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Il ridicolo residuo del mondo pro-life italiano. Perché non andare alla «Manifestazione per la Vita»

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Sabato 22 maggio si terrà a Roma una «Manifestazione per la Vita». Non si tratta della Marcia per la Vita, che ha mollato il colpo. Gli organizzatori sono altri. Il marchio, che era registrato, non è evidentemente stato ceduto.

 

Chiariamo subito che con probabilità arriverà una marea di gente, perché da quel che apprendiamo saranno mobilitati i neocatecumenali, che se c’è una cosa di cui dispongono è il grande numero, e son ben presenti in quantità di parrocchie della periferia romana e non solo.

 

Le debordanti masse neocat arriveranno, qualcuno scrive, per la presenza di una figura d’eccezione del loro movimento, il Massimo Gandolfini, signore fattosi largo nelle proficue battaglie per la famiglia e contro il gender, che tanti frutti hanno portato, come il lettore può aver visto costantemente.

 

Il verbo del Gandolfino lo potete leggere, talvolta, sul quotidiano La Verità: i suoi scritti hanno la fotina con un sigaro in bocca, ma a volte, come diceva Sigmund Freud, un sigaro è soltanto un sigaro. Non pensate però di poter trarvi fuori dai fumi dell’enigma politico catecumenale, perché, sapete bene che si può essere del «Cammino» e pure del PD, come dicono che sia Graziano Del Rio. Non fa una grinza.

 

Per il resto, non abbiamo idea di cosa succederà alla «Manifestazione per la Vita» (si chiama proprio così: grandi originalissimi sforzi di copywriting!): perché, in questo momento non abbiamo importante seguire, perché – come avevamo scritto a varie riprese l’anno passato – crediamo che l’aborto sia oggi uno specchietto per le allodole, un’arma di distrazione di massa per il microgregge dei voti cattolici e, gratta gratta, per i vescovi, che, in stile Padre Pizarro, devono capire ancora quanti son quelli a cui vagamente paiono importare quelle cose lì, tipo il dono della vita umana e altre quisquilie da fissati.

 

Nell’ora presente la lotta all’aborto è retroguardia pura, anzi non è nemmeno quello: è una droga, una sostanza narcotica per annebbiare la mente della popolazione – in ultima analisi, per controllarla.

 

Come si può parlare di lotta all’aborto, quando esso è stato distribuito a miliardi di persone per tramite della vaccinazione? E non solo moralmente: le cellule MRC-5 sono presenti nelle fiale obbligatorie (da prima della pandemia…) con cui siringare i vostri figli, pena l’esclusione dalla materna.

 

Come si può parlare di lotta all’aborto, quando il maggior numero di embrioni uccisi arriva dalla provetta? Come si può parlare di difesa della Vita quando ciascun bambino sintetico (grazie ad un ministro-mamma di un partito vescovile), pagato dal contribuente, comporta decine di fratellini morti, scartati, congelati? Notate come tuttora la FIVET, per i cattolici sedicenti pro-life, sia tabù.

 

Come fate a parlare di aborto, quando dietro l’angolo ci sono le stragi degli embrioni eliminati perché non perfetti, non perfettamente riusciti nella bioingegneria?

 

Come si può parlare di lotta all’aborto, quando in questo stesso momento vi sono ratti di laboratorio che vengono «umanizzati» chirurgicamente immettendo nel loro corpo organi di feti abortiti «freschi, mai congelati»? (Pensavate la scienza si fermasse alle linee cellulari diploidi da aborto?) Come pensate di essere credibili, se non avete messo la mente nemmeno per un momento sulla questione di feti sacrificati alla scienza, o ancora meglio, sulla moralità del sistema farmaceutico – e dei farmaci di uso comune stessi – che ne deriva?

 

Come fate a parlare di aborto, quando nei frigoriferi delle cliniche ci sono milioni di embrioni (cioè, tecnicamente, esseri umani) congelati in azoto liquido, che quindi non sappiamo dire (biologicamente, bioeticamente, teologicamente, materialmente, umanamente) se siano creature vive o siano morti?

 

Semplice: lo si fa per pratica dello stalking horse: l’obbiettivo su cui far concentrare il fuoco mentre si manovra altrove. La Necrocultura infetta il mondo, porta ogni angolo della scienza e della società verso la morte e il vilipendio dell’essere umano Imago Dei. Se noi concentriamo l’attenzione delle masse su questa fase iniziale dello slittamento, abbiamo buone probabilità di lasciare che la Cultura della Morte segua il suo corso, chi di dovere faccia i suoi affari, e il sacrificio umano possa continuare.

 

Ti parlano dell’aborto per narcotizzarti rispetto al sacrificio umano oramai reinstallato universalmente.

 

Possibile.

 

Il fatto è che a questa «Manifestazione» non siamo sicuri che si parli esattamente di aborto, almeno non in senso pragmatico. Nel manifesto non troviamo cenno della legge 194/78, cifra che ha ossessionato i pro-life italiani (mentre intanto gli mettevano bambini morti nei vaccini e si iniziava la produzione di esseri umani in alambicco con relativa strage).

 

Il motivo per cui manchi questo numero magico non lo sappiamo: forse, ma siamo noi che la buttiamo là, è perché una grossa fetta di mondo sedicente pro-life istituzionale (quanti parlamentare così conosciamo! Quanti medici «cattolici»!) in fondo ritiene la 194 una buona legge ma «mal applicata». Del resto l’ha varata un governo democristiano, e si chiama per esteso «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza» (se pensavate che avessero cominciato a orwellizzarvi il cervello con i titoli su COVID e Ucraina, state freschi).

 

Parlare contro la 194 è «divisivo». Parlare contro l’aborto, no. E infatti, trovatemi un esponente PD che non usi la frase di rito per cui «l’aborto è sempre una sconfitta» – però lasciate libera la gente di uccidere i bambini. È la lagna pro-choice: nessuno è felice di scegliere l’uccisione per squartamento di suo figlio, ma ci tocca, è una scelta che il mondo moderno non può negarti. (Del resto, lo slogan della «Manifestazione», dice qualcuno, sa vagamente di pro-choice: la «Scelta della Vita», perché la Vita si sceglie, certo che sì, come una canzone romantica su un juke box ancora misteriosamente in uso al bar).

 

Non che poi di scelta ce ne sia tantissima: sul sito vediamo che ci sono pronti i file con i cartelloni da stampare. In pratica, cosa dire alla kermesse, te lo dicono loro. È un salto in avanti previdente rispetto alla marcia dell’anno scorso, quando, come sa il lettore di Renovatio 21, ad un signore chiesero di togliere il cartello su vaccini e aborto. Pensate la comodità: frasi già fatte (sull’obiezione di coscienza, sui diritti umani, l’inevitabile combo di citazioni di Papa Francesco, più «la vita inizia col concepimento», bambini prodotti in vitro esclusi, par di capire) che potete stampare a vostre spese per sfilare come figuranti di questa grande parata, per la gioia di fotografi e social network.

 

Se continuiamo a dare un’occhiata al sito, troviamo infatti discorsi sull’aborto come ferita «alla donna per la maternità negata, all’uomo per la paternità svilita, alla famiglia per l’accoglienza fallita; alla società»… insomma, tutti feriti nell’animo, tranne i bambini fatti a pezzi, che non vengono citati: ci sa che l’aborto ferisce soprattutto loro, che vengono assassinati, frullati vivi, magari poi gettati nella spazzatura, usati nei termovalorizzatori per scaldare l’ospedale, sparati giù nel cesso di casa per essere mangiati dai topi di fogna, sezionati da personaggi che poi vendono i tessuti alla ricerca medico-farmaceutica. Di loro non si parla. No.

 

Però nel sito si parla di «uno sguardo privilegiato verso le donne», perché ci mancherebbe altro, il segno di obbedienza all’impero femminista va dato sempre e comunque – del resto non sono le donne, o quel che ne resta dopo un lavoro di perversione che dura da secoli,  quelle che uccidono i loro figli.

 

Insomma, la solita solfa abortista: si parla delle donne, degli adulti etc., ma mai dei bambini materialmente trucidati. È una tecnica precisa: spostare l’attenzione, cambiare la vittima – che in realtà è il carnefice…

 

Notiamo anche il riferimento al «figlio concepito» come «uno di noi», espressione che tradisce molto: era il nome di una fallimentare operazione in seno all’Europa di un potente politico del pro-lifismo istituzionale, che mirava a dare diritti agli embrioni – ma ciò significava, essenzialmente, dare la patente democratica agli embrioni prodotti artificialmente, creature per le quali il tizio tanto si era spesso durante la sua lunghissima carriera, arrivando a certificare per legge – la 40/2004 – l’accettazione del mondo cattolico verso i bambini sintetici.

 

Qui ci tocca di dire una cosa forte.

 

In tutto il manifesto della «Manifestazione» riecheggia borioso il termine «diritto alla vita»: «La civiltà orientata al futuro e al progresso, ha a cuore i diritti umani. Primo fra tutti il diritto alla vita» è l’attacco tronfio del documentino.

 

Ebbene, noi riteniamo che non esista alcun «diritto alla vita».  Nessuno. Sul serio. I diritti sono questioni politiche, sono questioni umane. Sono affari su cui è lecito decidere, accordarsi. Il diritto al lavoro. Il diritto allo studio. Il diritto alla libera associazione. Il diritto alla libera espressione. Tutti definibili «diritti umani», tutti infatti infranti negli ultimi due anni.

 

La vostra vita credete che sia un diritto? Procede dalla scelta di un politico? Credete che la vita vi appartenga veramente? No. Non l’avete decisa voi, e neppure in fondo i vostri genitori, che magari volevano o non volevano «un bambino», non voi, non quello che siete in modo unico ed indescrivibile.

 

La vita non può essere un diritto che non procede da cose umane, ma dal Mistero – se non vogliamo dire «Dio», diciamo così, il laico potrà capire benissimo. Il motivo per cui siete qui, è il Mistero più totale. È illeggibile, irragionevole, per alcuni incomprensibile, di certo insondabile con pensieri umani. Voi non sapete davvero perché siete qui. Ecco, crediamo dunque sia possibile legiferare sul Mistero? Imbrigliare il Mistero in una giurisprudenza? Parlare davvero, senza ridere, di un «diritto dell’Essere»?

 

Non si tratta solo di una questione filosofica: aggiungiamo che abbiamo notato negli anni come chi da parte cattolica ti parlava di «diritto alla vita» in realtà, sotto sotto, stava aprendo la strada alla riproduzione artificiale più selvaggia, magari proponendo pure l’adozione di embrioni congelati da parte di suore – cioè, impiantare bambini sintetici nel grembo di religiose. (Stiamo rabbrividendo ancora oggi a pensarlo: eppure chi lo propose era un uomo dei vescovi).

 

Non solo: il «diritto alla vita», statene certi, sarà l’espressione con cui vi venderanno l’ectogenesi, cioè l’utero artificiale, in arrivo da qui a 10 anni.

 

Chi ci ha parlato di «diritto alla vita» stava in realtà mettendoci di fronte al fatto compiuto della biotecnologia galoppante: stava, cioè, favorendo l’emergenza di questa nuova razza di creature umane, di cui forse parla anche l’Apocalisse.

 

Ora, cercate di capirci: ne abbiam viste talmente tante, che sappiamo come vanno queste cose. L’opinione pubblica va aiutata a digerire la Necrocultura, a grandi dosi i laici, a piccole dose omeopatici i cattolici.

 

E se ci chiedete: come è stato possibile che il movimento pro-life in Italia, Paese teoricamente religioso, finisse in questa deriva? Noi vi rispondiamo che non si tratta di una deriva, ma di una progressiva sfoltitura operata dall’impatto della realtà su chi diceva di voler combattere la battaglia per la vita, ma invece sognava il compromesso.

 

C’era un grande movimento antiabortista in Italia, ma si era capito subito che voleva accordarsi con il corso satanico intrapreso dal mondo. Per decenni non ha fatto nulla, se non qualche volantino o poco più, magari con i soldi vescovili dell’8 per mille. Alla fine degli anni 2000, con appena una trentina di anni di ritardo, qualcuno – grazie anche alle incongruenze della legge 30/2004 e a pressioni esterne di strani intellettuali laici – cominciò a borbottare.

 

Un primo nodo era venuto al pettine: non si poteva dire di voler difendere la vita accordandosi al sistema che, di fatto, aveva accettato l’aborto come «Male minore», cioè aveva raggiunto un compromesso di sangue con il potere costituito.

 

Ecco che si creò un movimento pro-life nuovo, nato in opposizione all’istituzione democristiana precedente. Anche lì, dopo qualche anno, con l’avvento del papato ricombinante di Bergoglio venne un nodo al pettine: poteva sembrare che alcuni animatori cominciassero ad avere simpatie per personaggi abortisti, del tipo «la 194 è una buona legge, mal applicata» etc. Vi fu quindi un’ulteriore scrematura.

 

Infine, arrivò il COVID, che fece scoprire come il principale evento pro-life italiano avesse come primo fiancheggiatore uno che riteneva perfettamente lecita la vaccinazione con sieri macchiati dall’aborto. Ulteriore nodo che viene al pettine. Non restano capelli. Calvizie totale. Il mondo pro-life infine resta pelato.

 

Il mondo pro-life non ha retto l’urto della realtà – specialmente quella pandemica, che ci ha obbligati tutti a riconoscere come l’aborto non sia una questione di donne, leggi ed ospedali, ma di mostruosità abnorme che tocca tutte le nostre vite, trapassandoci pure la pelle. L’aborto è stato distribuito all’umanità intera, con un rito che fa impallidire quello dell’imperatore del IV secolo che faceva bruciare appena un granello di incenso – ai vaccinati, hanno fatto accettare l’uso del sacrificio umano a scopo medico-scientifico-politico.

 

Perché si è squagliato tutto? Le risposte non sono troppe. Innanzitutto, significava con evidenza che un vero fondamento per la battaglia per la vita non c’era: si sono piegati tutti, nessuno si è spezzato, e questo dice tutto. Soprattutto, crediamo che la colpa sia dei preti e dei vescovi, o meglio, della loro vicinanza: i cattolici pro-life, senza eccezioni, hanno sognato tutti e molto spesso ottenuto l’appoggio degli zucchetti CEI, convinti che questo servisse a qualcosa, oppure per puro senso di inferiorità parrocchiale (lo dice il prete, io obbedisco subito!).

 

E cosa hanno fatto , i vescovi italiani? Quello che fanno sempre: vogliono il compromesso. Odiano il baccano, la tensione politica: altrimenti qualcuno comincia di parlare di tasse sulle proprietà ecclesiastiche e di fine dei finanziamenti alle scuole private. E quindi, i loro soldatini sedicenti antiabortisti, sono sempre stati indotti al disarmo, immediato o lento ed inesorabile che fosse: abbiamo visto ambo le cose.

 

Il democristianismo, che è la perversione del cristianesimo che ci fa credere alla moralità del compromesso.  è ciò che uccide ogni vera lotta per la vita, perché la vita di compromessi non può per logica averne: o il bambino vive, o muore.

 

(Sì, è vero, adesso c’è anche il caso del bambino congelato, vero: forse abbiamo trovato il motivo per cui piace tanto ai manovratori cattolici)

 

In Francia, per esempio, il movimento pro-life aveva personaggi come Xavier Dor, che durante una messa, presente il presidente della Repubblica a Notre Dame, urlò in un momento di silenzio «Giscard D’Estaing abortista assassino». In Italia abbiamo avuto invece le spintarelle dei religiosi a fare l’occhiolino a Pannella e alle femministe, a seguire le vie del compromesso storico col Partito Comunista – divenuto gradualmente un partito della Necrocultura – anche sulla pelle dei bambini innocenti. (E poi, quando quelli come Dor venivano a Roma, trovavano gli ierofanti dei vescovi che li introducevano alle gerarchie, che le schiere di pro-life stranieri, ottusamente, pensano che siano dalla loro parte: un lavoro di normalizzazione niente male).

 

Ora, dopo mesi in cui senza accettazione implicita dell’aborto a scopo farmaceutico di fatto non potevi più lavorare o andare in pizzeria, il compromesso con la Morte è impossibile da dissimulare, da cosmetizzare, da nascondere.

 

Quindi, non è rimasto più nulla del mondo pro-life, se non questo residuo, a tratti ridicolo – ci dicono che tra gli organizzatori vi sono associazioni che hanno fatto eventi in cui si chiedeva il green pass, un segno entusiasmante per chi vuole lottare a favore della vita nascente, a parte quella dei feti ammazzati per far funzionare, di fatto, la carta verde. (Fate uno sforzo, su: ci potete arrivare tutti a comprenderlo)

 

Vi diciamo quindi: non andate ad eventi così.

 

Se non bastasse tutta l’intima tirata storico-filosofica qui sopra, aggiungiamo un ulteriore disincentivo concreto.

Abbiamo detto, in apertura, che vi saranno molti, moltissimi neocatecumenali. Fossi uno che va a Roma domani, potrei temere che a sorpresa, sul palco, possa materializzarsi il loro dominus, l’artista spagnuolo Kiko Arguello.

 

Nel 2015 il Kiko si presentò al famoso Family Day, altro mega-evento democristiano di cartapesta organizzato più o meno dal medesimo giro di domani, evento che all’epoca definimmo in un articolo, non senza precognizione, come un «Golpe neocatecumenale sul mondo pro-life».

 

Ebbene, quello dell’Arguello fu l’ultimo intervento. Tra la folla di adepti in deliquio, si lanciò in un’omelia in itagnuolo memorabile:

 

«Questo del femminicidio, oggi stesso parla la dogna de quello che l’anno scorso ha ucciso due bambine bellissime, è sta-è stato trovato, cercato da tutta la polizia in Svizzera, e se sapeva che l’aveva rapito, no s’hanno trovata, trovato, e sappiamo che si ha ucciso. Ecco, sta-adesso c’è un, en Espagna c’è un macello, un uomo che ha ucciso cinque bambini, si chiama B e sta in carcere, eccetera. Tante, tante casi de questo tipo, donne uccise».

 

«Ma vi dico una cosa: dicono che questa violenza de genero è a causa della dualità maschio-femmina. Bene, noi diciamo che non è così. Questo uomo ha ucciso i bambini per un’altra ragione: porqué si questo uomo è un laico, è un secolarissato, ateo che ha lasciato de praticare, non va a Messa, il suo essere persona chi ce lo dà? L’amore della moglie». (Trascrizione dell’Osservatorio sul Cammino Neocatecumenale secondo Verità)

 

Tale importante discorso sulla «violenza de genero» (ma non era il marito?) non fu tuttavia la parte peggiore della performance del Kiko.

 

Perché ad una certa, quegli tirò fuori la chitarra e cominciò a schitarrare senza pietà uno dei suoi brani di folk apocalittico catto-iberico, e dovete immaginarvi più o meno i Gypsy King che rileggono l’Apocalisse di San Giovanni.

 

La massa principale degli spettatori, famiglie neocatecumenali chiamate col fischietto, era in estasi. Alla manifestazione, però, erano accorsi anche moltissimi altri cattolici un po’ ingenui, anche di area tradizionalista o perfino di estrema destra. Alcuni di essi erano miei lettori, e molti mi avevano accusato: non andare al Family Day era da bruti senza cuore, non è questo il momento di fare distinguo, viva l’unità dei cattolici, la divisione la porta il diavolo, che in greco si dice diabàllo, colui che divide, e via di diaballisimo… Tanti messaggini che mi mandavano avevano questo tono e questi contenuti.

 

Tuttavia quel giorno, ad un certo punto, cominciarono ad arrivarmi serque di SMS da lettori improvvisamente perplessi. «Dottor Dal Bosco, ma chi è sto tizio?»

 

«Roberto, spiegami, ma cosa sta facendo?!? Canta? Cosa Canta?»

 

«Signor Dal Bosco, ma cosa sta succedendo?»

 

Messaggi a cascata, sempre più sconvolti. I ragazzi cercavano di fuggire dalla scena, prigionieri d’un colpo d’una Cambogia di corpi neocatecumenali ondulanti. Una situazione disperata.

 

Accesi il PC di casa e mi collegai ad uno streaming, e vidi tutto: era iniziata l’apoteosi neocatecumenale finale del Family Day, il numero musicale del Kiko. I profani erano allibiti, increduli. Le masse neocat gioivano e saltellavano, ad un passo dallo scatenare un pogo come neanche ai concerti dei Metallica degli anni andati.

 

In quel momento mondo cattolico, pro-life e pro-famiglia, sembrava a me, ma soprattutto ai poveri testimoni oculari che mi messaggiavano in cerca di spiegazioni, qualcosa di grottesco, di ridicolo fino all’incomprensibile.

 

Eravamo circondati: tamburelli, chitarre, nacchere, urletti spagnoleggianti: «lalalallaaaaaah».

 

Non c’è che dire, c’era di che arrendersi. Invece no: chi combatte per la vita umana deve riuscire a sopravvivere anche a questo.

 

È la grande lezione che impariamo invecchiando: lo schifo, il dolore, passano. Solo la Vita è importante. Il vostro tempo, quindi, dedicatelo alla Vita, non ai ridicoli residui di una battaglia che hanno voluto perdere.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Pensiero

Verso il liberalismo omotransumanista. Tucker Carlson intervista Dugin

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Il giornalista americano Tucker Carlson ha pubblicato una potente intervista con il filosofo russo Aleksandr Dugin. La conversazione è stata pubblicata lunedì sul sito Tucker Carlson Network e sul suo canale YouTube.

 

L’incontro è avvenuto durante in viaggio di Carlson a Mosca – città nella quale Dugin gli dà il benvenuto – per la notoria intervista che il californiano ha ottenuto con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin.

 

Come riportato da Renovatio 21, Dugin in un editoriale aveva sottolineato l’intervista di Carlson a Putin come un evento epocale in grado di riunire due anime della società russa, sia quella tradizionalista che quella filo-occidentale. Durante il suo soggiorno a Mosca – dove secondo alcuni sarebbe pure scampato ad un attentato, cosa di cui non vuole parlare – Tucker ha voluto incontrare Dugin, perché, racconta, curioso delle sue idee.

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Nella sua introduzione, il giornalista statunitense – dopo aver detto di credere ai servizi segreti americani quando dicono che la figlia di Dugin, Darja Dugina, è stata uccisa dagli ucraini – racconta di essere interessato a sentire qualcuno i cui libri sono stati proibiti dall’amministrazione Biden: quando lavorava ancora a Fox, Carlson fece un servizio sull’improvvisa sparizione dei libri di Dugin da Amazon, fenomeno notato da Renovatio 21 due mesi prima.

 

Parlando con il filosofo, ha quindi deciso di filmare i discorsi. Secondo Alex Jones, Carlson avrebbe filmato molto materiale, di cui è uscito questo segmento editato.

 

La conversazione pubblicata, della durata di 20 minuti, è stata particolarmente ricca di spunti di pensiero.

 

 

Carlson chiede a Dugin cosa sta succedendo nei paesi di lingua inglese: «gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia hanno deciso all’improvviso di rivoltarsi contro se stessi con questo grande tumulto. E alcuni comportamenti sembrano molto autodistruttivi. Da dove pensa, come osservatore, che provenga questo?»

 

«Credo che tutto sia iniziato con l’individualismo» risponde Dugin. «L’individualismo era una comprensione sbagliata della natura umana, della natura dell’uomo. Quando si identifica l’individualismo con l’uomo, con la natura umana, si tagliano tutti i suoi rapporti con tutto il resto. Quindi si ha un’idea molto particolare del soggetto, del soggetto filosofico come individuo».

 

Qui Dugin offre una visione in linea con quella del tradizionalismo cattolico: «tutto è iniziato nel mondo anglosassone con la riforma protestante e prima ancora con il nominalismo: l’atteggiamento nominalista secondo cui non esistono idee, ma solo cose, solo cose individuali» spiega il filosofo.

 

«Quindi l’individuo, era la chiave ed è tuttora il concetto chiave che è stato posto al centro di un’ideologia liberale e del liberalismo poiché, nella mia lettura, è una sorta di processo storico e culturale, politico e filosofico di liberazione, dell’individuo, di qualsiasi tipo di identità collettiva, collettiva o che trascenda quella individuale».

 

«Tutto è iniziato con il rifiuto della Chiesa cattolica come identità collettiva, dell’impero, dell’impero occidentale come identità collettiva. Successivamente si è trattato di una rivolta contro uno Stato nazionalista come identità collettiva a favore di una società puramente civile. Dopo quella guerra, nel XX secolo ci fu la grande battaglia tra liberalismo, comunismo e fascismo. E il liberalismo ha vinto ancora una volta. E dopo la caduta dell’Unione Sovietica è rimasto solo il liberalismo».

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«Francis Fukuyama ha giustamente sottolineato che non esistono più ideologie all’infuori del liberalismo… il liberalismo, cioè la liberazione degli individui da ogni tipo di identità collettiva» spiega Dugin, citando il politologo noto negli anni Novanta per la nozione di «fine della Storia» a seguito del crollo del blocco sovietico.

 

«Erano rimaste solo due identità collettive da cui liberarsi: l’identità di genere perché è identità collettiva. Sei un uomo o una donna collettivamente (…) Quindi una liberazione dal genere. E questo ha portato ai transgender, alla comunità LGBT e a una nuova forma di individualismo sessuale. Quindi il sesso è qualcosa di facoltativo».

 

«Questa non era solo una deviazione del liberalismo. Erano elementi necessari per l’attuazione e il vincitore di questa ideologia liberale. E l’ultimo passo non ancora compiuto è la liberazione dall’identità umana. L’umanità è facoltativa. E ora stiamo scegliendo te in Occidente. Stai scegliendo il sesso che vuoi, come vuoi».

 

«L’ultimo passo in questo processo di liberalismo, nell’attuazione del liberalismo, significherà proprio l’umano come opzionale. Quindi puoi scegliere la tua identità individuale per essere umano, e per essere non umano. Questo ha un nome. Transumanesimo. Postumanesimo. Singolarità. Intelligenza artificiale».

 

«Klaus Schwab, Harari, dichiarano apertamente che il futuro dell’umanità è inevitabile. Arriviamo così alla storica stazione terminale: cinque secoli fa, siamo saliti su questo treno ed ora stiamo finalmente arrivando all’ultima stazione. Quindi questa è la mia lettura».

 

«Tutti gli elementi, tutte le fasi di questo, tagliano la tradizione con il passato. Quindi non sei più protestante. Sei un materialista ateo laico. Non hai più lo Stato nazionale che servì ai liberali per liberarsi dall’impero. Ora lo Stato nazionale diventa a sua volta un ostacolo. Ti stai liberando dallo Stato nazionale. Infine, la famiglia viene distrutta a favore di questo individualismo».

 

«E poi l’ultima cosa, il sesso, che è già quasi superato. Sesso facoltativo. E nella politica di genere c’è solo un passo per arrivare agli estremi di questo processo di liberazione, di liberalismo, cioè l’abbandono dell’identità umana come qualcosa di prescritto. Quindi essere liberi dall’essere umani, avere la possibilità di scegliere tra essere e non essere umani».

 

«Questa è l’agenda politica, l’agenda ideologica di domani. Ecco perché, come vedo il mondo anglosassone che mi ha chiesto» dice Dugin a Carlson. «Penso che sia solo avanguardia, perché è iniziato con gli anglosassoni, l’empirismo, il nominalismo, il protestantesimo. E ora siete in vantaggio con gli anglosassoni che sono più prosciugati dal liberalismo rispetto agli altri europei».

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Carlson procede con una domanda di approfondimento: «quindi le opzioni – per come le concepivo crescendo – erano l’individuo che può seguire la propria coscienza, dire quello che pensa, difendersi dallo Stato contro lo statalismo, il totalitarismo incarnato nel governo contro cui si lottava: il governo sovietico. E penso che la maggior parte degli americani la pensi in questo modo. Qual è la differenza?»

 

«Penso che il problema risieda in due definizioni di liberalismo» puntualizza Dugin. «C’è il vecchio liberalismo, il liberalismo classico. E nuovo liberalismo. Quindi il liberalismo classico era a favore della democrazia. Democrazia intesa come potere della maggioranza, del consenso, della libertà individuale. Ciò dovrebbe essere combinato in qualche modo con la libertà dell’altro».

 

«Ora siamo già completamente nella prossima stazione, nella fase successiva: il nuovo liberalismo. Ora non si tratta del governo della maggioranza, ma del governo delle minoranze. Non si tratta di libertà individuale, ma di wokismo. Quindi puoi essere così individualista da criticare non solo lo Stato, ma anche l’individuo, la vecchia concezione dell’individuo. Quindi ora hai bisogno di essere invitato a liberarti dall’individualità per andare oltre in quella direzione».

 

Dugin ricorda di averne parlato con Fukuyama in TV, «Come ha già detto in precedenza, la democrazia significa il governo della maggioranza. E ora si tratta del dominio delle minoranze contro la maggioranza, perché la maggioranza potrebbe scegliere Hitler o Putin. Quindi dobbiamo stare molto attenti con la maggioranza, e la maggioranza dovrebbe essere tenuta sotto controllo e le minoranze dovrebbero governare sulla maggioranza. Non è democrazia, è già totalitarismo».

 

«Ora non si tratta della difesa della libertà individuale, ma della prescrizione di essere woke, di essere moderni, di essere progressisti. Non è un tuo diritto essere o non essere progressista. È tuo dovere essere progressisti e seguire questo programma. Quindi sei libero di essere un liberale di sinistra. Non sei più abbastanza libero per essere un liberale di destra. Devi essere un liberale di sinistra. E questo è una sorta di dovere. È una prescrizione. Il liberalismo ha lottato nel corso della sua storia contro ogni tipo di prescrizione. E ora è diventato a sua volta totalitario, prescrittivo e non più libero com’era».

 

«E le crede che questo processo sia stato inevitabile? Sarebbe comunque successo?» domanda il Tucker.

 

«Percepisco qui una sorta di logica. Quindi un tipo di logica che non è solo un ritorno o una deviazione. Inizi con uno scopo: vuoi liberare l’individuo. Quando arrivi al punto in cui è possibile, viene realizzato. Quindi è necessario andare oltre. Da questo momento inizia la liberazione dalla vecchia comprensione dell’individuo in favore di concetti più progressisti. Non ci si poteva fermare qui. Questa è la mia visione».

 

«Quindi se dici “Oh, preferisco il vecchio liberalismo”, direbbero, i progressisti, direbbero, non si tratta del vecchio liberalismo, ma di fascismo: divieni il difensore del tradizionalismo, del conservatorismo, del fascismo. Quindi fermati qui. O divieni progressista liberale o sei finito, o ti cancelleremo. Questo è ciò che osserviamo».

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«E vedere i sedicenti liberali bandire il suo libro, che non è un manuale per fabbricare bombe o invadere l’Ucraina» dice Carlson. «Sai, queste sono opere filosofiche. Ti dice che non è, ovviamente, non è liberale in alcun senso. Mi chiedo però, quando si arriva al punto in cui l’individuo non riesce più a liberarsi da nulla, quando non è nemmeno più umano. Qual è il prossimo passo?»

 

«Ciò è descritto nei film, nei film americani, nei film, in molti modi. Quindi penso che, sai, tutta la fantascienza, quasi tutta quella del XIX secolo, è stata realizzata nella realtà negli anni Venti. Quindi non c’è niente di più realistico della fantascienza. E se consideriamo Matrix o Terminator, abbiamo tantissime versioni del futuro più o meno coincidenti, il futuro con la situazione post-umana o umana opzionale o con l’Intelligenza Artificiale», replica Dugin.

 

«Hollywood ha realizzato molti, molti, molti film. Penso che rappresentino correttamente la realtà del prossimo futuro. Ad esempio, se consideriamo l’uomo, la natura umana, come una specie di animale razionale, allora con la nostra tecnologia si può produrli, così da poter creare animali razionali o combinarli o costruirli con l’Intelligenza Artificiale».

 

«È una specie di re del mondo. Direi che non solo può manipolare, ma creare realtà perché le realtà sono solo immagini, solo sensazioni, solo sentimenti. Quindi penso che il futurismo post-umanista sia non solo una sorta di descrizione realistica di un futuro molto possibile e probabile, ma anche una sorta di manifesto politico. Questo è un pio desiderio».

 

«Il fatto che i film non descrivono un brillante futuro tradizionale. Non conosco nessun film sul futuro e sull’Occidente che dipinga un ritorno alla vita tradizionale, alla prosperità, alle famiglie con molti figli… e tutto è abbastanza nell’ombra, abbastanza oscuro. Quindi, se sei abituato a dipingere tutto di nero soprattutto nel futuro, quindi questo futuro nero una volta arriva e penso che sia il fatto che non abbiamo altra scelta. O Matrix o Intelligenza Artificiale o qualcosa del genere o Terminator. Quindi la scelta è già fuori dai limiti dell’umanità. E questa non è solo fantasia, credo. Questo è una sorta di progetto politico. Ed è facile immaginarlo, poiché abbiamo visto i film, seguono più o meno da vicino questa agenda progressista, direi».

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Carlson procede con un’ultima domanda, chiedendo del fenomeno per cui «per oltre 70 anni un gruppo di persone in Occidente e negli Stati Uniti, liberali, hanno difeso efficacemente il sistema sovietico e lo stalinismo, e molti vi hanno partecipato personalmente spiando per Stalin, lo ha sostenuto nei nostri media» dice il giornalista. «Amavano Boris Eltsin perché era ubriaco. Ma nel 2000, la leadership di questo Paese è cambiata e la Russia è diventata il loro principale nemico. Quindi, dopo 80 anni e passa di difesa della Russia, si sono messi ad odiare la Russia. Che cosa è tutto questo? Perché il cambiamento?»

 

«Penso che, prima di tutto, Putin sia un leader tradizionale. Quando Putin salì al potere, fin dall’inizio, ha cominciato a sottrarre il nostro Paese, la Russia, all’influenza globale. Così ha iniziato a contraddire l’agenda progressista globale. E queste persone che sostenevano l’Unione Sovietica erano progressisti, che hanno avuto la sensazione di avere a che fare con qualcuno che non condivide l’agenda progressista e che ha tentato con successo di restaurare i valori tradizionali, la sovranità dello Stato, il cristianesimo, la famiglia tradizionale».

 

«Questo non era evidente fin dall’inizio, da fuori. Ma quando Putin ha insistito sempre di più su questa agenda tradizionale, direi, sulla particolarità e spiritualità della civiltà russa come un tipo speciale di regione del mondo che aveva e ha ora, pochissime somiglianze con i progressisti, gli ideali progressisti. Quindi penso che abbiano scoperto, abbiano identificato cosa esattamente è Putin. È una sorta di leader, un leader politico che difende i valori tradizionali».

 

Solo di recente, un anno fa, Putin ha emanato un decreto di difesa politica dei valori tradizionali. É stato un punto di svolta, direi. Ma gli osservatori del campo progressista in Occidente, penso che lo abbiano capito correttamente fin dall’inizio del suo governo. Quindi, questo odio non è solo casuale, qualcosa di casuale o uno stato d’animo. Non lo è… È metafisico».

 

«Quindi, se il tuo compito principale e il tuo obiettivo principale è distruggere i valori tradizionali, la famiglia tradizionale, gli stati tradizionali, le relazioni tradizionali, le credenze tradizionali e qualcuno con l’arma nucleare – questo non è l’argomento più piccolo, ma nemmeno il meno importante – può resistere e difendere i valori tradizionali che stai per abolire… Ecco, penso che ci sia qualche fondamento per questa russofobia e per l’odio per Putin. Quindi non è solo un caso. Non si tratta di un cambiamento irrazionale dal filosovietismo alla russofobia. È qualcosa di più profondo direi. Questa è la mia ipotesi».

 

Tanto, tanto materiale su cui riflettere.

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Immagine screenshot da Tucker Carlson Network

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Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza

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Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.   Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».   Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?

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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.   Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.   La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.   La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.   Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.   Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.   Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.   Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.   Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.   In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.   Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.   In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.

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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.   Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.   Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?   Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.   Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.   Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.   Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.   E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.   Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.   Buon lavoro.   Roberto Dal Bosco

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I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo

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Ho sempre provato un certo disagio di fronte agli eroi di cartapesta creati dalla filiera economica della «cultura» nazionale. È l’apparato industrial-intellettuale che passa dai grandi editori (una volta soprattutto Feltrinelli, ma in realtà un po’ tutti, specie in era marinaberlusconiana), si innerva sui giornali (Repubblica, a seguire, come sempre il Corriere, e giù gli altri), corre per le librerie di tutta Italia (con incontri dove vanno, magari, trenta persone pensionate in tutto) e si riversa, oltre che nei teatri, nella TV pubblica a tutte le ore, soprattutto quelle notturne.

 

Avete presente: gli «intellettuali», gli «scrittori», quelli che hanno pubblicato un libro, a volte, tragicamente, un «romanzo». I giornalisti, i librai, gli enti teatrali, i dirigenti televisivi ve li indicano come persone da ascoltare, da seguire. Sono dei contenuti importanti, cui dovete dare la vostra attenzione.

 

Basta leggere qualche pagina delle loro opere per capire di trovarsi davanti al vuoto pneumatico, e quindi tornare con la mente all’ineludibile legge di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.

 

Cioè, qualsiasi «scrittore» vi propongano – in libreria, in televisione, al teatro comunale, sul giornale – non è che vogliano davvero portarvi un suo messaggio, una sua riflessione, un suo pensiero (di solito, anzi, non ce n’è traccia), ma vogliono semplicemente tenervi incollati al medium, cioè al sistema. Consuma questo importante autore di libri, ti dicono, ma in verità quello che stanno davvero chiedendo è che non cambi canale: resta con noi, non staccarti dal continuum dell’industria culturale nazionale.

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È una questione di rinforzo della dipendenza sistemica, camuffata da nobile impulso illuminista all’educazione: leggi qui, sarai migliore. O con più sincerità: fatti intrattenere da noi, è l’unica via.

 

Una questione di identità, di classe sociale. Ecco perché ci ritroviamo, tra i tanti scrittori che ci infliggono, un discreto numero di professori. Essi divengono la proiezione del famigerato «ceto medio riflessivo», cioè di quantità di insegnanti di elementari, medie e superiori (e università: vertice della sottocasta dell’istruzione statale) che si sentono migliori perché leggono i libri, e che sperano che, un giorno, leggendo Repubblica e collane Feltrinelli magari anche a loro un giorno daranno 15 minuti di gloria letteraria.

 

La cultura di sinistra – cioè la cultura italiana – vive di fatto su un grande ricatto identitario: se non consumi il prodotto culturale nazionale, se quindi non credi a tutti gli assiomi che vi sono inseriti (civili, storici, politici, religiosi, «laici»), se fuori dalla storia. Impresentabile, invisibile. Questa cesura, come in ogni altro campo della vita, si è rivelata in tutta la sua oscenità durante il COVID.

 

Ricordate, infatti, dove stavano gli intellettuali, durante il biennio di lockdown e sieri genici? Ricordate gli editoriali sui giornali? Gli inni al generale vaccinaro, e magari pure l’occhiolino fatto ad un possibile «golpe» pro-siero? Ricordate gli articoli in cui lo scrittore diceva, sconsolato, di aver trovato tra i suoi amici dei no-vax? Ricordate le preghiere dei saggi affinché nel Paese fosse realizzata l’apartheid biotica, che poi di fatto è stata concretata?

 

Per questo sul «caso Scurati», che tiene banco sui giornali ancora adesso, ho delle idee un po’ diverse da quelle che avrete letto in giro.

 

Diciamo intanto, che la figura dello Scurati ce la ho in qualche modo presente, perché rammento quando fu inserita nel circuito culturale ancora anni fa. Nel 2005, ad un premio letterario – il gateway per far entrare nel sistema-Paese nuovi personaggi cartonati con le loro idee sincero-democratiche – attaccò Bruno Vespa: di suo una cosa per cui, visti gli ultimi anni di mRNA e Zelens’kyj, sarebbe da stringergli la mano, ma il tono sarebbe stato un po’ pesante: «se dovessi uccidere qualcuno, questo sarebbe lei», avrebbe detto criticando il conduttore di Porta a Porta.

 

Il personaggio del resto pare essere focoso: nei giorni scorsi ha accusato, in un’intervista su un giornale straniero, il TG1, per poi scusarsi, e dare la colpa a tutta questa situazione che lo turba molto.

 

La simpatia a pelle che mi sale subito: le foto che lo ritraggono, alto e severo, mostrano questo sguardo duro e non centratissimo, e profili dove pare mancare il mento – cosa che potrebbe essere, in realtà, un preciso messaggio politico, ma è un pensiero che butto lì, come altro, per satira.

 

Perché l’uomo ha pubblicato una serie di libri sul mento più pronunciato del secolo – quello del Duce Benito Mussolini. Migliaia e migliaia di libri intitolati tutti grottescamente M., come se fosse M il Mostro di Duesseldorf, in realtà è uno dei babau assiomatici che servono al sistema culturale italiano per tenersi in piedi.

 

Eccerto: Roberto Saviano, uno dei principi del sistema culturale nazionale, scrive libri contro la Camorra, anche se gli effetti – visibili soprattutto in TV – hanno fatto esclamare a qualcuno che alla fine, eterogenesi dei fini, quello che si ottiene è la sua apologia.

 

Quindi: addosso – ancora – al cadavere appeso a Piazzale Loreto (che Renovatio 21 un anno fa ha modestamente chiesto di ribattezzare come «Piazzale Angleton»). Scriviamoci sopra un romanzo, anzi dei romanzi, una saga che Il Trono di Spade deve spostarsi. Ma quale banalità del male: fatecelo scrivere, fatecelo vendere, ‘sto male!

 

Mi viene in mente l’articolo di ferocia assoluta che gli riservò, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia, che descrisse il suo senso di sgomento di fronte ad errori storici incredibili – perché provenienti da uno scrittore, un intellettuale, un editore, e la ridda di correttori di bozze, consulenti, editor del caso – contenuti nel testo.

 

Il Gallo della Loggia non fu tenero: «Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato».

 

Giù duro: «Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, “porta sulla coscienza sei milioni di morti” (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci “un politologo”, avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a “Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede” (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura».

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Tanta roba. Tuttavia soprattutto uno di questi inguardabili errori ci sembra interessante: nel suo romanzone mussoliniano, lo Scurati scrive che gli italiani morti durante la Prima Guerra Mondiale erano sei milioni. Secondo i calcoli storici, i morti sono stati – compresi quelli della pandemia della Spagnola (chiamata così anche se può darsi che venga, come tante altre epidemie, dai vaccini) – un milione. Tuttavia, come resistere alla coazione a ripetere la cifra fatale dei sei milioni? Difficile: l’industria culturale, i sei milioni te li ripete ogni cinque minuti.

 

Ma che importa, alla fine. Rileva – ribadiamolo bene – solo che il canale resti saldo. Qualche refrain, qualche tormentone piazzato magari anche in modo errato, fa giuoco alla tenuta dell’impianto di trasmissione. Tenetelo sempre a mente: il medium è il messaggio.

 

Ecco perché quando è scoppiato lo scandalo della RAI melonica che «censura» il tizio, non è che ci siamo scomposti più di tanto.

 

In primis, perché sappiamo da dove arriva, che cosa rappresenta, qual è il messaggio – cioè il medium. Il mezzo dell’industria cultura italiana deve ripetere i suoi triti dogmi (perché agli intellettuali non è richiesta la fantasia, né l’estro, né il genio: anzi) con cui è stata imbastita da quando, durante il famoso patto racconto da Ettore Bernabei nel libro L’uomo di fiducia, De Gasperi cedette la cultura a Togliatti e al PCI – e le banche a Mattioli e alla massoneria.

 

Che ci volete fare: mica la mela può cadere lontano dall’albero. Piante cresciute con decadi di letame «laico» e sincero-democratico, che frutti possono dare?

 

Il problema, quindi, è più profondo di un’eventuale museruola ad un intellettuale sistemico: è l’esistenza del sistema, e la sua persistenza nonostante qualsiasi governo di destra sperimentato dal 1994 ad oggi.

 

Non è questo, il punto che ci interessa sviluppare qui, purtuttavia.

 

La cosa che ci sconvolge, e vedere, a quattro anni dalla catastrofe di Wuhan, quanti anni luce il sistema politico-culturale sia distante dalla nostra visione – cioè dalla realtà. La politica, la storia, la letteratura dei normaloidi è a tal punto divorziata dalla sostanza dalle cose, che lo spettacolino delle sue beghe interne ci crea imbarazzo, malessere, se non ci fa vomitare punto e basta.

 

È stato ricordato che Scurati, quello della lettera «antifascista» da leggere alla TV pubblica, aveva scritto sul Corriere un editoriale in cui osannava il premier Draghi, lo implorava di tornare al suo posto: massì, il tecnocrate che nessuno aveva votato, calato per motivi imperscrutabili in luoghi fondamentali – il panfilo Britannia, dove salutò con affetto gli «Invisibili Britannici»; l’Eurotorre di Francoforte, luogo dove i tedeschi mai dovrebbero volere un italiano, e invece – piace tanto all’intellettuale antifascista.

 

Scommettiamo che, se lo sapesse, godrebbe anche al pensiero del ruolo primario del Draghi nel primo vero atto di guerra economica della storia umana, ovvero il congelamento dei beni della Banca di Russia detenuti all’Estero. Contro ogni legge internazionale, contro ogni decoro diplomatico (nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale…), contro ogni prospettiva a medio termine (l’effetto subitaneo: l’accelerazione della de-dollarizzazione): ma che importa, al cervello antifascistico? Bisogna applaudire i Draghi della palude, sempre, e spellarsi le mani.

 

Non solo. In una clip del novembre 2020 proveniente da La7 – lo sfogo televisivo del gruppo di via Solferino – lo Scurati affrontava di petto l’altra grande questione democratica degli ultimi anni. «Il 25% degli italiani, che secondo un sondaggio SVG sono complottisti o negazionisti» incalzava Lili Gruber. «Un dato assolutamente inquietante» replicava Scurati (mentre, a lato, l’idolo grillino Andrea Scanzi scuoteva la testa con vigore). Dice che il dato deve far riflettere «su cosa è stata l’Italia negli ultimo 10, 20 anni (…) su quale piccolo e significativo arretramento di civiltà abbiamo patito in questi decenni».

 

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L’esitazione davanti al siero genico sperimentale è un segno della decadenza della civiltà italiana – quella, di cui parlava imperialmente Mussolini, o quella della Costituzione, calpestata in ogni sua parte dall’obbligo vaccinale? Un attimo, questi ultimi sono pensieri nostri.

 

«Il discorso ha a che fare con l’educazione, con l’istruzione, con la cultura», dice ancora lo scrittore. Insomma, sei no-vax, perché sei ignorante – non hai studiato a scuola, né letto i libri propostiti dalla libreria, compresi magari quelli fondamentali dello stesso Scurati.

 

«Il fatto che un italiano su quattro stia arretrando su posizioni oscurantiste premoderne di ignoranza arrogante e professa, non nascosta, nella diffidenza dei riguardi dei vaccini, che sono una delle grandi invenzioni dell’umanità, nella diffidenza nei riguardi della scienza, ci deve far ricordare che la scuola, l’istruzione e l’educazione sono fondamentali per il Paese, non solo durante l’emergenza» continua lo Scurato.

 

Sì davvero: sta parlando della scuola, dove abbiamo visto ogni sorta di discriminazione biologica (il green pass anche per entrare nel sito dell’Università!), dove è penetrato il proselitismo omotransessualista più agghiacciante, dove ai bambini di otto anni vengono lette lettere anti-femminicidio sull’onda di casi di cronaca ancora tecnicamente irrisolti, dove sono in corso programmi rivoltanti di digitalizzazione tecnocratica della vita dei ragazzi?

 

Sta parlando sul serio di arretramento della civiltà, per poi tirare fuori, come esempio, la scuola, distruttrice della civiltà?

 

È così. Parlano per ritornelli sempreverdi («vaccini grande conquista»… «la scuola è importante»… «sei milioni di morti»), discorsi che non aggiungono nulla, non hanno un pensiero alcuno da offrire. Non dati, non riflessioni, né profondità di alcun tipo – niente.

 

È chiaro, soprattutto, che la nostra idea di civiltà è oramai incompatibile con quella che loro chiamano «civiltà», che per noi è invece dissoluzione, è anti-civiltà, è Cultura della Morte. E non è questione solo di idee – si tratta della nostra stessa esistenza quotidiana, della vita nostra, e di quella dei nostri figli.

 

Perché quelli che si dicono «democratici», quelli che ci vendono i loro discorsi «antifascisti», sono gli stessi che hanno inflitto alle nostre vite gli orrori più atroci, perfino a livello biomolecolare.

 

Gli «antifascisti», hanno spinto affinché la nostra esistenza personale e famigliare fosse devastata. Vi ritorna in mente? C’è chi ha perso il lavoro, c’è chi ha perso i parenti, c’è chi ha perso tutto – mentre tutti quanti perdevamo la libertà.

 

Però scusate: ma se la parola «fascista» è semanticamente riferibile a ciò che è autoritario, soverchiante, incapace di discutere, irriguardoso della dignità della persona, altamente discriminante (fino al razzismo), violento… allora, che cos’è, quella che abbiamo vissuto in pandemia, se non una piccola era fascista?

 

È meglio chiamarli con un termine più appropriato: essendo alla base dell’immane processo di sottomissione subìto un fattore biologico – la malattia, il siero genico sperimentale – è il caso di definirli, più che fascisti, «biofascisti». Gli antifascisti – come esattamente i fascisti ipoteticamente ancora in circolazione ed i postfascisti al governo – sono, esattamente, biofascisti.

 

Dal ventennio fascista, al biennio biofascista: che non è finito, perché nessuno, né al governo né all’opposizione, ha accettato di rivedere lo stupro della supposta democrazia popolare visto col COVID. Anzi: rilanciano, la Meloni firma a Bali per i passaporti vaccinali elettronici transnazionali, mentre masnade di operatori sanitari e trafficanti politici lavorano alacremente – pagati da voi – per l’approvazione sottotraccia del Trattato Pandemico OMS, che sarà un bel capitolo della fine certificata delle democrazie costituzionali.

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E già, la Costituzione. Gli intellettuali credono sia un testo importantissimo, ce lo hanno ripetuto ad nauseam, e il motivo è semplicissimo: avendo cacciato per ordine massonico il sacro dalla politica, non resta che basare lo Stato su un libro.

 

Abbiamo visto quanto ci credono: la Costituzione è stata tradita perfino nel suo primo, ridicolmente sovietico, articolo, quello della Repubblica fondata sul lavoro – se hai il green pass, ovvio, e i sindacati sono d’accordo con Draghi, gli scrivono lettere d’amore in concerto con i padroni di Confindustria, mentre dal palco, circondati da mascherine, i lider maximos sindacalisti parlano veramente di Nuovo Ordine Mondiale.

 

Diventa a questo punto definitivamente insopportabile guardare la pantomima «democratica» dei personaggi TV.

 

Palano di popolo, e sono quelli che una parte consistente del popolo italiano – qualcuno dice, dal 1978, sei milioni, sul serio – lo ha sterminato per legge, con l’aborto di Stato.

 

Parlano di democrazia, ma il popolo lo hanno chiuso in casa, sottomesso, capovolgendo lo Stato di Diritto: non più il cittadino latore di diritti, ma obbligato a coercizioni che riguardano la sua stessa biologia.

 

Parlano di Costituzione, e hanno tradito l’articolo 1, l’articolo 16, l’articolo 21, l’articolo 32 e tutti gli altri che il lettore vorrà aggiungere.

 

Parlano di antifascismo, dopo aver inflitto alla popolazione anni di terrore biofascista, dove se non accettavi di modificare la tua genetica cellulare non potevi entrare nei negozi – sì, come gli ebrei dopo le leggi razziali, come mostrano tutti quei filmetti strappalacrime come La vita è bella, che certamente in parte avete pagato sempre voi.

 

Parlano di antifascismo, e sono gli stessi che finanziano ed armano un regime dove i collaborazionisti del Terzo Reich sono celebrati pubblicamente come eroi (anche fuori dai confini: ricorderete il caso di Trudeau che porta l’ex SS al Parlamento canadese per farlo applaudire) e dove armi e danari finiscono a Reggimenti provenienti da gruppi dove la svastica e le lettere runiche sono la norma, come simbolo, come tatuaggio, come ideologia.

 

Gli antifascisti, oggi, sostengono i neonazisti. Lo spettacolo lugubre degli ultimi cortei 25 aprile con tripudi di bandiere ucraine e della NATO rimarrà negli annali per i posteri che giustamente si gratteranno la testa cercando di capire.

 

I biofascisti, del resto, non è che si tirano indietro nei confronti dei paradossi. Prendiamo, ad esempio, il grande tema «antifascista» della provetta. Un idolo, per la sinistra: libertà riproduttiva, che vuol dire che anche gli LGBT si possono produrre la prole che la natura non consentirebbe loro di avere – si chiama progresso, bellezza.

 

Arrivano, tuttavia, tante storie aneddotiche interessanti. Per esempio: coppie lesbiche che spesse volte si rivolgono a banche del seme… in Danimarca. Essì: il bimbo lo vogliono biondo dolicocefalo occhioceruleo, esattamente come prescritto da Zio Adolf, che, poverino, lui la biotecnologia per farlo non ce l’aveva, limitandosi nel fallito programma Lebensborn a fare montare ragazzotte di paese ben disposte a giovinotti dai chiari capelli scelti tra le SS, per poi ucciderli subito dopo gettandoli nella fornace della guerra. È così: infatti quello si chiamava, appunto, «nazismo», e non «bionazismo», come invece dobbiamo chiamarlo oggi.

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E chiedetevi pure anche, cari antifascisti biofascisti: quanti dei politici gay, magari con figlio prodotto via utero in affitto all’estero fatto entrare in Italia in spregio alla legge 40/2004 (i giudici, dove sono?), secondo voi hanno sfogliato un bel catalogo delle «donatrici» di ovulo, scegliendo magari una bella ragazza bionda e atletica, come ad esempio l’Ucraina – capitale mondiale della surrogata anche sotto le bombe – offre a bizzeffe?

 

È difficile rendersi conto di cosa si tratta? La parola è conosciuta, in verità: eugenetica.

 

È più arduo capire che l’eugenetica biofascista opera ogni giorno anche al di fuori dei casi arcobalenati: la selezione degli embrioni, compiuta dagli «esperti della fertilità» che ora sono pagati dal contribuente (la FIVET è nei LEA) è, molto semplicemente un’altra forma di eugenetica, solo che invece dei cataloghi delle «biobanche» qui si usa il microscopio.

 

La sostanza non cambia, ed è quello che andiamo da sempre ripetendo su Renovatio 21. La continuità tra il nazismo e la moderna società riprogenetica è assoluta. Hitler ha perso la guerra cinetica, ha vinto quella bioetica. O meglio: i padroni di Hitler – quelli che ne hanno finanziato l’ascesa – sono esattamente gli stessi che hanno, da più di un secolo, elargito danari affinché si instaurasse l’eugenetica in America, in Europa, perfino in Cina.

 

E sono gli stessi – un nome lo vogliamo fare: la famiglia Rockefeller – che hanno suscitato e foraggiato quantità di movimenti fondamentali per la sinistra antifascista, cioè biofascista: il femminismo, ad esempio, o il movimento globale per l’aborto.

 

Capite, cari lettori, che questa è una visione della Storia abissalmente distante da quella che possono avere Scurati o la Meloni e chiunque altro vi propongano TV e giornali.

 

Perché quello che possono fare, loro, è farvi rimasticare quello che è stato dato loro da masticare, ricordando che a nessuno di loro è stata chiesta originalità e profondità di pensiero. La Storia, vi dicono, è fatta così… i fascisti, gli antifascisti, etc.

 

Qui abbiamo una visione radicalmente diversa. L’unico modo possibile per vedere il mondo, l’universo stesso, è quello che ha al suo centro il fenomeno più fondamentale del cosmo tutto: la vita.

 

Non comprendere che la Storia si sta rivelando semplicemente come una danza, fisica e metafisica, tra la Vita e la Morte – con lo Stato moderno e le sue schiere a combattere per quest’ultima – significa non aver compreso nulla. E quindi, accettare ogni possibile angheria che l’Impero della Morte prepara: l’aborto, la provetta, il vaccino… tutte realtà che qui abbiamo dimostrato essere intimamente interrelate, tutte questioni che toccano direttamente, carnalmente, le vostre esistenze, e soprattutto quelle dei vostri figli.

 

Così, in questa ignoranza invincibile, quella per lo stesso dono più alto che si è ricevuti dal creatore, l’antifascismo può trasformarsi tranquillamente in biofascismo, e continuare la sua patetica sceneggiata di lamento contro il fascismo 1.0.

 

In un articolo per il 25 aprile di diversi anni fa («Quello che Mussolini non ha capito: il dominio della Cultura della Morte»), scrivevamo parole che ci va qui di ripetere.

 

«Non è il capitale, non è il danaro ad essere in gioco. Non è nemmeno la terra, lo spazio, la geopolitica che interessa ai potenti dell’universo, oggi come allora. Ai principi di questo mondo interessa la distruzione dell’uomo. La sua umiliazione, il suo controllo, la sua riduzione».

 

«Non è visibile, per chi pensa ancora con le categorie ideologiche pubbliche dell’Ottocento o del Novecento, il cambio del paradigma già avvenuto. Non siamo più in una fase espansiva dell’essere (la produzione dell’acciaio dei sovietici, il Lebensraum dei nazisti, il natalismo dei fascismi, il consumismo delle democrazie liberali) ma in una fase di contrazione programmata, forzata. Meno figli, meno lavoro, meno esseri umani: decrescita».

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«Mussolini non poteva capire che è l’ascesa del biopotere il vero verso della Storia; i suoi oppositori nemmeno: anzi, ora sono divenuti kapò di qualcosa di molto peggiore del fascismo, il biofascismo: tutti i tuoi diritti sono sospesi, perfino il lavoro, la censura è operata su tutti i livelli, ogni libertà, perfino quella di spostamento, perfino quella di vedere i famigliari, è distrutta».

 

Già, Mussolini non aveva capito che il fascismo non serviva più al programma: il signore del mondo non voleva controllare più solo gli imperi e le nazioni, ma il corpo umano stesso, perfino nel codice più sacro contenuto dentro le sue cellule. Il Duce non poteva capire che il fascismo andava sostituito con il biofascismo. Lo hanno fatto, tra bandiere arcobaleno e ghigni pannelliani, facendo pure continuare l’oscena commedia dell’antifascismo militante, televisivo, autistico – perché altre sceneggiature, con evidenza, non ne hanno, né ne saprebbero scrivere.

 

Il programma è più vasto, ad ogni modo, di quello visibile tra Mussolini e gli intellettuali prodotti dal sistema culturale nazionale. Il programma è contenuto in un grande bestseller, nell’ultimo testo che lo compone. Si chiama Sacra Bibbia, da leggersi soprattutto quello che è definito Il libro della Rivelazione. Ci rendiamo conto che pochi scrittori e professori lo hanno fatto, ancora meno ci hanno creduto, o anche lo hanno preso sul serio per un secondo.

 

Qui noi lo facciamo, eccome. Il programma finale non riguarda la politica partigiana, riguarda l’umanità, la vita e la morte, il mistero dell’iniquità, la catastrofe globale, la fine dei tempi – insomma la vostra anima, e il vostro corpo.

 

Non è che chiediamo a chicchessia di accettarne i segni – i nostri lettori già lo fanno, a giudicare dalle lettere che ci arrivano.

 

Quello che domandiamo, è: non prestate attenzione a nessuna polemica, né alla voce degli intellettuali di cartapesta, né a quella dei politici.

 

Pensate, piuttosto, quanto è lontana da loro, oramai, la vostra concezione del mondo, la vostra visione della Storia, la vostra percezione della realtà, la vostra fede nella Verità.

 

È così: scrittori, deputati, giornalisti, professori, ministri, editori, fascisti, antifascisti, non hanno capito un cazzo.

 

Evitate, cari lettori, di perderci tempo, e concentratevi su ciò che è importante: onorate il Vero, e, soprattutto, cercate la pace interiore – perché a breve, quando sarà la tribolazione, servirà davvero.

 

Roberto Dal Bosco

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