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Giorgio Agamben: lo spettro dell’Europa che non esiste

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.

 

È probabile che ben pochi fra coloro che si apprestano a votare per le elezioni europee si siano interrogati sul significato politico del loro gesto. Poiché sono chiamati a eleggere un non meglio definito «Parlamento europeo», essi possono credere più o meno in buona fede di star facendo qualcosa che corrisponde all’elezione dei Parlamenti dei Paesi di cui sono cittadini.

 

È bene subito chiarire che le cose non stanno assolutamente così.

 

Quando si parla oggi di Europa, il grande rimosso è innanzitutto la stessa realtà politica e giuridica dell’Unione europea. Che si tratti di una vera e propria rimozione, risulta dal fatto che si evita in tutti i modi di portare alla coscienza una verità tanto imbarazzante quanto evidente.

 

Mi riferisco al fatto che dal punto di vista del diritto costituzionale, l’Europa non esiste: quella che chiamiamo «Unione Europea» è tecnicamente un patto fra Stati, che concerne esclusivamente il diritto internazionale.

 

Il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, che ha dato la sua forma attuale all’Unione europea, è l’estrema sanzione dell’identità europea come mero accordo intergovernativo fra Stati. Consapevoli del fatto che parlare di una democrazia rispetto all’Europa non aveva pertanto senso, i funzionari dell’Unione europea hanno cercato di colmare questo deficit democratico stilando il progetto di una cosiddetta Costituzione europea.

 

È significativo che il testo che va sotto questo nome, elaborato da commissioni di burocrati senza alcun fondamento popolare e approvato da una conferenza intergovernativa nel 2004, quando è stato sottoposto al voto popolare, come in Francia e in Olanda nel 2005, è stato clamorosamente rifiutato.

 

Di fronte al fallimento dell’approvazione popolare, che di fatto rendeva nulla la sedicente Costituzione, il progetto fu tacitamente – e forse bisognerebbe dire vergognosamente – abbandonato e sostituito da un nuovo trattato internazionale, il cosiddetto Trattato di Lisbona del 2007.

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Va da sé che, dal punto di vista giuridico, questo documento non è una Costituzione, ma è ancora una volta un accordo tra governi, la cui sola consistenza riguarda il diritto internazionale e che ci si è pertanto guardati dal sottoporre all’approvazione popolare. Non sorprende, pertanto, che il cosiddetto Parlamento europeo che si tratta di eleggere non sia, in verità, un parlamento, perché esso manca del potere di proporre leggi, che è interamente nelle mani della Commissione Europea.

 

Qualche anno prima il problema della Costituzione europea aveva dato del resto luogo a un dibattito fra un giurista tedesco di cui nessuno poteva mettere in dubbio la competenza, Dieter Grimm, e Jürgen Habermas, che, come la maggior parte di coloro che si definiscono filosofi, era del tutto privo di una cultura giuridica.

 

Contro Habermas, che pensava di poter fondare in ultima analisi la costituzione sull’opinione pubblica, Dieter Grimm ebbe buon gioco nel sostenere l’improponibilità di una costituzione per la semplice ragione che un popolo europeo non esisteva e pertanto qualcosa come un potere costituente mancava di ogni possibile fondamento.

 

Se è vero che il potere costituito presuppone un potere costituente, l’idea di un potere costituente europeo è il grande assente nei discorsi sull’Europa.

 

Dal punto di vista della sua pretesa costituzione, l’Unione Europea non ha pertanto alcuna legittimità. È allora perfettamente comprensibile che una entità politica senza una costituzione legittima non possa esprimere una politica propria. La sola parvenza di unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo ad interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. L’Unione Europea agisce oggi come una succursale della NATO (la quale NATO è a sua volta un accordo militare fra Stati).

 

Per questo, riprendendo non troppo ironicamente la formula che Marx usava per il comunismo, si potrebbe dire che l’idea di un potere costituente europeo è lo spettro che si aggira oggi per l’Europa e che nessuno osa oggi evocare. Eppure solo un tale potere costituente potrebbe restituire legittimità e realtà alle istituzioni europee, che – se impostore è secondo i dizionari «chi impone ad altri di credere cose aliene dal vero e operare secondo quella credulità» – sono allo stato attuale nient’altro che un’impostura.

 

Un’altra idea dell’Europa sarà possibile solo quando avremo sgombrato il campo da questa impostura.

 

Per dirla senza infingimenti né riserve: se vogliamo pensare veramente un’Europa politica, la prima cosa da fare è togliere di mezzo l’Unione Europea –, o quanto meno, essere pronti per il momento in cui essa, come sembra ormai imminente, crollerà.

 

Giorgio Agamben

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Kennedy denuncia la direttiva della Difesa USA che autorizza l’esercito a «sparare e uccidere» chi protesta

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Robert F. Kennedy, Jr. ha condannato la direttiva autoritaria del Dipartimento della Difesa dell’amministrazione Biden-Harris di ampliare l’autorità militare degli Stati Uniti per supportare le attività di applicazione della legge nazionale ed esercitare l’uso della forza letale contro gli americani.   Intervenendo mercoledì durante un grande comizio di Trump a Duluth, in Georgia, Kennedy ha sottolineato la preoccupante direttiva e ha smascherato l’ipocrisia del regime di Biden nell’emanare una direttiva del genere e, allo stesso tempo, definire Trump un dittatore totalitario.   «La vicepresidente Harris ha detto oggi, nel suo post, nel suo discorso, che il presidente Trump avrebbe messo l’esercito americano contro il pubblico americano e avrebbe usato il pubblico per promuovere il suo programma», ha detto Kennedy alla folla, che è esplosa in un coro di fischi.  

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«Ciò che trovo interessante è che l’amministrazione Biden-Harris ha fatto due settimane fa qualcosa che non era mai stato fatto nella storia americana, ovvero inviare… una direttiva al Pentagono per modificare la legge e rendere legale l’uso della forza letale da parte dell’esercito statunitense contro cittadini americani su suolo americano».   «Tecnicamente, ora che è legale per l’esercito americano in base a questa direttiva, diventerà legale per l’esercito americano sparare e uccidere gli americani che prendono parte a proteste politiche perché non sono d’accordo con le politiche della Casa Bianca!» ha continuato Kennedy.   «Non me lo sto inventando. Chiunque di voi può cercarlo. Questa è un’iniziativa democratica. Non è arrivata durante l’amministrazione Trump. Non è arrivata da Donald Trump. È arrivata dal Partito Democratico. Ed è per questo che ho lasciato il Partito Democratico», ha aggiunto, suscitando applausi dalla folla.   Mercoledì la Harris ha rilasciato una breve dichiarazione di 3 minuti che ripeteva a pappagallo un articolo pubblicato da The Atlantic in cui si affermava che l’ex capo dello staff della Casa Bianca, il generale John Kelly, aveva affermato che Trump una volta gli aveva detto che pensava che «Hitler avesse fatto delle cose buone», con un post di accompagnamento su X che avvisava che Trump avrebbe «usato l’esercito per portare a termine vendette personali e politiche».  

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Come riportato da Renovatio 21, l’amministrazione Biden aveva iniziato immediatamente la persecuzione di ogni tipo di dissidenza, etichettando coloro che si opponevano alle restrizioni pandemiche (vaccini, lockdown, mascherine) e genitori di scolari (contrari a indottrinamento su razza e gender) come possibili «domestic terrorists».   Come riportato da Renovatio 21, un documento dell’FBI trapelato indicava una strategia del Bureau per infiltrare le messe in latino, considerandole fucine di «radicali» potenziali nemici degli USA.   È emerso di recente che migliaia di soldati USA sono stati addestrati con diapositive che definiscono i pro-life «terroristi».   La volontà di distruzione totale dell’avversario, per la creazione di un sistema monopartitico in USA, risultava evidente già nell’inquietante discorso di Philadelphia Biden, illuminato in stile Albert Speer da luci rosse, ribattezzato come Dark Brandon.   La questione della tendenza dei partiti dell’establishment di annichilire gli avversari non riguarda solo gli Stati Uniti.   Biden ha recentemente espresso il desiderio di «rinchiudere» Trump, salvo poi correggersi in qualche modo. La lawfare, cioè la guerra legale contro Trump, sta intanto continuando nei tribunali, lasciando intendere che potrebbe riservare qualche sorpresa.

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Il privilegio israeliano di sparare sugli italiani. Più qualche domanda abissale

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Le implicazioni di quanto sta succedendo in Libano non pare siano state percepite appieno dai tanti commentatori lanciatisi nella materia. L’attacco israeliano alla missione di pace internazionale UNIFIL a guida italiana – cioè, l’aggressione pura e semplice di nostri soldati – ha, come tante slatentizzazioni che testimoniamo nell’ora presente, ramificazioni immani: e mica solo dal punto di vista politico, geopolitico, militare, storico – no, ci sono questioni che emergono in superficie che pertengono a piani superiori, all’empireo del metapolitico, del metastorico. Dello spirituale. Del divino.

 

Innanzitutto, lode al ministro della Difesa italiano, che ancora una volta dimostra di sapersi svegliare dalla parte giusta dell’universo. Chiamare quanto stanno facendo le Forze di difesa israeliane (oramai chiamate da tutti non più con il vecchio nome ebraico, Tsahal, ma con l’acronimo english IDF, un rebrand pronunziato ridicolmente dai corrispondenti TV proprio «ai-di-ef») contro i nostri soldati con il loro nome – «crimini di guerra», ha detto in conferenza stampa videografata, poco dopo aver incontrato l’ambasciatore dello Stato degli ebrei a Roma – non è cosa da poco.

 

Il Crosetto, ricordiamo, è quello che si è opposto pubblicamente a Macron quando quest’ultimo ha cominciato bizzarramente (per motivi che possiamo solo intuire) a parlare di guerra diretta alla Russia in Ucraina da parte di soldati occidentali.

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Il lettore sa pure che il ministro, sia pur timidamente, ha ammesso di aver ricevuto nocumento dall’iniezione di siero genico sperimentale COVID. Se per cominciare a comprendere qualcosa di Ucraina e Israele bisogna seguire il percorso, c’è da augurarsi il danno vaccinale a tutta la classe dirigente euro-americana: un sacrificio accettabile per impedire la guerra termonucleare mondiale, scoppiata via Kiev o Beirut non importa.

 

Ora, torniamo un secondo a capire cosa sta accadendo: l’esercito di Israele spara sui nostri soldati in missione di pace. E non una volta: dopo lo scandalo, e le parole del ministro, pare ci sia stata, una ventina di ore fa, un’ulteriore ondata di danni alla base italiana in Libano.

 

Secondo quanto hanno ricostruito i giornali – controvoglia, certo – italiani, i miliziani ebraici avrebbero avuto la cortesia di chiamare prima gli italiani, probabilmente l’unico contingente con cui mai vi erano stati problemi, anzi: provate a vedere i rapporti con i soldati irlandesi, che vengono da un Paese per decadi filo-OLP, e che ora non sembra aver tanto cambiato rotta.

 

Cioè, i soldati israeliani chiamano gli italiani in missione ONU, e dicono loro: attenti, vi bombardiamo, andate nel bunker. I nostri connazionali – come topi! – corrono a nascondersi, obbedendo. Poi, a quanto si legge, avrebbero colpito proprio l’ingresso del bunker. Una scena stile Tom & Jerry, con il gatto che danneggia il buco in cui si è rifugiato il muride in fuga.

 

Ora, per quanto riguarda la politica e la geopolitica, facciamo presente che non è niente di personale: gli italiani si trovano solo a capo di una cosa con l’etichetta UN (cioè, da noi, ONU) davanti – forse abbiamo dimenticato i bombardamenti sui rifugi delle Nazioni Unite a Gaza neanche un anno fa.

 

E chi ci segue, sa che Renovatio 21 ha provato in questo anno a registrare tutta l’estenuazione dei rapporti tra Stato Ebraico e Palazzo di Vetro, il cui ultimo capitolo è il bando del segretario Guterres da Israele come persona non grata, ma che prima aveva visto vette altissime grazie all’ambasciatore Israel Katz (lui), ma anche alle continue dichiarazioni di personale ONU che parlano di Gaza come «inferno» «non adatto alla vita umana».

 

In pratica, Israele non vuole l’ONU tra le scatole mentre deve far pulizia nel Paese limitrofo, così da assicurare il ritorno a casa dei 70 mila israeliani che vivono nel Nord e che ora sono sfollati. Tecnicamente, non un piano difficile da capire.

 

Il procedimento è ancora più interessante se si guarda invece alla teoria: Israele sta dicendo, in maniera anche convicente, che del diritto internazionale non se ne fa nulla, che esso non vale niente: a questo punto, c’è da dire pure con ragione. Cosa vale, a questo punto, l’intero impianto legale tra le Nazioni, se davanti pure a questo caso non si fa nulla?

 

E ancora: cosa vale l’ONU? Cosa vale l’UE? Cosa vale la NATO? Perché, uno si chiede, a quanti strati diplomatico-militari siamo qui dall’articolo 5 del Trattato?

 

Domanda ancora più profonda: cosa vale lo Stato italiano, se non reagisce davvero?

 

Si tratta di una dichiarazione di coraggio estremo, di importanza storica, metastorica, politica, metapolitica. Lo Stato Ebraico – il Paese messianico del Popolo Eletto – non si cura delle leggi, e, ancora più rilevante, delle relazioni internazionali: sparare sugli italiani? Perché no? Perché preoccuparsi? Cosa possono farci?

 

Si tratta di un privilegio non da poco: pensiamo che poche ore fa la nostra intera classe politica era in sinagoga con la kippah a ricordare la nuova ricorrenza «olocaustica», il 7 ottobre. C’era la Meloni, cui è risparmiato il copricapo sinagogale in quanto donna. C’era, zucchetto in testa, il ministro con l’aquila fascista tatuata sul petto. C’era l’ex deputato antigender papillonato. C’erano tutti, post-mussolinici o meno, incuranti che – visto che c’è perfino un caso aperto all’Aia dove la parola «genocidio» ha perso il copyright, con tanti Paesi dietro – in un futuro prossimo la data potrebbe essere ricordata, più che come la tragedia tremenda del rave (stranamente fatto al confine…) e dei rapiti, come l’inizio di un programma di massacro che fa impallidire i racconti del nonno partigiano sulla legge del taglione: di qua 1.200 ammazzati, di là, solo a Gaza, almeno 40.000…

 

È la chuzpah, la hybris ebraica, la tracotanza sionista al suo meglio – quella che già il teorizzatore dello Stato di Israele Teodoro Herzl aveva mostrato durante l’udienza concessagli da Papa San Pio X 120 anni fa. Abbiamo immaginato, ma non abbiamo prova alcuna, che forse sia lo stesso fenomeno che ha irritato Crosetto, arrivato incazzato nero davanti alle telecamere l’altro giorno.

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Il governo italiano sperimenta così un grande problema dell’ora presente: l’impotenza di chiunque rispetto alla questione israeliana. Potete chiedere all’uomo più potente della Terra, sulla carta, Joe Biden, ma non è detto che vi risponda. Potete chiedere pure a Donald Trump, che nelle ultime ore della presidenza arrivò a graziare e liberare e spedire in Israele Jonathan Pollard, una spia israeliana che ha danneggiato gli USA in mondo insuperabile, per poi trovarsi senza tante sponde da parte di Netanyahu quando si era sul fotofinish della contestata competizione elettorale con Biden. (Va detto, qua e là Donald ha lasciato qualche briciola interessante, come quando mesi fa ha rivelato che a fargli uccidere Soleimani sono stati gli israeliani, salvo poi sfilarsi all’ultimo… qualcuno dice che qui il biondo stia giocando un gioco a lungo termine, vedremo).

 

Ebbene, all’Italia e agli italiani, di tutte le religioni, vogliamo qui porre una ulteriore domanda da capogiro: ci sono cittadini italiani che in questo momento stanno combattendo con Israele?

 

Perché sapete, secondo il Codice Penale un cittadino italiano non può entrare in un esercito straniero. L’art. 244 C.P. scrive che «chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo». Tale articolo pone problemi a chi ha una doppia cittadinanza con un Paese che prevede la naja obbligatoria.

 

Lo Stato Ebraico prevede un servizio militare obbligatorio per tutti i propri cittadini quando compiono 18 anni: 2 anni e otto mesi per i maschi e solo 2 anni per le femmine.

 

Quindi, ci si chiede come possano quegli ebrei italiani che hanno anche passaporto israeliano – fenomeno non raro presso le comunità ebraiche italiane, immaginiamo – a fare quando vanno a farsi i tre tremendi anni di leva in Terra Santa, dai quali molti ragazzini escono con la passione per la musica techno-trance e conseguentemente per le droghe sintetiche.

 

Un disegno di legge a firma Francesco Cossiga (chi, sennò) depositato al Senato durante la XV legislatura nel 2006 – cioè, un anno dopo che era stata abolita la leva in Italia … – prevedeva che «i cittadini italiani che siano iscritti all’Unione delle Comunita Ebraiche Italiane, ancorche non siano anche cittadini dello Stato d’Israele, possono liberamente e senza autorizzazione delle autorita italiane prestare servizio militare anche volontario nelle forze di difesa ed anche servizio in altre amministrazioni dello Stato d’Israele» (DDL 730/2006, art.3).

 

Non che abbiamo capito bene come funzioni questa cosa, soprattutto perché ci chiediamo: prima, nessun giudice si è mosso? In Italia non c’era per le toghe l’obbligo di azione penale? È un altro privilegio opaco, su cui è meglio tacere?

 

Sui numeri, un articolo de Il Giornale di un anno fa – all’altezza dello scoppio del patatracco – ci viene incontro. «Gli italiani residenti in Israele sono oltre 18mila tra cui numerosi cittadini con doppia cittadinanza. Di questi, circa mille ragazzi con doppio passaporto sono arruolati nell’esercito israeliano (IDF) per il servizio di leva secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nelle comunicazioni al governo sulla situazione in Medio Oriente».

 

Quindi, gli italiani che combattono con Israele sarebbero almeno un migliaio…

 

A questo punto, non è che possiamo evitare di domandarci: e se fossero degli italiani che hanno sparato contro gli italiani?

 

Ammettiamolo, è una bella domanda, ma per motivi su cui urge riflettere davvero. Così come ci sarebbe da fare un’ulteriore domanda birichina: nei nostri servizi c’è qualcuno che ha la doppia cittadinanza? Quanto la nostra Intelligence è legata a quella dello Stato Ebraico? Domande che ci siamo posti non solo vedendo che uomini che primi ministri volevano piazzare da qualche parte nei servizi nazionali sono diventati consoli israeliani, ma soprattutto quando è emerso che sul Lago Maggiore era scuffiata, con morti e feriti, una barca con sopra un incontro con una ventina di 007 italiani e israeliani (Cosa sia accaduto, cioè, la tromba d’aria che rovescia solo quella barchetta, non lo sappiamo, ma ad una certa, giuriamo, non avremo più paura delle ipotesi fantascientifiche).

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Ma anche qui, sono cose politiche, geopolitiche. Cose mondane. Robetta.

 

La domanda più profonda è: se un italiano israeliano spara su una base italiana, perché lo fa? Attenzione: non stiamo dicendo che sia accaduto, anche se non farebbe differenza. Dobbiamo solo tratteggiare uno scenario per far comprendere il ragionamento.

 

Se un israeliano italiano (cresciuto a Roma ar ghetto, tra le botteghe transgenerazionali, la Sinagoga, il tifo allo stadio, i romanzi celebrativi degli scrittori da premio letterario, il romanesco parlato come chiunque altro) spara su una base italiana, è perché, forse, la sua lealtà ultima non va verso uno Stato moderno, una «Repubblica laica», ma verso un’entità che rappresenta la sua identità ancestrale. Cosa viene prima? La cittadinanza, o la religione? Il tuo passaporto, o il tuo spirito? La carta o l’origine? L’anagrafe o Dio?

 

Cosa ti può far risuonare il sangue, sino a spingerti a volerlo versare? La tua nazionalità o la tradizione divina che investe il tuo essere, la tua famiglia, da generazioni, e per generazioni nel futuro?

 

Capite che non stiamo accusando nessuno: anzi. Stiamo dicendo, semplicemente, che siamo davanti ad una scelta obbligata, un nodo che prima o poi doveva venire al pettine. E, questo è il punto, non solo per gli ebrei.

 

Perché, parlo ai cristiani europei, a cosa andrebbe la vostra lealtà? Al Paese delle carte bollate, o ad una dimensione spirituale realizzata, ad uno Stato Cristiano, che difende i cristiani, che rappresenta spiritualmente – e, sì, messianicamente, apocalitticamente – il vostro credo, le vostre radici?

 

Non siamo a noi che dobbiamo rispondere a questa domanda: perché chi rispondesse mettendo la crocetta sul secondo caso finirebbe, non godendo di privilegi, per essere accusato di tradimento. Lo Stato moderno è così, inutile girarci intorno: lo Stato «laico» non può tollerare qualcosa di diverso da esso, e questo forse perché è stata concepita dai massoni nell’Ottocento, e il codice sorgente non è stato mai cambiato, né da Mussolini, né dai democristiani – con il risultato che abbiamo sotto gli occhi.

 

Lo Stato moderno è fondamentalista: certo, con le eccezioni che abbiamo davanti, ma anche lì ci sarà una spiegazione sulla quale ora non ci soffermeremo.

 

Qui, comunque, sta la vera domanda abissale di queste ore: la differenza tra uno Stato che si basa sulla politica e uno che si basa sulla metafisica. La differenza tra le nazioni moderne, e quelle metastoriche – quelle fondate sulla religione, cioè sulle cose ultime, cioè sull’eterno.

 

Questo per dire mai sarà possibile parlare la stessa lingua dello Stato Ebraico fino a che non vi sarà qualcuno che proverrà materialmente da uno Stato Cristiano.

 

E aggiungiamo pure che un vero Stato Cristiano non sarà possibile fino a che Gerusalemme sarà lasciata ai non-cristiani, che l’anno resa un luogo di desolazione, di degradazione, di violenza e di orrore, oltre che di blasfemo scherno contro Nostro Signore.

 

La posizione del Vaticano era stata, fino a Wojtyla con le sue scuse e i muri del pianto, che nella città Santa dovesse starci una forza internazionale – ma lasciamo pure perdere il Sacro Palazzo, il cui rappresentante principale ora finisce pure a cartone animato negli spot del ministero del Turismo israeliano.

 

Pensiamo, piuttosto, alla logica. Renovatio 21 lo aveva già scritto tempo fa: ad un certo punto, Stato Ebraico e Stato Islamico, qualche anno fa, confinavano. Nell’area mancava solo uno Stato espressione della prima religione mondiale: no, lo Stato Cristiano in Medio Oriente non si trova, in realtà non lo si vede da nessuna parte, e sappiamo pure il perché. Lo Stato moderno è stato creato per distruggere lo Stato Cristiano ed impedirne la resurrezione.

 

Di fatto, crediamo, a questo punto, sia in realtà il tassello che manca: senza lo Stato Cristiano non si avrà mai l’equilibrio in Medio Oriente. Né nel resto della Terra. Né – certo non parlo per tutti, ma in fondo anche sì – nella nostra anima.

 

Ecco perché la rabbia verso Israele, adesso, ci lascia indifferenti. Per i cristiani, non è più il tempo della lagna, e da un pezzo. Forse non è neppure il tempo di combattere: ma è, decisamente, il tempo di costruire. Costruire qualcosa di immenso – qualcosa di eterno. Qualcosa che – chiudete gli occhi, ascoltate dentro di voi – di fatto esiste già.

 

Quanti sono pronti a comprenderlo?

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Israel Defense Forces via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic

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Alta Corte di Taipei: «Pena di morte non viola la Costituzione». Ma pone limiti

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Rigettata una petizione presentata dai 37 detenuti che si trovano nel braccio della morte, ma con l’invito ad applicarla solo in casi «eccezionali». L’ultima esecuzione risale al 2020. Le critiche del Kuomintang che definisce il verdetto dei giudici una “abolizione di fatto”. Amnesty International Taiwan parla di “passo avanti” e chiede al governo di decretare una moratoria ufficiale.   Taiwan continuerà a mantenere in vigore la pena di morte, ma dovrà applicarla solo in casi «eccezionali». Lo ha stabilito ieri la Corte Costituzionale di Taipei, con una sentenza che – pur non accogliendo la richiesta di dichiarare incostituzionali le sentenze capitali – indica comunque alcuni limiti significativi nella loro loro applicazione. E rappresenta un altro punto di distinzione importante rispetto alla Repubblica popolare cinese, che – pur non diffondendo dati ufficiali – è ritenuta dalle organizzazioni per i diritti umani il Paese al mondo dove di gran lunga vengono eseguite ogni anno più condanne a morte.   La legislazione di Taiwan prevede la possibilità della pena di morte per alcuni reati tra cui omicidio, alto tradimento, stupro e rapimento. L’ultima esecuzione a Taiwan è avvenuta nel 2020. A sollevare il caso davanti alla Corte Costituzionale è stato Wang Xinfu, la persona più anziana che si trova nel braccio della morte di Taiwan, con una petizione sottoscritta anche dagli altri 36 detenuti che si trovano nella stessa condizione.

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Nella sua sentenza l’Alta Corte ha stabilito che la pena di morte è conforme alla Costituzione di Taiwan, ma dovrebbe essere applicata solo in casi «eccezionali». Sebbene il diritto alla vita sia protetto dalla Costituzione – ha sostenuto il Presidente della Corte Costituzionale Hsu Tzong-li – «tale protezione non è assoluta». Allo stesso tempo, ha però aggiunto, essendo «la punizione più severa e di natura irreversibile, la sua applicazione e le garanzie procedurali – dalle indagini all’esecuzione – devono essere sottoposte a uno scrutinio rigoroso».   La Corte non è entrata nel merito della costituzionalità di infliggere la pena di morte per reati come l’alto tradimento o il traffico di stupefacenti. Ma ha inoltre stabilito che è «proibita» per «imputati con problemi di salute mentale, anche se questi non hanno influenzato il reato nei casi in questione».   Il tema della pena di morte è anche una questione politica a Taiwan. I deputati del Partito Democratico Progressista (DPP) û a cui appartiene il presidente Lai Ching-te – sono in gran parte favorevoli all’abolizione e ieri hanno affermato che rispetteranno l’indicazione della Corte. Al contrario il Kuomintang – il partito nazionalista – ha criticato la sentenza, sostenendo che si tratterebbe di una «abolizione di fatto» della pena capitale. Nei sondaggi di opinione il sostegno alla pena di morte risulta ancora prevalente tra la popolazione.   Da parte sua il direttore di Amnesty International Taiwan, E-Ling Chiu, ha salutato la sentenza come «un piccolo passo avanti per i diritti umani a Taiwan. La Corte costituzionale ha rafforzato le tutele dei diritti umani per i condannati a morte. Tuttavia, la pena di morte rimane in vigore per diversi reati. Questo segna un inizio nel cammino di Taiwan verso l’abolizione, e dobbiamo assicurarci che non si fermi qui».   Resta la preoccupazione «per il fatto che questa decisione mette di fatto quasi 40 persone a rischio di esecuzione», ha aggiunto. «Esortiamo il governo di Taiwan a stabilire immediatamente una moratoria ufficiale sulle esecuzioni come primo passo fondamentale. La pena di morte è intrinsecamente crudele e non ci rende più sicuri».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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