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«Chiesa senza dottrina, senza dogma, senza fede». Intervista con il Superiore generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X

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Renovatio 21 pubblica l’intervista di FSSPX.News al Superiore generale della Fraternità San Pio X don Davide Pagliarani tenuta a Menzingen il 5 maggio 2023 nella festa di San Pio V.

 

Reverendo Padre Superiore, Papa Francesco ha recentemente celebrato i dieci del suo pontificato. Qual è, secondo lei, il punto che ha segnato particolarmente questi ultimi anni?

Don Davide Pagliarani: Dopo le ultime idee centrali ed ispiratrici che furono la misericordia, intesa come «amnistia universale», e la nuova morale di stampo ecologista fondata sul rispetto della Terra come «casa comune del genere umano», è innegabile che questi ultimi anni siano stati caratterizzati dall’idea della sinodalità. Non si tratta di un’idea totalmente nuova (1), ma Papa Francesco ne ha fatto l’asse portante del suo pontificato.

 

Si tratta di un’idea talmente onnipresente che a volte si finisce per perdere interesse verso di essa, mentre in realtà rappresenta la quintessenza di un modernismo completo e maturo. Da un punto di vista ecclesiologico, la rivoluzione sinodale dovrebbe segnare e trasformare profondamente la Chiesa nella sua struttura gerarchica, nel suo funzionamento, e soprattutto nell’insegnamento della fede.

 

Papa Francesco ha precisato gli elementi della sua concezione della sinodalità dall’inizio del suo pontificato: innanzitutto con la sua interpretazione del sensus fidei e della pietà popolare come fonte della rivelazione (cf. Evangelii gaudium, n. 119-120); poi affrontando più chiaramente la questione della sinodalità nel suo Discorso per il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi (17 ottobre 2015). Su questa base, la Commissione internazionale di teologia elaborò un testo che mise in forma tale nozione: La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa (2018), che teorizzava il processo che vediamo oggi in atto.

 

Il sinodo sulla sinodalità si manifesta così come l’applicazione pratica, sulla scala della Chiesa universale, di nozioni che, esposte ed esplorate teologicamente durante tutto questo pontificato, erano state ampiamente sperimentate a partire dal Concilio.

 

Per quali ragioni si è arrivati al disinteresse nei confronti della sinodalità?

Si è forse vista questa questione soprattutto come un problema tedesco o, fatte le debite proporzioni, come un problema belga, e se ne è persa di vista la dimensione più universale. Certo, i tedeschi giocano un ruolo particolare nel processo sinodale, ma il problema posto è un problema romano, e quindi universale. In altri termini, riguarda l’intera Chiesa.

Si preconizza una Chiesa senza dottrina, senza dogma, senza fede, nella quale non ci sarebbe più bisogno di un’autorità che insegni alcunché. Tutto è dissolto in uno spirito di amore e servizio, senza chiedersi troppo a cosa corrisponda tutto questo e dove porti.

 

Come definirebbe questo processo sinodale?

Questo processo è innanzitutto una realtà concreta, più che una dottrina predefinita. È un metodo confuso, o meglio ancora una «prassi», che è stata messa in moto senza che se ne conoscano tutti i possibili punti di arrivo. Concretamente, si tratta di una volontà determinata di far funzionare la Chiesa al contrario.

 

La Chiesa docente non si concepisce più come depositaria di una Rivelazione che proviene da Dio e di cui è custode, ma come un gruppo di vescovi associati al Papa che è all’ascolto dei fedeli, e in particolare all’ascolto di tutte le periferie, cioè con un’attenzione particolare a quanto possono suggerire le anime più lontane. Una Chiesa dove il pastore diventa pecora e la pecora diventa pastore.

 

L’idea sottointesa è che Dio non si rivela attraverso i canali tradizionali che sono la Sacra Scrittura e la Tradizione, custoditi dalla gerarchia, ma attraverso «l’esperienza del popolo di Dio». Per questo il processo sinodale è iniziato con una consultazione dei fedeli delle diocesi del mondo intero. A partire da questi dati si sono stabilite delle sintesi a livello delle conferenze episcopali, per arrivare a una prima sintesi romana pubblicata qualche mese fa.

 

Qual è la portata di questa idea per cui Dio si rivela e fa conoscere la sua volontà attraverso l’esperienza del popolo di Dio?

Questa idea è la base stessa di tutto l’edificio modernista. San Pio X costruisce tutta l’enciclica Pascendi a partire dalla denuncia di questa falsa idea di Rivelazione. Se, invece di riferirsi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione, si riduce la fede a un’esperienza – prima individuale, poi comunitaria una volta condivisa – allora si apre il contenuto della fede, e per conseguenza la costituzione della Chiesa, a ogni sorta di possibili evoluzioni. Un’esperienza è per definizione legata a un momento, a un periodo: è una realtà che si produce nel tempo e nella storia e che è dunque per essenza evolutiva. Così come la vita di ciascuno di noi contiene un movimento, ed in conseguenza evolve.

La sinodalità rappresenta la quintessenza di un modernismo completo e maturo.

 

Una simile fede-esperienza, destinata necessariamente ad evolvere secondo le sensibilità e le necessità dei diversi momenti della storia, «si arricchisce» continuamente di nuovi contenuti, e al tempo stesso mette da parte ciò che non è più attuale. Così la fede diventa una realtà piuttosto umana, legata a delle contingenze sempre nuove e mutevoli, come la storia dell’umanità. Alla lunga, non resta più granché di eterno, di trascendente, di immutabile.

 

Se si parla ancora di Dio e della Chiesa, queste due realtà finiscono per essere la proiezione di ciò che l’esperienza può sentire hic et nunc. Questi due termini, con tutti gli altri elementi dogmatici della nostra fede, sono irrimediabilmente alterati nel loro senso e nella loro autentica portata: sono a poco a poco riassorbiti nel flusso di ciò che è semplicemente terrestre e mutevole. Il loro significato evolve con l’umanità e l’esperienza che essa fa di Dio.

 

Non è un’idea nuova, ma il processo sinodale ne rappresenta un compimento nuovo per ampiezza e profondità.

 

Che cosa ci può dire di questa «sintesi romana» che ha evocato?

Si tratta di un testo pubblicato nell’ottobre 2022 e intitolato «Allarga lo spazio della tua tenda». È un documento di lavoro elaborato per la riflessione dei vescovi nella tappa continentale del cammino sinodale, cioè per i vescovi riuniti a livello dei rispettivi continenti (2). Questa sintesi è presentata come l’espressione del sensus fidei dei fedeli, ed è raccomandato ai vescovi di leggerla nella preghiera, «con gli occhi del discepolo, che [la] riconosce come la testimonianza di un percorso di conversione verso una Chiesa sinodale che impara dall’ascolto come rinnovare la propria missione evangelizzatrice (3)». Si suppone dunque che sia a partire da questa presunta espressione del senso della fede dei fedeli che i pastori tirino le conseguenze e prendano le decisioni finali.

Si preconizza esplicitamente il riconoscimento di una Chiesa che funzioni all’inverso, nella quale la Chiesa docente non abbia più niente da insegnare.

 

Ora, il contenuto di questo testo, i suggerimenti che contiene, sono un disastro dall’inizio alla fine. Non c’è praticamente nulla che possa essere considerato come espressione della fede cattolica: la maggior parte dei suggerimenti auspica piuttosto una dissoluzione della Chiesa in una realtà completamente nuova. Si può al limite capire che dei fedeli, ed anche dei preti, soprattutto oggi, possano affermare delle cose strane, ma è assolutamente inconcepibile che simili propositi siano stati conservati nella sintesi realizzata dal Segretariato generale del Sinodo in Vaticano.

 

Ci sono dei passaggi di questa sintesi che la hanno particolarmente colpita?

Ahimè, la maggior parte dei passaggi sono spaventosi, ma ce ne sono due che mi sembrano esprimere bene tutto il documento e, in particolare, la volontà di cambiare, attraverso il Sinodo, l’essenza stessa della Chiesa. Innanzitutto, riguardo l’autorità, si preconizza esplicitamente il riconoscimento di una Chiesa che funzioni all’inverso, nella quale la Chiesa docente non abbia più niente da insegnare: «È importante costruire un modello istituzionale sinodale come paradigma ecclesiale di destrutturazione del potere piramidale che privilegia le gestioni unipersonali. L’unica autorità legittima nella Chiesa deve essere quella dell’amore e del servizio, seguendo l’esempio del Signore». (4)

 

Qui, ci si chiede se ci si trova in presenza di un’eresia o, semplicemente, di un nulla che non si riesce nemmeno a qualificare. L’eretico, in effetti, «crede» ancora in qualcosa, e può avere ancora un’idea della Chiesa, benché deformata. Qui siamo in presenza di un’idea di Chiesa non solo vaga ma, per riprendere un termine alla moda, «liquida».

 

In altri termini, si preconizza una Chiesa senza dottrina, senza dogma, senza fede, nella quale non ci sarebbe più bisogno di un’autorità che insegni alcunché. Tutto è dissolto in uno spirito di amore e servizio, senza chiedersi troppo a cosa corrisponda tutto questo – ammesso che corrisponda a qualcosa – e dove porti.

 

Lei ha menzionato un secondo passaggio che la ha particolarmente colpita…

In effetti, un secondo passaggio mi sembra riassumere bene lo spirito dell’insieme del testo, e allo stesso tempo, il sentire caratteristico di questi ultimi anni di pontificato: «Il mondo ha bisogno di una “Chiesa in uscita”, che rifiuta la divisione tra credenti e non credenti, che rivolge lo sguardo all’umanità e le offre, più che una dottrina o una strategia, un’esperienza di salvezza, un “traboccamento del dono” che risponda al grido dell’umanità e della natura» (5). Sono convinto che questa breve frase racchiuda un significato e una portata molto più profondi di quanto appaia di primo acchito.

La Chiesa si trova ridotta a proporre un “vangelo” diminuito, naturalizzato, […] a un’umanità che non si vuole più convertire.

 

Il fatto di rigettare la distinzione tra credenti e non-credenti è certamente folle, ma logico nel contesto attuale: se la fede non è più una realtà autenticamente soprannaturale, la Chiesa stessa, che la dovrebbe custodire e predicare, altera la sua ragion d’essere e la sua missione presso gli uomini.

 

In effetti, se la fede è solo un’esperienza tra le altre, non si vede perché debba essere la migliore, né perché la si debba imporre universalmente.

 

In altri termini, un’esperienza-sentimento non può corrispondere a una verità assoluta: il suo valore è quello di un’opinione particolare, che non può più essere la verità nel senso tradizionale del termine. Si finisce allora logicamente nel rifiuto di distinguere tra credenti e non-credenti. Resta solo l’umanità, con le sue attese, le sue opinioni e le sue grida, che in quanto tali non postulano nulla di soprannaturale.

 

La Chiesa offre così all’umanità un insegnamento che non corrisponde più alla trasmissione di una Rivelazione trascendente. Si trova ridotta a proporre un “vangelo” diminuito, naturalizzato, semplice libro di riflessione e consolazione adattato indistintamente a tutti. In questa prospettiva, si capisce come la nuova teologia e la nuova morale ecologista proposta da Laudato si’ si offrano ad un’umanità che non si vuole più convertire, e nella quale non si fa più distinzione tra credenti e non-credenti.

 

In campo mediatico, si fa notare particolarmente l’attenzione che il Sinodo presta alle unioni tra persone dello stesso sesso. Come vede questo problema?

Non si può negare che la pressione esercitata a livello mondiale in questo campo trovi la sua eco nel processo sinodale. Si chiede alla Chiesa di essere più accogliente e attenta ai bisogni affettivi di queste persone, soprattutto dopo che le porte sono state aperte da Amoris laetitia. È uno degli argomenti sui quali c’è più forte attesa.

 

L’impressione che si ha osservando quanto avviene è che da un lato l’autorità della Chiesa ricorda il principio secondo il quale simili coppie non possono essere benedette – come è avvenuto per esempio con la risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede nel marzo 2021. Dall’altro lato, tali coppie sono state comunque benedette in alcune occasioni: alcune si sono recate in chiesa per ricevere una benedizione dopo un matrimonio civile in comune.

 

Qualche mese fa, i vescovi belgi fiamminghi hanno anche pubblicato un rituale ufficiale per benedire tali coppie, una nuova iniziativa che finora non ha visto reazioni da parte del Vaticano. Secondo il vescovo di Anversa, il Papa sarebbe anzi stato al corrente, e avrebbe deciso di lasciar fare.

 

Ugualmente, i tedeschi propongono dei passi in avanti notevoli e apertamente rivoluzionari in questo campo. Tutto questo provoca inevitabilmente delle reazioni in una parte dei vescovi e dei fedeli, mentre un buon numero di essi si limita ad osservare passivamente le cose.

I princìpi morali tradizionali sono trasformati in libere opzioni.

 

Così, si creano una confusione e una dialettica, in questo campo come in altri, che fanno sì che tutti si aspettino un pronunciamento dell’autorità… Questa ha allora piena libertà di mettere un freno a quanto appare troppo prematuro, ma al tempo stesso di spingersi avanti concedendo delle cose che, a poco a poco, entrano nei costumi e nelle abitudini. A volte, la dottrina tradizionale è ricordata e perfino definita come immutabile, così da rassicurare i conservatori. Ma poi si mettono in avanti le necessità pastorali dei casi particolari, applicando una misericordia «miracolosa» che concilia l’inconciliabile.

 

In realtà, i princìpi morali tradizionali, esattamente come la fede, sono trasformati in libere opzioni. Questo modo di procedere è proprio ad un’autorità che non è più guidata da princìpi trascendenti, ma si mostra sensibile alle aspettative del momento, ben determinata a soddisfarle, secondo un’opportunità valutata in modo puramente pragmatico.

 

Ora, si deve ben cogliere che tutto questo non si ferma ad un punto determinato. Questo modo di esercitare l’autorità subisce lo stesso meccanismo che regge le democrazie moderne: una cosa che non può essere approvata oggi lo sarà domani, quando con la stessa dialettica, con una nuova pressione, con dei nuovi precedenti, la situazione sarà abbastanza matura e gli spiriti abbastanza preparati. Ecco descritto in poche parole il meccanismo innescato dalla sinodalità, ed ecco perché ci troviamo davanti alla forma più matura del modernismo.

 

Recentemente, un rescritto di Papa Francesco ha ricordato che ogni nuovo sacerdote che volesse celebrare la Messa tridentina deve ottenere il permesso esplicito della Santa Sede. In più, se una Messa tridentina è autorizzata in una chiesa parrocchiale, ci vuole pure il permesso della Santa Sede. Come valuta queste misure?

Penso che non sia necessario essere un esperto molto accorto per capire la volontà manifesta di metter fine alla celebrazione della Messa tridentina. Questo rescritto del febbraio 2023, come la lettera apostolica Desiderio desideravi del giugno 2022, hanno la duplice finalità di restringere al massimo l’uso del messale tradizionale, ed anche di spaventare chiunque volesse utilizzarlo.

 

In tali condizioni, immagino con difficoltà un giovane sacerdote avere il coraggio di rivolgersi alla Santa Sede per chiedere il permesso di celebrare la Messa tridentina. Che lo si voglia o no, a partire dal motu proprio Traditionis custodes, questa Messa è praticamente proibita nella Chiesa; come è stato recentemente ricordato dal Cardinal Roche, con il Concilio «la teologia della Chiesa è cambiata» (6), ed in conseguenza la liturgia, che ne è l’espressione.

 

In questo clima, i membri degli Istituti detti Ecclesia Dei vivono un momento di attesa e di apprensione. Si sente parlare di un ulteriore documento pontifico che li riguarderebbe e che potrebbe essere pubblicato prossimamente. Che cosa ci può dire a questo proposito?

Non so assolutamente nulla di un tale documento, ma penso che un prete non possa vivere serenamente il proprio sacerdozio se accetta di avere costantemente una spada di Damocle sospesa sulla testa; allo stesso tempo, non può vivere serenamente se è continuamente messo in allarme dai minimi rumori.

 

Un sacerdote dovrebbe poter vivere la propria Messa senza chiedersi se domani sarà ancora autorizzato dai suoi superiori a celebrarla. Deve avere la preoccupazione di far partecipare le anime ai tesori che dispensa, senza vivere con la costante paura di esserne privato lui stesso, o in attesa di un miracolo che gli permetta di sfuggire alla situazione precaria nella quale si trova. Non penso che la Provvidenza voglia questo.

 

In più, purtroppo, i membri di questi Istituti, come molti sacerdoti desiderosi di celebrare il rito tridentino, vivono in un tale timore che condannano se stessi al silenzio di fronte all’attualità della vita della Chiesa: infatti sanno bene che, il giorno in cui volessero esprimere qualche riserva di fronte a ciò che succede oggi, la spada di Damocle potrebbe cadere su di loro.

 

Il Cardinal Roche è pronto a ricordarlo loro in ogni momento. Lo dico in piena carità: questa situazione provoca una dicotomia permanente tra la sfera liturgica e la sfera dottrinale, che rischia di far vivere questi sacerdoti nella delusione, e di paralizzarli irrimediabilmente nella necessaria professione pubblica della loro fede.

 

Ecco perché oggi, soprattutto in alcuni paesi, la reazione contro le follie del movimento sinodale, paradossalmente, proviene piuttosto da ambienti che non sono legati all’uso del messale tradizionale.

 

Come vede l’avvenire della Fraternità San Pio X?

Lo vedo in perfetta continuità con ciò che la Fraternità ha rappresentato finora. La Fraternità deve essere preoccupata dell’attualità della Chiesa, ma senza interessarsi ai rumori, a ciò che tal Cardinale avrebbe detto in gran segreto a tal seminarista, a ciò che potrebbe prodursi, a ciò che potrebbe succederci… Dobbiamo vivere al di sopra di tutto questo.

Dobbiamo essere coscienti che al culto tradizionale della Chiesa corrisponde anche una vita morale che non abbiamo il diritto di alterare nei suoi princìpi.

 

Per il bene della Chiesa, la Fraternità deve custodire e garantire, ai suoi sacerdoti e ai suoi fedeli, la piena libertà della celebrazione della liturgia tradizionale. Allo stesso tempo, la Fraternità deve continuare a garantire la conservazione della teologia tradizionale che accompagna e sostiene questa stessa liturgia.

 

Un cattolico ancora lucido non potrebbe rinunciare a tale dottrina: il cambiamento di questa durante il Concilio è proprio l’elemento che – per parafrasare il Cardinal Roche – ha ispirato la nuova messa. Dobbiamo mantenere l’una e l’altra, con la piena libertà di opporci agli errori e ai loro fautori. In effetti, se la liturgia è per definizione pubblica, lo è anche la professione della fede che le è associata.

 

Allo stesso tempo, oggi più che mai, dobbiamo essere coscienti che al culto tradizionale della Chiesa corrisponde anche una vita morale che non abbiamo il diritto di alterare nei suoi princìpi. Al centro della nostra religione, Dio ha piantato la Croce ed il Sacrificio. Nessuno si può salvare senza la Croce o senza il Sacrificio, accettando – in nome di un falso amore e di una falsa misericordia – ogni sorta di abominazione.

 

C’è un solo amore che salva, perché c’è un solo vero amore che purifica: quello della Croce, quello della Redenzione; quello che Nostro Signore ci ha mostrato, che ci comunica, e che ha voluto chiamare «carità».

 

Questo amore però non può esistere senza la fede e senza chi la insegna.

 

 

NOTE

1) Il movimento sinodale è cominciato immediatamente dopo il Concilio, dopo il quale si sono tenuti più di mille sinodi diocesani: la maggior novità di questi è stata la frequente presenza di laici.

2) Si tratta più precisamente di sette continenti, perché l’America del Nord e del Sud rappresentano due entità diverse; ugualmente, il Vicino Oriente e il resto dell’Asia formano due regioni distinte.

3) Allarga lo spazio della tua tenda, n. 13.

4) Ibidem, n. 57

5) Ibidem, n. 42.

6) «La teologia della Chiesa è cambiata», ha osservato il Cardinal Roche. «In precedenza, il sacerdote rappresentava, a distanza, tutto il popolo: esso era canalizzato da questa persona che, sola, celebrava la Messa. [Oggi, invece], non è solo il prete che celebra la liturgia, ma anche quelli che sono battezzati con lui, ed è un’affermazione enorme». (Emissione a BBC Radio 4, trasmessa il 19 marzo 2023)

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

 

 

Immagine da FSSPX.news

 

 

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Gender

Papa Bergoglio contro la «frociaggine». Ci crediamo subito

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Lo scoop lo aveva fatto Dagospia. Oggi lo ha rivendicato diverse volte, e fa pure bene.

 

«Parecchi vescovi italiani riferiscono, basiti, che questa settimana, intervenendo all’assemblea generale della CEI, Papa Francesco ha ribadito pubblicamente, ma a porte chiuse, la sua nota contrarietà ad ammettere al sacerdozio candidati con tendenze omosessuali» scriveva domenica il sito di Roberto D’Agostino.

 

«Sua Santità ha detto, papale papale, che “nella Chiesa c’è troppa aria di frociaggine” e quindi i vescovi devono sempre letteralmente, “mettere fuori dai seminari tutte le checche, anche quelle solo semi orientate”. Testuale».

 

Ora, tutti i giornali nazionali (con un caso, denunziato bonariamente da Dago, di copia-incolla conclamato) e internazionali riportano la notizia bomba.

 

Ma come? Scusate, non è il papa del magistero aereo del «chi sono io per giudicare?»

 

Non era quello che era finito nel 2013 sulla copertina della rivista gay The Advocate come eterosessuale dell’anno?

 

Non è il papa che apre in continuazione ai trans, invitandone una camionata (letteralmente) a pranzo con lui?

 

Chiaro, è una notizia. Il papa si sposta a destra. Il papa torna a fare il papa. Francesco contro l’Opus Gay. Come no.

 

Una notizia incredibile, per tutti. Anche per noi. Ma proprio nel senso etimologico del termine, cioè non credibile.

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Sarebbe bello, innanzitutto, capire come le auguste labbra del pontefice abbiano pronunziato questa parola vagamente desueta: «frociaggine». Un lemma che viene da regioni della lingua italiana che non immaginiamo subito accessibili a Bergoglio (mentre ricordiamo le capacità glottologiche del polacco che attingeva dal vernacolo capitolino «aoh, semo romani»). Il termine, con le c e le g dolci, non è adattissimo agli ispanofoni, specie se di mezzo ci sta pure una doppia e pure una consonante per loro aspirata: che abbia detto «froziahine», o «frochagine», o «frochajine»…?

 

Non è nemmeno irrilevante saperlo. Perché ci siamo fatti una qualche idea di cosa stia accadendo.

 

Dagospia è un sito unico nel suo genere. Il suo fondatore Roberto D’Agostino racconta che agli inizi degli anni Duemila, alle varie feste romane, sentiva venir rivelate con naturalezza dai convitati storie pazzesche – scoop assoluti, buttati lì in tranquillità. Dice che si guardava intorno e non capiva perché i giornalisti presenti, che avevano sentito la notizia con lui, non corressero in rapidità in redazione per battere l’articolo.

 

Così, prese a farlo lui: e così, quello che non si può dire nelle agenzie stampa o sulle testate giornalistiche, cominciò a comparire, senza citare con chiarezza la fonte, su questo sito, sempre dietro una vaga ma invincibile maschera di gossip.

 

Facile capire cosa poi sarebbe successo: i giornalisti stessi, se hanno una notizia da dare ma per qualche ragione non si sentivano di farlo, possono trasmetterla a Dagospia, che, una volta pubblicata, la rende riferibile. Il giornalista può usare come fonte Dagospia, di cui egli stesso è, in realtà la fonte, a copertura, magari, delle fonti veri.

 

È una filiera geniale, infallibile. È anche un modo con cui si possono lanciare operazioni di spin. Ovvero, se volessi fare opera di riposizionamento di un personaggio o di un’istituzione, inizierei facendo filtrare così alcune «rivelazioni».

 

Abbiamo visto che, dopo la Fiducia Supplicans – il documento che apre le porte delle chiese all’omotransessualismo – la chiesa ha incontrato qualche problema (compreso un fulmine), e perfino dei veri e propri «pronunciamenti» da parte di tanto clero, in ispecie in Africa, il continente periferico che tanto dovrebbe stare a cuore al papa dei poveri, ma talmente dei poveri da aver preso l’anello piscatorio con l’inedito nome del Santo poverello di Assisi.

 

Ora, il cardinale Fernandez – anche lui uso alle malaparole, di recente – sta mandando avanti, come annunciato, tutta una serie di iniziative che avrebbero come obiettivo la critica alla teoria del gender.

 

Non solo: nell’intervista a 60 minutes Bergoglio, data ad aprile, Bergoglio ha ribadito il suo no alle donne-sacerdote e alle diaconesse, deludendo il pubblico delle TV dirette dall’establishment americano. (Certo, dopo aver detto che i vescovi conservatori sono «suicidi»)

 

Insomma, Bergoglio si sta riposizionando? Si sta «rifacendo una verginità» sulla questione LGBT?

 

Può essere, tuttavia la manovra, davvero, non è credibile. Perché sappiamo che la questione della «frociaggine» non è superficiale, nel papato del Bergoglio – e forse nemmeno nel suo conclave. La questione è, di fatto, strutturale al papato neocattolico e ai personaggi di cui Bergoglio si è servito.

 

Al contempo, mai sarà credibile qualcuno che oggi lamenta la quantità di omosessuali nei seminari: perché sappiamo che, anche qui, la faccenda è strutturale, con persone che dicono che vari seminari ammettono solo le persone con l’orientamento, e che ovunque, dopo il Concilio, se cominciassero a respingere i gay i seminari dovrebbero chiudere e basta.

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Andiamo con ordine.

 

Non possiamo credere a Bergoglio se ci rammentiamo che la frase «chi sono io per giudicare un gay» non riguardava gli omosessuali in generali, ma uno in particolare, di cui gli aveva chiesto conto, tornando a Roma in aereo dal Brasile, la giornalista Ilze Scamparini.

 

Torniamo con la mente a quel fatale 2013: il papato dell’argentino si aprì proprio con uno scandalo a carattere omosessuale. L’ineffabile vaticanista Sandro Magister scrisse un articolo di inchiesta che finì per dare il titolo alla copertina de L’Espresso: «Il prelato della Lobby gay». Svolgimento: storie degli scandali di un monsignore vicino a Bergoglio durante la sua carriera diplomatica, ad esempio quando era alla nunziatura apostolica in Uruguay.

 

Si trattava di monsignor Battista Ricca, che, scandalo a parte, aveva una funzione che non poteva essere molto distante dal pontefice: era direttore della Domus Sanctae Marthae, cioè Santa Marta, il luogo eletto come dimora del papa al posto degli appartamenti papali.

 

Non solo: nonostante le accuse, e l’attenzione portata sul caso dall’eco immane che ebbe quel «chi sono io per giudicare» (finito perfino nei film di supereroi della Marvel), monsignor Ricca poco dopo fu nominato nuovo prelato dello IOR, la mitica banca vaticana al centro di trame oscure come delle fantasie di certi giornalisti che, un tempo, potevano credere ai complotti e pure cercare di spiegarli.

 

Tuttavia il Ricca non è il caso più significativo. Molto più indicativo, a nostro pare, è il caso del cardinale Teodoro McCarrick. Di fatto plenipotenziario della chiesa in USA, le attività del porporato – che secondo i resoconti dei giornali comportavano peccati al di là dell’omosessualità – sono venute alla luce solo dopo inchieste finite su grandi quotidiani come il New York Times, che hanno dato voce alle vittime.

 

Sulla vicenda McCarrick ovviamente la voce da sentire è quella di monsignor Viganò, che, da nunzio apostolico a Washington aveva potuto comprendere la gravità della questione, di cui riferì al papa.

 

Riportiamo le parole dell’articolo che nel 2018 scrisse il vaticanista Aldo Maria Valli.

 

«L’anno è il 2013, il mese giugno. A Roma c’è una riunione dei nunzi di tutto il mondo e anche Viganò è presente. Emozionato per la prospettiva del primo incontro con il nuovo pontefice, l’arcivescovo si reca a Casa Santa Marta, la residenza scelta da Bergoglio al posto del palazzo apostolico, e chi trova lì? Un cardinale McCarrick sorridente e sereno, che indossa la veste filettata e saluta Viganò facendogli sapere in tono baldanzoso: “Il Papa mi ha ricevuto ieri, domani vado in Cina!”».

 

Tenete a mente la Cina, perché sotto tornerà almeno un paio di volte.

 

Valli riporta la testimonianza di mons. Viganò: «Allora nulla sapevo della sua lunga amicizia con il Card. Bergoglio e della parte di rilievo che aveva giocato per la sua recente elezione, come lo stesso McCarrick avrebbe successivamente rivelato in una conferenza alla Villanova University ed in un’intervista al Catholic National Reporter, né avevo mai pensato al fatto che aveva partecipato agli incontri preliminari del recente conclave, e al ruolo che aveva potuto avere come elettore in quello del 2005. Non colsi perciò immediatamente il significato del messaggio criptato che McCarrick mi aveva comunicato, ma che mi sarebbe diventato evidente nei giorni immediatamente successivi».

 

La storia prosegue con un secondo incontro, ancora più inquietante del primo.

 

«È il 23 giugno 2013, domenica. Il papa riceve Viganò prima dell’Angelus. Fa alcune affermazioni che all’arcivescovo suonano quanto meno sibilline, poi, di punto in bianco, gli chiede: “Il card. McCarrick com’è?”. Al che il nunzio risponde: “Santo Padre, non so se lei conosce il card. McCarrick, ma se chiede alla Congregazione per i Vescovi c’è un dossier grande così su di lui. Ha corrotto generazioni di seminaristi e di sacerdoti e papa Benedetto gli ha imposto di ritirarsi ad una vita di preghiera e di penitenza”».

 

«Reazione del papa? Nessuna. Anzi, Bergoglio cambia subito argomento. Ma allora, si chiede uno sconcertato Viganò, perché mi ha fatto la domanda?
Il nunzio lo capisce una volta tornato a Washington. Lì apprende che tra il papa e McCarrick c’è uno stretto legame. La domanda posta da Bergoglio al nunzio era dunque una trappola. Sta di fatto che, secondo il racconto di monsignor Viganò, almeno dal 23 giugno 2013 papa Francesco è a conoscenza del caso McCarrick».

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McCarrick, che dalla capitale americana tesseva ogni connessione possibile con la politica, con il potere e perfino con lo sport, fu, ricordiamolo, sberrettato: e che un cardinale perdesse il titolo non capitava da un secolo. Era successo a mons. Louis Billot, unico del XX secolo a rinunciare alla dignità cardinalizia su forte pressione di Pio XI, che non amava la sua contiguità con l’Action Française, il movimento tradizionalista di Charles Maurras condannato dalla Santa Sede nel 1926. Qui siamo davvero da tutt’altra parte.

 

Un’investigazione di un sacerdote riportata dal giornale americano National Catholic Register parla della creazione da parte di McCarrick di una «”pipeline” omosessuale che incanalava i candidati latinoamericani vulnerabili in alcuni seminari statunitensi dove venivano sfruttati sessualmente, e successivamente ordinati come preti attivamente omosessuali in alcune diocesi americane». In pratica, da Paesi come Messico, Porto Rico, Costa Rica, Colombia, il sistema istituito dal cardinale avrebbe preso i candidati scartati per la loro omosessualità per inserirli nei seminari americani.

 

Altro che «troppa frociaggine». Lo vedete da voi: si parla di pipeline, di «tubatura». La questione omosessuale è per la chiesa strutturale, anzi, infrastrutturale. Ed è guidata da uomini vicinissimi al papa.

 

Poco sorprendentemente, la scorsa estate è stato giudicato «inadatto» ad affrontare un processo nei tribunali americani per gli abusi di cui è accusato.

 

Nel frattempo, tuttavia, vale la pena di ricordare quella che potrebbe essere una delle ramificazione più massive della questione McCarrick: il cardinale, che si beava davanti a Viganò della missione cinese impartitagli dal papa gesuita, ha agito come vero e proprio messo papale per l’attivazione delle relazioni con Pechino, processo che avrebbe portato al disastro dell’accordo sino-vaticano, un disastro che gronda ogni giorno delle lacrime e del sangue dei martiri della chiesa sotterranea, con desaparecidos e chiese distrutte – cioè la vera chiesa – cattolica.

 

Non è secondaria, a questo punto, la voce secondo cui monsignor McCarrick, quando era in Cina, dormisse in un seminario della chiesa patriottica cinese, cioè la copia di cartone del cattolicesimo imbastita dal governo del Dragone… i risultati abbiamo visto quali sono stati. Bergoglio si bea dei rapporti «molto rispettosi» col governo ultratotalitario (che ha ucciso, con gli aborti forzati, forse centinaia di milioni di bambini) e il portale mediatico della Santa Sede, in un comunicato in inglese dell’anno passato, si lascia scappare che le persecuzioni dei cristiani in Cina sarebbero «presunte». E ancora: vogliamo credere al controverso miliardario cinese Guo Wengui, ora rifugiato negli USA, che sostiene che il Vaticano sarebbe corrotto con «1,6 miliardi di dollari l’anno per fermare le critiche alla politica religiosa di Pechino»?

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Un altro personaggio interessante attorno a Bergoglio: lo conoscete padre James Martin? Ne abbiamo parlato: è gesuita, e si può ritenere il prete cattolico più filo-LGBT d’America (quindi, del mondo) quello promosso un’immagine tratta da una serie di opere blasfeme e omoerotiche che mostrano Gesù Cristo come omosessuale, esaltato le unioni civili tra persone dello stesso sesso e descritto vedere Dio come maschio come «dannoso». Tutto ciò, invece che cagionargli una sanzione da parte della gerarchia, lo ha fatto promuovere: è Bergoglio stesso che lo porta in palmo di mano, spendendosi in pubblici elogi per il più noto sacerdote filo-LGBT del mondo.

 

Lo scorso novembre Bergoglio aveva dapprima concesso un’udienza privata al Martin, per poi elogiarlo pubblicamente durante l’assemblea plenaria del Dicastero per le comunicazioni vaticane. Il gesuita filo-omofilo era stato quindi alle masse di ragazzi, tra musica techno sparata da sacerdoti DJ e pissidi Ikeadurante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona.

 

Con la pubblicazione della Fiducia Supplicans, padre Martin non ha perso tempo: pochi giorni dopo aveva già impartito la sua prima «benedizione» di una coppia omosessuale a Nuova York dopo la pubblicazione del nuovo documento vaticano.

 

Nel 2022, il Martin aveva dichiarato in pratica che la dottrina del catechismo sull’omosessualità uccide, in quanto porterebbe taluni alla morte per suicidio. Il papa in risposta gli scrisse una lettera: «vi incoraggio a continuare a lavorare sulla cultura dell’incontro, che accorcia le distanze e ci arricchisce delle nostre differenze, come ha fatto Gesù, che si è fatto vicino a tutti».

 

Non che si tratti solo di personaggi che paiono essere dirette emanazioni del potere papale. Prendete la storia del mese scorso di suor Jeannune Gramick, una religiosa pro-LGBT: Bergoglio le ha detto che i transessuali «devono essere integrati nella società». L’ambasciata americana presso la Santa Sede deve aver capito l’antifona: ecco che ogni anno, nel mese di giugno – cioè i 30 e passa giorni di celebrazione dell’orgoglio gaio – viene issata fuori dalle finestre diplomatiche la bandiera arcobalenata, l’anno scorso pure in versione trans (sapete, con il trangolino rosa, blu, bianco, etc…)

 

Nel mucchio arcobaleno, mettiamoci pure i danari vaticani elargiti al film biografico su Elton John. E, soprattutto, non lasciamoci fuori Grindr.

 

Da Grindr, ripete da tempo Renovatio 21, potrebbe dipendere la strana mansuetudine con cui Roma tratta Pechino, in ispecie quando quest’ultima vìola spaventosamente gli accordi sino-vaticani, con il Partito Comunista Cinese che nomina i vescovi che vuole e li insedia dove meglio ritiene.

 

Grindr è la app di incontri – da cui discende Tinder e ogni altro epigono – dedicata ai soli gay. Si dice siano presenti vari consacrati (notoriamente, la quantità di omosessuali in Curia è secondo alcune analisi piuttosto alta), per un periodo finì nelle mani dei cinesi, che acquistarono la società.

 

Della pericolosità della situazione si rese subito conto l’amministrazione Trump, la quale chiese alla Cina di farla tornare in mano americana, perché i servizi USA paventavano che le informazioni contenute in quella app (tra cui alcune davvero delicate, ) mettessero a rischio la sicurezza nazionale: quante persone, nell’esercito e nella pubblica amministrazione, nel governo e nelle grandi aziende, potevano essere ricattate?

 

Cosa piuttosto incredibile, la Cina acconsentì, e l’applicazione dei festini omosessuali tornò di proprietà americana. È lecito pensare che qualche copia dei file i cinesi li abbiano tenuti. E quindi, che ci sia verso pezzi grossi della Curia da parte del Partito Comunista Cinese anche un possibile ricatto basato sui dati dell’app di Sodoma?

 

Questa storia della critica alla «frociaggine», capite, per noi è sempre più difficile da credere al di fuori della disperata, goffa trovata pubblicitaria.

 

Perché viviamo in un’epoca dove – è capitato in Emilia un paio di anni fa – un prete che annuncia di voler lasciare la tonaca deve specificare di essere eterosessuale. Proprio così: evidentemente bisogna pensare che la norma, nella chiesa attuale, sia l’omosessualità.

 

E quindi, i discorsi sui seminari pieni di «checche»… quanto sono credibili in una chiesa dove l’omosessualità è dilagata perfino – come dimostrano tutti questi casi – a livello della struttura, dell’infrastruttura stessa dell’istituzione?

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Credere ora al papa argentino e alla sua avversione per i preti omosessuali significa, per tutti coloro che hanno un po’ seguito la materia, cancellare dalla mente tutte quelle voci, che abbiamo visto godere pure di qualche testimonianza in alto nella gerarchia, su un ruolo della famosa «lobby gay» in Vaticano per l’elezione al Soglio di Bergoglio.

 

Ci rendiamo conto che è quello che, orwellianamente, si aspettano: con la mente satura e spaventata, intossicata dalle spike riformattabile a piacere, dobbiamo ora metterci in testa la storia del Bergoglio contrario ai gay e alla loro presenza nella neochiesa cattolica.

 

Purtroppo per lui, dobbiamo dire che non ci rammentiamo solo di McCarrick, ma anche di del presbitero cileno Karadima, del prete ciellino don Inzoli, della Casita de Dios. Di più: ci torna alla mente, di colpo, la celebrazione che papa Francesco fece di Don Milani, proprio nel momento in cui la sua figura era improvvisamente tacciata, sui giornali nazionali, di qualcosa di tremendo.

 

Qui però si va da altre parti. E per quelle cose non c’è nemmeno una parola bonaria e vagamente vezzeggiativa come «frociaggine». Da quelle parti c’è altro: c’è l’indicibile.

 

E l’indicibile, accusano in tanti, nella chiesa infiltrata da Satana e sempre di casa.

 

Roberto Dal Bosco

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Cina

Meteo favorevole tra il Vaticano e Pechino

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La notizia è stata pubblicata con discrezione nel Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede il 14 maggio 2024, annunciando un convegno sulla storia dei rapporti tra il Vaticano e Pechino previsto per il successivo 21 maggio.   La conferenza arrivò con un pretesto già pronto, poiché doveva celebrare il centenario del primo sinodo della Chiesa cattolica in Cina, tenutosi a Shanghai il 15 maggio 1924. Era la prima in un mondo instabile che aveva appena proclamato la caduta dell’ultimo imperatore della dinastia Qing.   Diversi vescovi, vicari generali e religiosi, la maggior parte nati in Paesi lontani e arrivati ​​in terra cinese come missionari, si sono incontrati sotto la presidenza di Celso Costantini, delegato apostolico in Cina, con il mandato di rilanciare la missione della Chiesa in terra cinese.   In questa Lettera apostolica del 1919, Benedetto XV riaffermava che la fede in Cristo «(non era) estranea a nessun Paese» e che, in qualunque parte del mondo, farsi cristiano non significava «mettersi sotto la protezione e il potere di di un altro Paese e sfuggire alla legge del proprio Paese». Un secolo dopo, la conferenza romana è un modo per assicurare alle autorità cinesi che lo Stato comunista non ha nulla da temere dalla Chiesa, mentre la Santa Sede vuole allacciare legami più stretti con Pechino.   Tra i relatori c’erano il vescovo di Shanghai, Joseph Shen Bin, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e il cardinale Luis Antonio Tagle, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione. Ma sono intervenuti anche accademici e ricercatori della Repubblica popolare cinese, come i professori Zheng Xiaojun e Liu Guopeng dell’Accademia cinese delle scienze sociali.

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Questi viaggi non potevano essere effettuati senza l’approvazione dell’esecutivo cinese. Per la cronaca, mons. Shen Bin era stato oggetto di particolari tensioni tra Vaticano e Cina, da quando le autorità cinesi avevano deciso unilateralmente, nell’aprile 2023, la sua nomina. In segno di buona volontà, la Roma aveva ceduto.   Da notare che mons. Shen Bin è vicepresidente dell’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi, dipendente dal Partito comunista cinese (PCC). Negli ultimi mesi il prelato ha più volte menzionato l’adesione richiesta ai cattolici cinesi ai principi della Cina, sostenendo il programma di sinicizzazione del governo.   La signora Zheng Xiaojun è vicedirettrice dell’Istituto delle religioni mondiali dell’Accademia cinese delle scienze sociali e dell’Associazione cinese per gli studi religiosi, due organizzazioni che svolgono un ruolo importante nella politica religiosa della sinicizzazione. delle religioni deciso dal presidente Xi Jinping, e una delle cui ambizioni è promuovere le «prospettive religiose del marxismo». Un ossimoro di altissimo livello.   «La partecipazione a Roma di una personalità cinese di questo livello a un evento pubblico organizzato dal Vaticano non ha precedenti e non è un dettaglio», afferma il quotidiano La Croix, specialista dei rapporti tra Pechino e Vaticano.   Secondo l’articolo, il cardinale Parolin, a margine del congresso, ha spiegato quanto segue: «speriamo di poter avere una presenza stabile in Cina. Anche se questa inizialmente non avrà la forma di una nunziatura apostolica». Si tratterebbe della prima volta da quando i comunisti sono saliti al potere nel 1949.   Xi Jinping dal canto suo ha tutto l’interesse ad intensificare i rapporti con il Vaticano nell’ambito di una politica internazionale che tenta di creare alleati in Europa, con l’obiettivo di minare l’egemonia americana.   I rapporti tra Vaticano e Pechino sono comunque molto asimmetrici, poiché le concessioni del PCC ai cattolici cinesi sembrano pari a zero o quasi.

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Arte

Il mistero delle 23 chiese nere in Norvegia, durate nei secoli e bruciate dai metallari esoterici

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Le stavkirker sono meraviglie che puntellano la terra di Norvegia sin dal Medio Evo. Si tratta di edifici medievali sacri di colore scuro, costituite interamente da parti di legno. Risalgono al periodo in cui la Cristianità era ancora unita, su tutto il continente europeo ed oltre.

 

La parola deriva dal fatto di essere costruite utilizzando assi portanti (stafr, in lingua norrena) per erigere pareti, navate e tetti tra il XII e il XIV secolo. In italiano sono chiamate chiese a doghe o a pali portanti.

 

Stavkirke di Borgund Laerdal; immagine di Janusz Drap via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Norway

 

Stavkirke di Urnes; immagine di Bjørn Erik Pedersen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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Le stavkirker, dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, sono considerate tra i più importanti esempi di architettura medievale in legno. Il legno di pino era il materiale da costruzione più comune per queste chiese nel Paese Scandinavo. Chiese di questo genere, tuttavia, sarebbero state costruite in Paesi limitrofi (a Hedarded in Svezia e nelle montagne di Karkonosze in Polonia) e perfino nella regione inglese del Sussex, come la chiesa di Saint Andrews a Greensted, che ha pareti di quercia. Gli studiosi notano le somiglianze tra il modello della stavkirke e le Chiese lignee del Maramureș in Transilvania.

 

Si calcola che inizialmente fossero qualcosa come 1.300, ora ne rimangono solo 28, quasi tutte in Norvegia.

 

Stavkirke di Lom; immagine copyright di Micha L. Rieser via Wikimedia

 

Stakirke di Kaupanger; immagine di Bjørn Erik Pedersen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

Come spiega un recente articolo di Architectural Digest, l’apparizione delle stavkirker va fatta risalire a quando i sovrani norvegesi iniziarono la cristianizzazione dei loro popoli, allora seguaci del paganesimo politeista nordico. Dopo l’assassino di re Olaf (1030), cominciarono a verificarsi miracoli e le genti di Norvegia cominciarono quindi a riconoscere la santità dei cristiani e del cristianesimo, facendo divenire la religione di Cristo la fede prevalente.

 

Nelle città vennero quindi costruite chiese in pietra, mentre nei centri rurali – dove abbondano i boschi e l’esperienza nell’uso di materiali vegetali – si erigevano edifici sacri in legno.

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L’architettura delle stavkirker fonde antiche influenze nordiche con altre tradizioni europee – britanniche, normanne – e bizantine.

 

Stavkirke Gol a Oslo; immagine di H.-N. Meiforth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported

 

«L’arte vichinga, in particolare, si fonde con la fase iniziale dello stile romanico» scrive AD. «Le ricche decorazioni derivano sia dall’arte pagana (creature fantastiche, divinità, storie mitologiche) sia dal cristianesimo che stava emergendo nel Paese (archi, croci, volte). Ogni chiesa ha elementi protettivi sul tetto: un drago in cima, croci per allontanare demoni, spiriti maligni e disastri naturali. Le teste di drago sono ispirate ai codici delle navi vichinghe e hanno la stessa funzione dei gargoyle sulle chiese in pietra: la protezione dai nemici. In seguito, la stavkirke sarebbe stata decorata con dipinti raffiguranti la vita di Cristo. All’interno, i fedeli fanno la comunione in piedi, con le donne a sinistra».

 

Stavekirke di Heimaey; immagine di Sakaris Ingolfsson via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

La sparizione delle stavkirker è cominciata nel XVIII secolo, quando sono state sostituite da edifizi più moderne. Due delle 28 rimaste sono state trasferite nella capitale Oslo e a Bergen per essere trasformate in centri turistici.

 

Stavkirker di Heddal; immagine di Christian Barth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 no

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La stavkirke più nota è quella di Borgund, che si è conservata molto bene e dispone di decorazioni di bellezza impressionante, che si dicano abbiano ispirato il castello nel film Disney Frozen. A Urnes vi è invece la stavkirke più antica, che risale al 1140.

 

Stavkirke di Borgund; immagine di Tulipasylvestris via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

 

Una stavkirker fu oggetto anche di episodi di quello che è stato definito «esoterrorismo», ossia «terrorismo esoterico».

 

Tra il 1992 e il 1996, ci sono stati almeno 50 attacchi contro chiese cristiane in Norvegia, alcune delle quali erano chiese a doghe. Si ritiene che i membri della scena black metal norvegese siano in gran parte responsabili; in ogni caso di incendio doloso risolto, i responsabili erano fan di questa sottocultura musicale.

 

La prima chiesa bruciata è stata la stavkierke di Fantoft, rasa al suolo nel giugno 1992. Secondo quanto riportato, la polizia norvegese ritiene che il responsabile fosse Varg Vikernes, anche detto «Conte Grishnack», musicista metal della band Burzum: la copertina dell’EP Aske («cenere») di Burzum è una fotografia della chiesa distrutta.

 

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Il 16 maggio 1994, Vikernes fu dichiarato colpevole di aver bruciato la cappella di Holmenkollen, la chiesa di Skjold e la chiesa di Åsane. Coloro che furono condannati per gli incendi di chiese non mostrarono rimorso e descrissero le loro azioni come una simbolica «ritorsione» contro il cristianesimo in Norvegia. Vikernes sarebbe stato visto come «l’autore di alcuni incendi e l’ispiratore di molti incendi».

 

Inoltre, è stato giudicato colpevole di tentato incendio doloso di una quarta chiesa e di furto e deposito di 150 kg di esplosivo. Anche i membri della scena black metal svedese iniziarono a bruciare le chiese nel 1993.

 

Secondo il documentario Once upon a Time in Norway, in concomitanza con l’uscita dell’album De Mysteriis Dom Sathanas dei Mayhem, Vikernes ed Euronymous – al secolo Øystein Aarseth, cantante dei Mayhem – avrebbero complottato per bombardare la cattedrale di Nidaros, che appare sulla copertina dell’album. Il Vikernes una sera del 1993 avrebbe poi pugnalato a morte Euronymus con 23 ferite da taglio: due alla testa, cinque al collo e 16 alla schiena.

 

Il Vikernes è stato giudicato colpevole di omicidio e incendio doloso nel 1994 e condannato a 21 anni di prigione, rilasciato dopo aver scontato 15 anni. Ha promosso visioni che combinavano l’odinismo e il nazismo esoterico, ma in seguito rinnegato l’ideologia e i movimenti ad essa associati, anche se i critici continuano a etichettare le sue opinioni come di estrema destra. Vikernes, che dice di essere un lontano parente da parte materna del collaborazionista Vidkun Quisling, chiama le sue convinzioni «Odalismo» e difende una «società pagana europea preindustriale» che si oppone alle religioni abramitiche e sistemi come il capitalismo, il comunismo, il materialismo e il socialismo.

 

Ora vive in Francia con la moglie e figli. La coppia si definisce «autistica». Vikernes è comparso in video in cui fa discorsi sul DNA neanderthaliano e l’autismo, visti in maniera positiva e con un ruolo precipuo nella storia antica dell’Europa.

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Immagine di Siri Johannessen via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Norway; immagine tagliata

 

 

 

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