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Economia

La Russia assorbirà il contraccolpo delle sanzioni tramite contratti con la Cina per il carbone

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Putin ha già pronta una exit-strategy nel caso di pesanti sanzioni economiche poste in essere dall’Occidente contro Mosca come ritorsione per l’escalation in Ucraina. Lo sostiene un esperto USA.

 

L’ex segretario per gli affari dei veterani dell’amministrazione Trump, Robert L. Wilkie, ora alla Heritage Foundation, ha affermato sul canale TV americano Fox News che la Cina aiuterà la Russia contro tutte le sanzioni finanziarie della NATO imposte su di essa.

 

«Molte delle chiacchiere sulle sanzioni economiche sono davvero fandonie perché la Cina è ora il banchiere della Russia. Xi Jinping sosterrà Putin se arriveranno sanzioni dall’Occidente», ha detto Wilkie. Lo faranno acquistando energia, ha detto, e «riprenderanno il gioco» con un taglio delle banche russe dal sistema interbancario SWIFT.

 

Wilkie ha effettivamente fatto i suoi commenti il ​​30 gennaio alla Heritage, ma Fox News li ha riportati il ​​20 febbraio in connessione con un altro importante contratto energetico a lungo termine tra le due potenze.

 

L’agenzia di stampa russa TASS, citando il capo del Dipartimento per la cooperazione economica estera e lo sviluppo dei mercati dei carburanti presso il ministero dell’Energia russo Sergej Mochalnikov, scriveva che «ora è in fase di sviluppo un accordo intergovernativo con la Repubblica popolare cinese e la cifra è di 100 milioni di tonnellate».

 

«Nei prossimi anni, i consumatori dovrebbero ricevere tutto il carbone di cui hanno bisogno» ha continuato Mochalnikov.

 

Ciò arriva subito dopo un accordo per aumentare le esportazioni di petrolio russo in Cina di 10 milioni di barili, a 48 milioni di barili all’anno, non appena l’oleodotto Power of Siberia 2 sarà aperto, il che probabilmente avverrà entro la fine di quest’anno.

 

Secondo TASS, la quota di carbone della Russia nell’intero mercato del carbone dell’Asia-Pacifico è ora di circa il 12%, rispetto al 4% del 2010.

 

«Abbiamo buone prospettive fino al 2030», dice ancora Mochalnikov.

 

Il New York Times ha pubblicato un editoriale la scorsa domenica intitolato «Nixon temeva un’alleanza Cina-Russia: è qui».

 

Di fatto, queste ultime settimane hanno buttato per aria decenni di teoria del decoupling russo cinese, di cui era fautore l’acuto consigliere dei presidenti USA, forsennatamente russofobo forse per motivi famigliari, Zbigniew Brzezhinski.

 

Brzezhinski, proveniente da nobile famiglia polacco del voivodato di Tarnopoli poi passato sotto la Russia sovietica, di fatto fu tra i promotori dei mujaheddin afghani armati da USA e Sauditi contro l’URSS negli anni Settanta-Ottanta. Il risultato fu, come noto, il disastro di terrorismo e morte che stiamo testimoniando ancora oggi.

 

Anche se inizialmente Brzezhinski non riteneva la cosa possibile, negli anni Settanta cominciò a comprendere l’importanza e la fattibilità del cosiddetto Sino-soviet split, cioè la separazione tra Russia e Cina. Togliendo definitivamente Pechino dall’orbita di Mosca, si sarebbe avviato un ulteriore isolamento dell’URSS.

 

Alla fine degli anni Sessanta, il continuo litigio tra il PCC e il PCUS sulle corrette interpretazioni e applicazioni del marxismo-leninismo si trasformò in una guerra su piccola scala al confine sino-sovietico.

 

In risposta ad una richiesta di spostare il confine cinese a quello della dinastia Qing del XIX secolo, nel 1968, l’esercito sovietico si ammassò lungo il confine di 4.380 chilometri (4377 chilometri) con la Repubblica Popolare , in particolare alla frontiera dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, dove i sovietici avrebbero potuto prontamente indurre i popoli turchi (stessa etnia di larga parte delle Repubbliche sovietiche del Centro Asia) a un’insurrezione separatista.

 

Nel 1961, l’URSS aveva di stanza 12 divisioni di soldati e 200 aeroplani a quel confine. Nel 1968, l’Unione Sovietica aveva di stanza sei divisioni di soldati nella Mongolia Esterna e 16 divisioni, 1.200 aeroplani e 120 missili a medio raggio al confine sino-sovietico per affrontare 47 divisioni leggere dell’esercito cinese.

 

Nel marzo 1969, gli scontri di confine si intensificarono, inclusi i combattimenti sul fiume Ussuri, l’incidente dell’isola di Zhenbao e Tielieketi.

 

Dopo il conflitto di confine, negli anni Settanta  si verificarono «guerre di spionaggio» che coinvolsero numerosi agenti di spionaggio sul territorio sovietico e cinese.

 

Questa frattura precedente tra i campioni del comunismo mondiale e i concorrenti nell’egemonia asiatica (ora eurasiatica e africana, mondiale) è stata ora ricomposta dalla miope, infruttifera, ossessiva politica estera di Biden e del clan che lo controlla.

 

Uno spreco di decenni di pensiero e azione americani sulla geopolitica mondiale.

 

Del resto, è indubbio che Biden abbia qualche problema di memoria.

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Economia

Draghi della distruzione: reloaded

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La verità è che vi eravate dimenticati di lui. Pensavate di averla fatta franca: del resto, gli italiani hanno votato la Meloni proprio in reazione ai due anni di suo governo. E poi ce lo siamo evitato come presidente della Repubblica con il bis a Mattarella, con nasi tappatissimi un po’ dappertutto. No?

 

Mario Draghi, invece, riappare. Intonso, pontificante: il suo potere, che non è facile capire bene da dove derivi, pare non essere scalfito in nessuna parte. Draghi invincibili. Draghi intrombabili. E dove trovarli.

 

E quindi, eccolo che dà, in italiano nel testo, il suo contributo per lanciare l’Italia nel suo futuro di guerra ipersonica e termonucleare.

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«Occorre definire una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti, e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema di difesa continentale» ha detto in un’audizione al Senato l’ex premier.

 

Perché, le azioni di Trump – cioè dell’uomo che lavora per la pace mondiale – «hanno drammaticamente ridotto il tempo disponibile»: Washington ha votato con Mosca all’ONU sulla risoluzione a difesa dell’Ucraina, lasciando Bruxelles sola (e con il cerino in mano). I «valori costituenti» dell’Europa sono quindi «posti in discussione».

 

«La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea».

 

«Il ricorso al debito comune è l’unica strada. Per attuare molte delle proposte presenti nel rapporto, L’Europa dovrà dunque agire come un solo Stato».

 

Il contorno di filosofia politica è gustosissimo, con tanto di aneddoti messi a ciliegina. «Diversi di voi mi hanno chiesto: questo significa cedere sovranità?» dice il Super Mario, rispondendo: «ebbehcerto!». Quindi parte la storiella: «guardate, vi racconto una cosa che riguarda il presidente Ciampi… molti anni fa eravamo insieme in uno degli ultimi negoziati sulla costruzione dell’euro. Lui mi diceva: “tutti mi dicono: ma perché vuoi fare l’euro, tu ora sei sovrano della tua politica monetaria… ma che sovrano, io non conto niente, oggi devo fare quello che fa la Bundesbank [la Banca Centrale tedesca, ndr]… domani sto intorno ad un tavolo ed avrò una fettina di sovranità… e questa è la storia, la politica monetaria italiana è stata fondamentalmente non una politica monetaria sovrana».

 

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Mario, qua la mano: e grazie della sincerità. Il re è nudo – e nemmeno è sovrano di nulla.

 

Queste affermazioni, tuttavia, non sono state fatte ad un evento incentrato sul ReArm UE dell’ex bundesministro della Difesa Von der Leyen, ora Commissario Supremo dell’Europa Unita. No: il contesto è quello dell’Audizione presso le Commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue di Camera e Senato in merito al Rapporto sul futuro della competitività europea».

 

Cioè: in teoria, si parlava di economia, e nel suo discorso Draghi lo ha fatto, pure soffermandosi a lungo sulla questione della guerra, includendo «anche l’intelligenza artificiale, i dati, la guerra elettronica, lo spazio e i satelliti, la silenziosa cyberguerra».

 

Insomma si parlava di crescita economica, che ora, senza tanti infingimenti, finisce per identificarsi con l’industria delle armi. È evidente a tutti: la Germania – contro la cui rimilitarizzazione sono state create la NATO e forsanche la stessa UE – ora gode perché la Volkswagen, messa in ginocchio dai diktat green, ora può felicemente riconvertirsi alla costruzione di veicoli da guerra come faceva ai tempi di Adolfo – che in un contesto di guerra di droni, robot e missili ipersonici non sappiamo bene a cosa serviranno.

 

La crescita insomma passa per strumenti di offesa. La nuova creazione del valore passa per la distruzione. Non è che avevamo già sentito questa musica?

 

Sì. Renovatio 21 ne aveva parlato tre anni fa, quando Draghi, ancora a Palazzo Chigi, parlava di «ricostruzione» del «dopo-emergenza». L’articolo si chiamava «“Ricostruire l’Italia” con i draghi della distruzione», di cui ora bisogna fare il reload.

 

«La “ricostruzione” che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione» scrivevamo. Perché non si tratta mica di un’opinione nostra, ma di un concetto economico-filosofico abbracciato alla luce del sole. Eccoci ripiombati nell’idea della «distruzione creatrice».

 

Possiamo dire che Draghi la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che persino la teorizza e la invoca. Lo si capisce leggendo un testo fatto uscire dal cosiddetto Gruppo dei Trenta, un consorzio elitista transnazionale di finanzieri ed accademici creato decenni fa dalla Rockefeller Foundation a Bellagio – un organismo, anche abbreviato in G30, di cui Draghi ha fatto parte come «membro senior».

 

A fine 2020 il Gruppo pubblicò saggio di analisi che riguardava i cambiamenti economici del mondo post-COVID chiamato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-COVID. Nel testo il nome di Mario Draghi compare co-presidente del comitato direttivo. Nelle prime pagine del libro Draghi scrive, con tanto di firma autografa, anche alcuni ringraziamenti «per conto del Gruppo dei Trenta».

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Nel saggio compare apertis verbis la «distruzione creativa», un concetto coniato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), nominato nel 1919 a pochi mesi dalla fine dell’Impero degli Asburgo ministro delle finanze per la prima Repubblica d’Austria. Non seppe tenere il posto, andando quindi a dirigere una banca, per poi tornare all’accademia ed emigrare oltreoceano nel 1932 approdando alla prestigiosa università di Harvard – cuore intellettuale pulsante del patriziato transatlantico – dove fece il professore fino alla morte.

 

Qui compose il trattato economico Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), dove lo Schumpeter lancia l’idea della distruzione creatrice (schöpferische Zerstörung) come «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova».

 

La distruzione di interi comparti professionali è per l’economista austriaco la condizione ideale per l’economia e la sua necessaria evoluzione. Ora tornate a leggere la data di pubblicazione di questo inno alla distruzione: uscì in America quando la distruzione concreta della guerra si abbatteva sulla guerra, e gli USA di Roosevelt si armavano per entrare in Guerra su due fronti, riconvertendo la propria industria e, di fatto, uscendo così del tutto dalla Grande Depressione.

 

A questo punto vi viene in mente qualcosa, se guardate dalla finestra?

 

Schumpeter, nel documento 2020 del Gruppo dei 30 del dicembre 2020, è menzionato una sol volta, tuttavia l’intero testo sembra girare intorno al suo concetto di distruzione creatrice.

 

«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione.» scrive il testo del Gruppo di Draghi. «Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza transitoria».

 

Insomma, il piano è noto. È noto anche ciò che lo anima: non la creazione – un concetto, se vogliamo, cristiano – ma la distruzione, che più che al Dio creatore e salvatore che ha informato l’Europa e legata a concetti oscuri dello shivaismo e del tantrismo, sistemi di pensiero gnostici trapelati nel codice sorgente dell’Occidente moderno.

 

Il sanscritista britannico Monier-Monier Williams (1819-1899) aveva per questo pensiero delle parole lucidissime: «la perfezione buddista è distruzione». Così: per le filosofie orientali, la scomparsa dell’io (in sanscrito, anatman) o l’estinzione del ciclo cosmico stesso (nirvana) sono i segni dell’illuminazione raggiunta. Illuminazione è distruzione.

 

Possiamo dire ciò è vero anche per gli arconti che ci governano: gli illuminati sono distruttori. I sapienti esperti ed intoccabili, saliti sulle loro torri ed eurotorri senza che si comprenda davvero perché, ci indicano la via della distruzione come l’unica da seguire.

 

Vedete come il quadro diviene perfettamente comprensibile: distruggere per procedere, procedere per distruggere. Solo così, comprendendo che la Cultura della Morte è un fondamento del mondo moderno e dei suoi padroni, è possibile spiegare la follia di questi anni, dai sieri genici allo scontro sempre più diretto con la maggiore superpotenza atomica mondiale.

 

Solo con la Necrocultura della distruzione è possibile spiegarsi la persistenza dei draghi.

 

Là fuori c’è chi vuole distruggervi – e ve lo dice in faccia, ed è pure pagato da voi. Non è una questione economica, ma materiale, metafisica: perché in gioco c’è la vostra stessa esistenza e quella dei vostri figli. Che sono minacciati di essere disintegrati in quindici minuti dalle scelte dei draghi distruttori.

 

Roberto Dal Bosco

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Alimentazione

Gli USA chiedono uova all’UE

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Il Dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti (USDA) ha contattato i produttori di diversi paesi dell’UE per assicurarsi ulteriori importazioni di uova a fronte dell’impennata dei prezzi interni, ha riferito venerdì la Reuters, citando l’associazione danese delle uova.   La richiesta giunge nonostante le recenti tensioni commerciali tra Washington e Bruxelles a causa dei dazi sulle importazioni imposti dal governo statunitense su vari prodotti dell’UE.   Secondo quanto riferito, a fine febbraio un rappresentante dell’USDA in Europa ha inviato richieste formali a diversi paesi produttori di uova, tra cui Danimarca, Svezia e Finlandia.

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I prezzi all’ingrosso delle uova negli Stati Uniti hanno recentemente raggiunto il massimo storico di 8,41 dollari la dozzina, segnando un aumento di oltre il 200% rispetto all’anno precedente, secondo Bloomberg. L’aumento dei prezzi è attribuito a un’epidemia in accelerazione di influenza aviaria tra le galline ovaiole, che ha ridotto significativamente le scorte di uova.   «Stiamo ancora aspettando ulteriori indicazioni da Washington sui prossimi passi, ma avete una stima del numero di uova che potrebbero essere fornite agli Stati Uniti (supponendo che soddisfino tutti i requisiti di importazione)», si legge in una lettera di follow-up all’associazione danese delle uova esaminata da Reuters, indicando che la Casa Bianca stava cercando di stimare le quantità di importazione fattibili.   Un portavoce dell’associazione ha dichiarato alla Reuters che avrebbero indagato sulla situazione, sottolineando tuttavia che in Europa non vi è alcuna eccedenza di uova.   «C’è una carenza di uova ovunque su scala globale, perché il consumo è in aumento e molti sono colpiti dall’influenza aviaria», ha specificato, aggiungendo che le esportazioni di uova negli Stati Uniti potrebbero essere difficili a causa delle normative igieniche e di altri fattori.   Il rappresentante dell’industria danese Jorgen Nyberg Larsen ha confermato in un’intervista con AgriWatch che Washington aveva chiesto informazioni su quanto potesse essere potenzialmente fornito, aggiungendo che «hanno anche contattato i miei colleghi nei Paesi Bassi, in Svezia e in Finlandia».   La scorsa settimana, fonti a conoscenza della questione hanno riferito a Bloomberg che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti aveva avviato un’indagine preliminare sull’impennata dei prezzi delle uova in tutto il Paese. L’indagine si concentrerebbe sulla possibilità che i fornitori locali come Cal-Maine Foods e Rose Acre Farms avessero cospirato per aumentare i prezzi o limitare l’offerta.   All’inizio di questa settimana, è entrato in vigore l’aumento del 25% dei dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio dall’UE da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in seguito alla scadenza delle precedenti esenzioni e quote esenti da dazi. La Commissione Europea ha risposto annunciando contro-dazi su 26 miliardi di euro (oltre 28 miliardi di dollari) di beni statunitensi, che dovrebbero iniziare ad aprile.

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Il prezzo alle stelle delle uova è considerato un segno evidente dell’ondata inflattiva che ha colpito gli USA negli anni di Biden. Il problema, che arriva a far mancare del tutto le uova negli scaffali dei supermercati americani, deriva anche dall’abbattimento massivo di volatili per l’isteria dell’influenza aviaria, che ciclicamente per mesi e anni è stata lanciata da stampa ed autorità USA come un nuovo COVID in arrivo.   Altri ritengono che si tratti di una scarsità programmata, quasi un’operazione di sabotaggio, tra le altre, che hanno colpito il settore alimentare americano.   Come riportato da Renovatio 21, negli scorsi anni si è registrata una strana serie di incidenti ad impianti di produzione alimentare e grandi fattorie degli USA.

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Economia

Trump è peggio del COVID: lo dice il vicepresidente BCE

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Washington sotto la presidenza di Donald Trump ha creato più «incertezza» della pandemia di COVID-19, ha affermato Luis de Guindos, vicepresidente della Banca Centrale Europea (BCE).

 

L’eurofunzionario ha rilasciato queste dichiarazioni in un’intervista al Sunday Times, durante la quale ha deplorato l’uso delle tariffe da parte di Trump, nonché i piani per riformare le imposte sulle società e deregolamentare il sistema finanziario. Le azioni della nuova amministrazione statunitense hanno causato volatilità a breve termine nei mercati, rendendo al contempo difficili da prevedere le aspettative di inflazione e i tassi di interesse, ha affermato.

 

«Dobbiamo considerare l’incertezza del contesto attuale, che è persino maggiore di quella durante la pandemia», ha affermato il vicepresidente BCE.

 

«Quello che stiamo vedendo è che la nuova amministrazione statunitense non è molto aperta a continuare con il multilateralismo, che riguarda la cooperazione tra giurisdizioni e la ricerca di soluzioni comuni per problemi comuni. Questo è un cambiamento molto importante e una grande fonte di incertezza», ha aggiunto.

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Le preoccupazioni su cosa Trump potrebbe fare in seguito hanno danneggiato anche la fiducia dei consumatori, ritiene de Guindos, notando che l’atteso aumento degli investimenti aziendali e dei consumi delle famiglie non è arrivato. Ha attribuito il declino delle proiezioni di crescita dell’Eurozona alle azioni della nuova amministrazione statunitense.

 

«I salari reali sono aumentati, l’inflazione sta diminuendo, i tassi di interesse stanno scendendo e le condizioni di finanziamento sono migliori. Ma la realtà è che i consumi non stanno riprendendo», ha detto.

 

«Questo perché i consumatori non sempre reagiscono agli sviluppi del loro reddito disponibile reale a breve termine. Considerano anche cosa potrebbe accadere all’economia nel medio termine, che è offuscata dall’incertezza. La possibilità di una guerra commerciale o di un conflitto geopolitico più ampio ha un impatto sulla fiducia dei consumatori», ha aggiunto il funzionario, descrivendo le guerre commerciali come una «situazione in cui perdono tutti».

 

L’aumento tariffario del 25% di Trump sulle forniture di acciaio e alluminio dall’UE è entrato in vigore la scorsa settimana dopo la scadenza delle precedenti esenzioni ed esclusioni. Bruxelles ha già promesso di reagire, promettendo quelle che ha definito contromisure «rapide e proporzionate».

 

La Commissione europea ha condannato i dazi dirompenti e «ingiustificati» di Trump, promettendo di imporre contro-dazi su beni statunitensi per un valore di 26 miliardi di euro a partire da aprile. «I dazi sono tasse, sono cattivi», ha affermato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen quando ha annunciato le misure di ritorsione.

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