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Suicidio

Primo giorno di scuola in era pandemica: 3 adolescenti suicidi in un solo giorno

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Tre ragazzi suicidi in un solo giorno nella sola città di Milano. È il bilancio di questa ripartenza della scuola in era pandemica.

 

Un quindicenne si è gettato nel vuoto dalla sua abitazione al 12esimo piano nella zona Nord del capoluogo lombardo. Altre informazioni  sul caso non sono filtrate.

 

Una ragazzina di 15 anni, sempre nell’hinterland milanese, si è buttata dal settimo piano. I due casi, da quanto noto sinora, non sono collegati.

 

Così come non pare vi sia correlazione con il possibile tentativo di una dodicenne meneghina che si gettata dal balcone e ora è in ospedale in gravi condizioni.

 

I casi magari non sono collegati, i ragazzini non si conoscevano – non si tratta di un dato secondario, poiché è noto che il suicidio può innescarsi in maniera letteralmente epidemica. Vi sono casi di ondate di suicidio che si portano via decine di ragazzi; ci sono anche casi in cui sarebbe possibile indicare gli untori: è stato detto, ad esempio, che la serie Netflix  Tredici potrebbe essere associata ad un aumento del 28,9% dei casi di suicidio tra i giovani americani di età compresa tra i 10 e i 17 anni nel mese di Aprile 2017, in concomitanza con l’uscita della serie.

 

Vi è stata una brutale ondata di suicidi tra gli adolescenti di Las Vegas durante il lockdown, seria al punto – 19 suicidi in 9 mesi – da far riaprire le scuole anche quando si era nel blocco più assoluto.

 

Tuttavia, anche senza conoscersi, anche senza aver consumato gli stessi materiali culturali tossici, senza aver frequentato la stessa scuola (in didattica a distanza…), qualcosa di comune questi ragazzi milanesi lo avevano: hanno passato gli ultimi due anni chiusi in una gabbia, impossibilitati per mesi a vedere gli amici, ad uscire, ad andare a scuola, a vivere la vita che, secondo la legge naturale, dovrebbe spettare ad ogni adolescenza.

 

Un’età irrequieta, un’età di trasformazione, psicologica e biologica.  Un momento delicato.

 

Non ci stupiamo che il cocktail tossico preparato dall’ingegneria sociale pandemica possa aver rovinato la psiche dei ragazzi che crescono, destabilizzandoli sino ad indurli a pensieri di morte..

 

I numeri parlano chiaro: ad esempio in Inghilterra, solo 25 minori  sono morti di COVID, mentre centinaia sono morti per suicidio e trauma.

 

Negli USA invece parlano di un tasso di suicidi infantili che nel biennio pandemico è cresciuto del 1000%: 10 volte.

Negli USA invece parlano di un tasso di suicidi infantili che nel biennio pandemico è cresciuto del 1000%: 10 volte

 

Come riportato in questi mesi da Renovatio 21, anche in Italia i problemi di salute mentale presso gli adolescenti si sono fatti consistenti, travolgendo non solo le famiglie ma interi reparti ospedalieri.

 

Secondo alcune grida di allarme lanciati dagli stessi dottori, sono crescita vertiginosa anche i disturbi alimentari, che hanno abbassato l’età della malattia: in tempo di lockdown, dicono negli ospedali italiani, si stanno vedendo ricoveri per bambine anoressiche di 8 anni

 

Come scrivono Roberto Dal Bosco ed Elisabetta Frezza in un articolo di inizio anno per Renovatio 21I nostri figli pandemici: malati, violenti, suicidi. Ecco il Signore delle Mosche»)

 

«Vanno ripetendo, nel mentre, che il COVID non colpisce i più giovani. È vero invece il contrario, il COVID colpisce soprattutto i più giovani, anzi, probabilmente è stato concepito per loro, per renderli malati, violenti, suicidi. Per annichilire il futuro…»

 

«Se gli si toglie l’istituzione deputata a transitarlo nel consesso sociale sotto il controllo adulto, allora formerà la tribù e ad essa disperatamente si aggrapperà consacrandosi al demone della violenza che la civiltà è chiamata a esorcizzare».

 

La follia pandemica è il vero combustibile di queste mostruose ondate di sucidi

«L’aggressività scaturita dalla clausura forzata non si dirige soltanto verso l’esterno si scaglia anche contra se: sfoghi improvvisi e apparentemente immotivati; disturbi del sonno; regressione fisica e psichica; rapporti incrudeliti con compagni e professori; masse di ragazzine piombate nell’anoressia».

 

L’immane pressione a cui è sottoposto il mondo entra nei nostri ragazzi, e in mancanza di sfogo esterno, può può che diventare autodiretta.

 

La follia pandemica è il vero combustibile di queste mostruose ondate di sucidi.

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Suicidio

Comportamenti suicidari aumentati di oltre il 50% a causa dei lockdown: studio catalano. Giovani donne e i minori si più colpiti

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Un nuovo studio suggerisce che l’ideazione e i tentativi di suicidio sono aumentati significativamente nella regione spagnola della Catalogna a causa della pandemia.

 

Lo studio, pubblicato su Lancet Psychiatry, esamina i dati degli ospedali catalani in tre periodi: pre-lockdown (dal 1° gennaio 2018 fino all’attuazione del lockdown spagnolo il 14 marzo 2020), lockdown (dal 14 marzo 2020 al 21 giugno 2020), e post-lockdown (dal 21 giugno 20202 al 31 dicembre 2022).

 

I risultati mostrano un modesto aumento dell’ideazione e dei tentativi di suicidio nel periodo pre-lockdown, seguito da una riduzione durante il lockdown, e poi un aumento del 50,77% dopo la revoca del lockdown.

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«La riduzione iniziale durante la quarantena rigorosa può essere spiegata, tra l’altro, perché le persone hanno meno accesso ai metodi di suicidio”, ha spiegato l’autore principale dello studio, il dottor Víctor Serrano-Gimeno, secondo MedicalXpress. «E il successivo aumento dopo il blocco riflette fattori complessi, tra cui l’isolamento sociale e le sfide economiche».

 

La revoca del lockdown ha portato a un aumento significativo dei comportamenti suicidari non letali tra le donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni e tra i minori di 18 anni di entrambi i sessi.

 

Gli autori dello studio notano che gli effetti psicologici potenziali e reali del lockdown non sono stati adeguatamente presi in considerazione da esperti e politici.

 

Il dottor Narcís Cardoner ha spiegato che «è interessante notare che durante la pandemia, la salute fisica è stata decisamente prioritaria. E tutte le strategie, ad esempio il lockdown stesso, miravano a ridurre il rischio che le persone venissero infettate dal virus. Ma sapevamo che l’impatto di queste situazioni sarebbe andato oltre. E si parla sempre di quarta ondata, che è il problema della salute mentale. E sembra che fossimo in qualche modo ignari di questa situazione».

 

«Dati come quelli derivati ​​da questo studio dicono che la salute fisica è molto importante, ma non c’è salute senza salute mentale, e sarebbe stato essenziale prevedere alcune misure per questi impatti».

 

Numerosi studi hanno rivelato i profondi effetti psicologici delle restrizioni sociali della pandemia, in particolare su gruppi demografici vulnerabili come bambini e adolescenti. Uno studio ha dimostrato che lo stress della pandemia ha fatto invecchiare il cervello degli adolescenti di tre anni in soli dieci mesi.

 

I livelli di ansia e depressione tra i bambini e gli adolescenti sono aumentati vertiginosamente durante la pandemia. Una meta-analisi di 29 studi separati condotti in Asia, Europa, Americhe e Medio Oriente ha mostrato che i sintomi di depressione e ansia sono raddoppiati nei bambini e negli adolescenti durante la pandemia. Gli adolescenti e le ragazze più grandi, in particolare, hanno sperimentato gli aumenti più significativi dei sintomi.

 

Come riportato da Renovatio 21, i suicidi sarebbero aumentati del 30% durante il COVID in USA, secondo dati del Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Il 30% delle ragazze delle scuole superiori negli Stati Uniti che sono state intervistate a inizio anno dal CDC aveva affermato di aver «seriamente preso in considerazione il tentativo di suicidio» nel 2021, rispetto al 19% nel 2011.

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Uno studio di FAIR Health che rilevava come un bambino avesse 10 volte più probabilità di morire per suicidio che non per COVID; l’anno prima era emerso che forse 25 erano morti di COVID, centinaia erano morti invece per suicidio e traumi.

 

In Gran Bretagna, per 25 bimbi morti di COVID, centinaia sono morti per suicidio, per non parlare o del ritardo di sviluppo che ora affligge i bambini, con 60 mila piccoli (sempre dato inglese) finiti in depressione e altre decine di migliaia nemmeno in grado di riconoscere i volti o di dire il proprio nome.

 

Nel caso specifico dell’Italia, vi fu un +75% di casi di tentato suicidio di bimbi rilevati dall’ospedale Bambin Gesù, e scioccanti i multipli casi di suicidio pediatrico riusciti, lo stesso giorno, e senza correlazione tra le giovani vittime avvenuti durante il primo giorno di scuola.

 

Jay Bhattacharya, professore di medicina della Stanford University, aveva affermato che negli anni a venire i lockdown saranno considerati la politica più catastroficamente dannosa di «tutta la storia».

 

È il caso di ripetere quanto già si diceva anni fa: i lockdown potrebbero aver ucciso più del COVID. Ogni mese che passa si avvicina al momento in cui tutta la popolazione riconoscerà che gli autori della Dichiarazione di Great Barrington avevano ragione.

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Eutanasia

La CEDU nega il diritto al suicidio assistito in Europa

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Il Centro Europeo per il Diritto e la Giustizia (ECJL) pubblica un articolo dettagliato di Grégor Puppinck su una sentenza emessa il 13 giugno 2024 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) relativa al fine vita. Questo è il caso storico e di mediaticizzato Karsai vs Ungheria. L’ECLJ è intervenuto in merito ed è stato autorizzato a presentare osservazioni scritte.   Dániel Karsai è un avvocato ungherese specializzato in diritto costituzionale e diritti umani, ex membro della CEDU. Nel 2022, all’età di 45 anni, gli è stata diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica (SLA o malattia di Charcot). Ha intentato causa contro il governo ungherese dinanzi alla CEDU per poter porre fine alla propria vita.   L’ex giurista auspicava che l’evoluzione della giurisprudenza potesse riconoscere un «diritto» al suicidio assistito «ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo». Secondo il ECJL, «sulla base dei precedenti della Corte negli ultimi quindici anni», questa speranza era fondata, ma è stata delusa. Infatti, la Corte ha confermato le sue misure passate.   Il quesito posto alla CEDU riguardava «l’eventuale obbligo degli Stati di legalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito in virtù del diritto al rispetto della vita privata» e la risposta è stata negativa. Le considerazioni sono interessanti: in primo luogo per «le implicazioni sociali e i rischi di abusi ed errori che l’assistenza medica alla morte comporta [che] pesano molto sulla bilancia».   Inoltre, ha riconosciuto «il notevole margine di discrezionalità» degli Stati «tenendo conto della natura morale ed etica molto delicata della questione e del fatto che la maggioranza degli Stati membri continua a vietare tale pratica penalmente». Ciò implica che gli Stati «possono continuare a proibirle penalmente e persino perseguire le persone coinvolte in queste pratiche all’estero contro i propri cittadini».   Infine, «la Corte ha sottolineato l’importanza e la necessità di “cure palliative di qualità”», che ha definito «essenziali per garantire un fine vita dignitoso». Questa è la prima volta che «la Corte pone così tanta enfasi sulle cure palliative nella sua giurisprudenza relativa alla fine della vita e le presenta come soggette agli obblighi positivi degli Stati», osserva Grégor Puppinck.  

«Diritti umani» che devono evolversi con la società

La Corte, tuttavia, ha concluso affermando che la questione deve rimanere aperta «tenendo conto dell’evoluzione delle società europee e degli standard internazionali di etica medica in questo delicato settore». Il che lascia aperta la possibilità futura di giudicare diversamente.   Grégor Puppinck commenta: ciò «illustra la tendenza della CEDU a distaccarsi dal testo della Convenzione e a giudicare secondo l’evoluzione della legislazione, cioè lo stile di vita attuale». E continua: «È pericoloso per i diritti umani vedere il loro contenuto e la loro tutela dipendere dall’evoluzione delle mentalità e delle legislazioni».   Un «approccio evolutivo» che va contro il ruolo assegnato ai diritti umani, «nato per stabilire principi intangibili che permettano di giudicare l’accettabilità delle varie pratiche e legislazioni», e per porre un limite alle pratiche e agli sviluppi, anche adottati da una maggioranza, anziché conformarsi ad essi per consacrarli. E conclude: «l’approccio evolutivo adottato dalla Corte porta a considerare che il suicidio assistito è un diritto umano a seconda del numero di paesi che lo hanno legalizzato, il che è filosoficamente assurdo».   Con una certa sorpresa, l’autore aggiunge che «se gli Stati vogliono fare dell’eutanasia e del suicidio assistito un diritto umano garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, spetta a loro modificarlo in base ai risultati. Solo loro hanno il diritto legale di farlo, anche se questa scelta resta discutibile dal punto di vista etico».   Ma questa capacità evolutiva, che fa passare da vietata a consentita una pratica condannata dalla legge naturale e dalla Chiesa – interprete autorizzata di questa legge naturale, e depositaria della rivelazione divina che condanna tale pratica – mostra la vacuità di questi «diritti umani».   Il diritto umano che non sia sostenuto dal diritto divino – naturale o rivelato – è soggetto alle raffiche del secolo e gira a seconda del vento come una banderuola. Pio XII, nel Discorso ai membri dell’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato, il 15 luglio 1950, lo spiega con la consueta profondità e precisione:   «Secondo Platone “Dio è per noi innanzitutto la giusta misura di tutte le cose, molto più di quanto possa esserlo qualsiasi uomo”. Proprio questo pensiero, insegna anche la Chiesa, ma in tutta la pienezza e la profondità della sua verità, quando dichiara con san Paolo che ogni paternità deriva da Dio (Ef 3,15), afferma di conseguenza che, per regolare i reciproci rapporti all’interno della grande famiglia umana, ogni diritto alla sua radice nella Dio».   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Gzen92 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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Gender

Chi si sottopone alla chirurgia di «riassegnazione di genere» ha un rischio di suicidio 12 volte maggiore

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Le persone che si sottopongono a un intervento chirurgico di riassegnazione di genere hanno un rischio 12 volte maggiore di tentare il suicidio, oltre a soffrire di altri problemi di salute mentale come disturbo da stress post-traumatico e autolesionismo. Lo sostiene un nuovo studio uscito sulla rivista medica Cureus.

 

La ricerca condotta da scienziati dell’Università del Texas mostra che sottoporsi al cosiddetto «cambio di genere» – operazioni in cui i genitali del paziente vengono riorganizzati chirurgicamente unito ad un regime di terapia ormonale – comporta rischi significativi, potenzialmente mortali.

 

«È in corso una controversia sui benefici della chirurgia per l’affermazione di genere sulla salute mentale» scrivono i ricercatori.

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Lo scopo dello studio era quello di esplorare il rischio di «esiti avversi» – suicidio, morte, autolesionismo e disturbo da stress post-traumatico – nei cinque anni successivi alla riassegnazione di genere, confrontando i tassi tra diverse popolazioni.

 

I ricercatori hanno utilizzato il database di informazioni sanitarie TriNetX e hanno identificato una popolazione totale di 15.609.864 pazienti adulti da includere nel loro studio.

 

I risultati hanno mostrato aumenti significativi del rischio di tutti gli «esiti avversi» per gli adulti sottoposti a riassegnazione di genere nei cinque anni successivi all’intervento.

 

«I pazienti che avevano una storia di interventi chirurgici per l’affermazione di genere avevano un rischio 12,12 volte maggiore di tentativi di suicidio (…) rispetto ai pazienti che non avevano una storia di interventi chirurgici per l’affermazione di genere» scrivono gli autori dello studio.

 

«Nei pazienti con una storia di interventi chirurgici per l’affermazione di genere, c’era un rischio 3,35 volte maggiore di essere deceduto (…) I pazienti con una storia di interventi chirurgici per l’affermazione di genere avevano un rischio 9,88 volte maggiore di autolesionismo o suicidio» continua il paper.

 

«Infine, i pazienti che avevano un una storia di interventi chirurgici per l’affermazione di genere aveva un rischio 7,76 volte più elevato di disturbo da stress post-traumatico» dichiarano gli scienziati, i quali, va notato, nonostante i risultati scioccanti, continuano raccomandare l’uso della chirurgia di riassegnazione di genere, suggeriscono una migliore fornitura di servizi sanitari, in particolare trattamenti di salute mentale, per le persone che si sottopongono a tali procedure, per garantire che la loro sofferenza sia ridotta al minimo.

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Come riportato da Renovatio 21, malgrado all’apparente, timido ritorno alla ragione da parte di alcuni Paesi, l’isteria intorno alla chirurgia transgender continua, al punto che in Gran Bretagna l’autrice di un rapporto sanitario sulla medicina transessualista ora riceva la protezione della polizia. Nelle stesse settimane, l’associazione medica britannica Chartered Society of Physiotherapy (CSP) ha rilasciato dichiarazioni in cui giura di voler «eradicare» la transfobia.

 

Sotto anche la spinta delle celebrità cinetelevisive, che paiono avere per qualche ragione un grandissimo tasso di prole transessuale, negli USA la chirurgia gender è in drammatico aumento, così come le terapie ormonali, nonostante le leggi che vari Stati stanno varando per mettere al riparo da essa almeno i minori.

 

In Nordamerica si è avuto il caso di un cittadino trans canadese che aveva chiesto al suo governo di pagargli un’operazione, condotta negli USA, piuttosto estrema, anche se non inedita: una vaginoplastica che conservasse però il pene, di modo che l’uomo disponga di ambo gli organi sessuali, o di una qualche versione di essi.

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