Siamo disposti ad accogliere solo criminali condannati (compresi cittadini statunitensi condannati) nella nostra mega-prigione (CECOT) in cambio di una tariffa. La tariffa sarebbe relativamente bassa per gli Stati Uniti ma significativa per noi, rendendo sostenibile l’intero sistema carcerario», ha scritto il presidente su X, condividendo le foto della famigerata struttura.

 

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La mega-prigione, ufficialmente nota come Centro di confinamento del terrorismo (CECOT), è stata aperta all’inizio del 2023 nell’ambito degli sforzi di Bukele per reprimere la criminalità organizzata nel Paese, il fulcro della sua prima campagna presidenziale che lo ha portato ad essere eletto per la prima volta nel 2019.

 

La struttura di massima sicurezza, che vanta una capienza di circa 40.000 detenuti, è la prigione più grande dell’America Latina e una delle più grandi al mondo. La prigione era piena fino a circa un terzo della sua capienza a giugno dell’anno scorso, con circa 14.500 detenuti.

 

Si dice che i detenuti del CECOT siano tenuti in condizioni estremamente anguste e difficili, sottoposti a sorveglianza costante e autorizzati a uscire dalle loro celle solo per 30 minuti al giorno mentre sono ammanettati.

 

L’ approccio del «pugno di ferro» al crimine organizzato esibito da Bukele è stato ripetutamente criticato da gruppi di difesa internazionali per presunte violazioni dei diritti umani e vari abusi, tra cui la detenzione arbitraria e il maltrattamento dei detenuti.

 

Il presidente salvadoregno ha sostenuto che la sua politica ha portato a una significativa riduzione della criminalità delle gang nel Paese.

 

Come noto, il Bukele è riconosciuto per aver totalmente fermato il crimine nel suo Paese, che era statisticamente il più violente del mondo, mentre ora, con più di un anno senza omicidi, risulta essere il più sicuro dell’emisfero occidentale – più tranquillo, quindi, perfino del Canada.

 

L’operazione di pacificazione del Paese – incredibile se paragonata con altre realtà come l’Ecuador e altri Paesi che paiono sul punto di divenire dei cosiddetti Narco-Stati – è stata portata avanti da Bukele con uno scontro diretto con le gang di narcotrafficanti che infestavano il Paese, ora finite in larga parte in nuove carceri di massima sicurezza costruite dal suo governo.

 

In un’intervista dello scorso anno Bukele rivelò che le gang narcos sono sataniste e sacrificano i bambini, trattando quindi della crisi della democrazia e del ritorno di Dio in politica.

 

Il presidente salvadoregno ha rimosso l’ideologia gender dall’istruzione pubblica, stia ricevendo il crescente odio del progressismo internazionale. Bukele stesso parla dell’attività delle ONG (sempre loro…) per i «diritti umani», che prima ignoravano bellamente il diritto dei cittadini salvadoriani di camminare per strada e non essere uccisi.

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Economia

I prezzi dell’oro raggiungono il massimo storico

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Mercoledì i prezzi dell’oro hanno raggiunto un massimo storico, estendendo una impennata record, poiché gli investitori, preoccupati per una guerra commerciale globale, hanno cercato asset sicuri nel contesto delle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina.   L’oro è salito dell’1%, con l’oro spot che ha raggiunto i 2.858,12 dollari l’oncia (circa 30,1 grammi del sistema metrico decimale) prima di attestarsi a 2.855,32 dollari, segnando un aumento dello 0,5% per la giornata. Anche i future sull’oro statunitense sono saliti, chiudendo a 2.884,60 dollari, in aumento dello 0,3%.   Gli analisti hanno attribuito l’impennata alle crescenti tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Martedì, sono entrate in vigore le tariffe aggiuntive del 10% del presidente degli Stati Uniti Donald Trump su tutte le importazioni cinesi. Pechino ha risposto con restrizioni su alcune importazioni statunitensi, tra cui una tariffa del 15% sul carbone e sul gas naturale liquefatto (GNL) statunitensi e una tariffa del 10% su petrolio greggio, macchinari agricoli, auto di grossa cilindrata e pick-up, in vigore dal 10 febbraio. Ha anche segnalato potenziali sanzioni contro aziende come Google.   Trump avrebbe dichiarato di non avere fretta di avviare colloqui con il presidente cinese Xi Jinping per alleviare la situazione.   «Le potenziali conseguenze economiche di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina stanno facendo temere agli investitori una recessione globale e un aumento dell’inflazione», ha detto all’agenzia Reuters Dominik Sperzel, responsabile del trading presso Heraeus Metals Germania.

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I prezzi dell’oro sono balzati di oltre l’8% quest’anno a causa dei timori di una guerra commerciale globale, raggiungendo livelli record. A Londra, il costo dei prestiti in oro a breve termine è aumentato a causa di una carenza nei mercati commerciali della città.   Gli esperti hanno collegato la carenza a un significativo movimento di oro verso gli Stati Uniti, dove le scorte sul New York Comex, una delle principali borse merci, sono aumentate dell’88% dalle elezioni presidenziali del novembre 2024. I trader hanno aumentato le spedizioni verso gli Stati Uniti in previsione dell’impatto dei dazi di Trump.   «L’oro è ipercomprato e deve correggere», ha detto l’analista di StoneX Rhona O’Connell alla testata, aggiungendo: «c’è ancora spazio per un ulteriore rialzo, ma escludendo eventuali cigni neri ci aspettiamo comunque di vedere il prezzo raggiungere il picco quest’anno».   Mercoledì, in un rapporto, il World Gold Council ha affermato che la domanda globale di oro è aumentata dell’1%, raggiungendo il record di 4.974,5 tonnellate nel 2024, trainata dai maggiori investimenti e dall’aumento degli acquisti da parte delle banche centrali nel quarto trimestre.

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Economia

I prezzi del gas in Europa aumentano

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I prezzi del gas europeo sono saliti al livello più alto da ottobre 2023, spinti dalle interruzioni della fornitura in seguito al recente rifiuto dell’Ucraina di estendere un accordo di transito del gas con Mosca. Le previsioni meteorologiche più fredde hanno esacerbato le preoccupazioni in un mercato energetico già teso.

 

Kiev ha deciso alla fine del 2024 di rescindere il contratto quinquennale di transito del gas con il gigante energetico russo Gazprom, interrompendo le forniture di gasdotto russo a Ungheria, Romania, Polonia, Slovacchia, Austria, Italia e Moldavia. Vladimir Zelensky ha affermato che la rescissione del contratto mirava a eliminare le entrate energetiche di Mosca. Tuttavia, Slovacchia e Ungheria lo hanno accusato di aver deliberatamente innescato una crisi energetica per ottenere un guadagno politico.

 

Il contratto di riferimento del mese in corso presso l’hub del gas olandese TTF è salito di oltre il 4% venerdì, superando i 590 dollari per mille metri cubi, ovvero 53,62 euro per megawattora, prolungando il rally dei giorni precedenti.

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I dati mostrano che i livelli di stoccaggio del gas nell’UE sono scesi a circa il 55%, una percentuale notevolmente inferiore al 72% registrato nello stesso periodo dell’anno scorso e al di sotto della media quinquennale del 62%.

 

Gli analisti prevedono un ulteriore aumento della domanda di riscaldamento, in quanto si prevede che le temperature scenderanno ulteriormente nei prossimi giorni.

 

L’UE ha dovuto far fronte a una drastica riduzione delle importazioni di gas russo, che in precedenza rappresentavano il 40% dell’approvvigionamento totale dell’Unione, a causa delle sanzioni legate all’Ucraina e del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream del 2022.

 

Per compensare, il blocco ha aumentato la sua dipendenza dalle importazioni di gas naturale liquefatto (GNL) più costoso dagli Stati Uniti e dalla Norvegia, facendo aumentare i costi energetici complessivi. Le recenti interruzioni nei campi norvegesi di Gullfaks, Troll e Asgard hanno ulteriormente limitato le forniture di energia all’Europa continentale.

 

Nonostante gli sforzi in corso per ridurre la dipendenza dall’energia russa, gli stati membri dell’UE hanno importato volumi record di GNL russo. Nella prima metà del 2024, la Russia è emersa come il secondo fornitore di GNL dell’UE, dietro solo agli Stati Uniti, secondo i dati dell’Institute of Energy Economics and Financial Analysis.

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva precedentemente esortato Bruxelles ad acquistare più GNL americano, minacciando tariffe in caso di mancato rispetto.

 

L’UE è destinata a dipendere sempre di più dal GNL in un contesto di crescenti tensioni geopolitiche, poiché i livelli attuali sono «insufficienti» affinché il mercato europeo «bilanci e ricostituisca gli inventari per il prossimo inverno», hanno avvertito gli analisti di DNB Markets, secondo MarketWatch.

 

I funzionari dell’UE stanno ora discutendo la possibilità di riprendere le importazioni di gas russo come parte di un potenziale accordo per risolvere il conflitto in Ucraina, ha riportato questa settimana il Financial Times. Tuttavia, resta cauto sul fatto che una mossa del genere potrebbe minare gli sforzi in corso per diversificare le fonti energetiche e ridurre la dipendenza dalle forniture russe. Mosca ha anche espresso scetticismo riguardo alla fattibilità del piano segnalato.

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