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Pensiero

Preti DJ, pissidi Ikea, e chissà quanti preservativi: la GMG di Lisbona, atto di guerra contro il Corpo di Nostro Signore

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Era iniziata con il solito diluvio di fotografie inoltratemi dagli amici.

 

Capita così, ad ogni Giornata Mondiale della Gioventù, detta anche GMG, la Woodstock per la gioventù neo- para- pseudo-cattolica voluta dagli ultimi papi (in che senso ultimi non sappiamo, e ci abbiamo paura a chiedercelo).

 

Mi inviano un video, ripreso con ogni evidenza alla fine dei «lavori» della GMG, quando stanno sbaraccando.

 

Si vedono delle mani, con un rosario al polso che fa un po’ tamarro o forse no, che armeggia su una console da DJ Pioneer. La musica che sta lanciando, pure gradevole, è una sorta di elettronica chill-out, la musica da spalmo marittimo, da tranquillo e godurioso aperitivo del crepuscolo.

 

L’inquadratura si allarga. Ci stropicciamo gli occhi, dandoci un pizzicotto sulle gote en passant. Il DJ è un prete.

 

 

Che sia un prete lo intuiamo solo dal clergyman, con camicia in manica corta che fa vedere anche lo smartwatch e il braccialetto di plastica coloratissimo.

 

Osservate, quindi, il movimento soddisfatto che fa con la mano, mentre il busto accenna movimenti a ritmo dei 4/4 della techno: il don è un professionista, le movenze sono esattamente quelle di un DJ consumato.

 

Impossibile non leggere la felicità di quest’uomo che, con la sua musica, domina l’intera spianata, l’arena internazionale dell’evento più importante dell’anno.

 

Chi sta riprendendo cerca di farci capire le dimensioni della questione: ecco che panoramica a mostrare decine e decine di vescovi e sacerdoti, alcuni riprendono con lo smartphone, altri chiacchierano rilassati, altri ancora (una minoranza) paiono invece avere un’espressione contrariata.

 

La ripresa si spinge fino a mostrare le centinaia di migliaia di fedeli sul campo in riva all’Oceano, dove sta calando il sole. La situazione è davvero eccezionale, da vero relax estivo, da occhiale scuro e cocktail sundowner, lieve profumo di mare e crema abbronzante, chiacchiera libera e temporaneo e diffuso senso di pace personale ed interpersonale. Chi scrive ha visto ed esperito scene del genere alle Baleari, in Dalmazia, sulla costa tirrenica, in Africa, in varie parti nel mondo: è capitato, in reincarnazioni precedenti.

 

Tuttavia, le immagini della placida massa di persone, dei megaschermi e dei trabatelli che si stagliano sul calare del sole, mi hanno fatto tornare con il ricordo soprattutto ad una sorta di «rave di tutte le Russie» che si teneva sul Mar Nero, in Crimea, che visitai rocambolescamente lustri fa con un’amico quando ancora la penisola era parte dell’Ucraina.

 

La sensazione che mi è trasmessa, quindi, è esattamente quella: un rave. Un rave organizzato dalla chiesa cattolica, in presenza dei suoi papaveri, e di ondate di giovani raver.

 

Associare le mie esperienze di drink in riva al mare alla chiesa è qualcosa che mi manda in cortocircuito. Provate a immaginare: siete seduti in uno di quei bar del tramonto a Ibiza, state godendovi la vostra clara (come chiamano lì la birra mischiata alla limonata), conversando amabilmente, apprezzando il sottofondo musicale. Vi girate per guardare chi mette i dischi: è un prete.

 

Voi capite che, per restare in Ispagna, questo è puro surrealismo. È Bunuel, è Salvador Dalì. È con ogni evidenza una dissonanza cognitiva è programmata per distruggere il vostro senso per la religione, e la religione stessa.

 

Andiamo oltre. Ecco che arrivano altre foto.

 

Vediamo qui dell’Eucarestia servita da tizie sconosciute in t-shirt con un badge colorato al collo, contenuta in «pissidi» che sotto hanno ancora l’etichetta, codice a barre incluso, che segna la probabile provenienza da un famoso marchio svedese di oggetti casalinghi.

 

Noi ci immaginiamo però la storia che si portano dietro: qualcuno, da qualche parte, deve aver fatto l’ordine, deve aver detto ad un sottoposto «vai là e prendi dei contenitori a caso per l’Eucarestia». Il subordinato clericale va nel grande centro vendita scandinavo, e tra la lampada Ingä e l’armadio Englüfül, tra la ciambella water Eyjafjallajökull e il cuscino Donärstäg, tra la sedia Freyäsplüng e il portaspazzolino Odinssøn, trova il vasetto che si trasformerà in pisside, degno contenitore del corpo di Nostro Signore.

 

Sono, è stato notato, ciotole in cui in genere si tengono le patatine, le noccioline, i popcorni, quelle robe lì.

 

 

Ovviamente, stiamo parlando di Comunioni ricevute sulla mano, moltiplicato per le 354 di migliaia (dati SIR) di tizi accorsi al raduno neopapista, moltiplicate per i giorni di messa.

 

Vabbè, dobbiamo davvero urlare al sacrilegio?

 

Sì, ma non è che ne abbiamo molta voglia. Soprattutto dopo aver visto che alla GMG hanno fatto parlare James Martin, il gesuita omosessualista innalzato pubblicamente da Bergoglio (che, ricordarlo sempre, è gesuita pure lui).

 

Ma mica fanno festa solo gli LGBT, alla GMG. Anche l’eterosessualità trova un suo perché: nel senso che si parla proprio di sesso. La Stampa manda in stampa un articolo in cui è scritto che «a saldare il legame tra i giovani e il Pontefice argentino sono “soprattutto le sue aperture, spesso dirompenti, su tanti argomenti. In particolare quelle sui temi sessuali”, afferma F., 24 anni, di Bari».

 

Metti 354 mila giovani assieme, ovviamente con i relativi giovani sistemi ormonali acclusi, e cosa credi che succeda?

 

Non che Bergoglio si sia tirato indietro rispetto alla prospettiva.

 

«Il sesso è un dono di Dio», dice l’argentino. Nella consueta conferenza stampa nel volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù, Panama 2019, Bergoglio proclamò che il sesso non è un «mostro» da cui fuggire, e che ci vorrebbe «un’educazione sessuale» nelle scuole possibilmente non troppo rigida e chiusa, perché bisogna capire il valore.

 

I giovani ormoni ringraziano: la 24enne S., sentita sempre dal giornale agnelliano, dice che «quando Papa Francesco parla di sesso abbatte il tabù che la Chiesa ha sempre alimentato. Il muro che ha sempre innalzato per evitare di approfondire questa componente cruciale della vita. Si è sempre rifugiata dietro al “no al sesso prima del matrimonio”. Così ha trascurato l’aspetto più bello dell’eros: cioè che in realtà rafforza e sublima la complementarietà tra la sfera sessuale e l’amore. La complementarietà dei corpi di due persone che si vogliono bene, si amano. Io sono credente e praticante, e grazie a Bergoglio vivo con maggiore tranquillità la mia affettività».

 

Tradotto: scopo, e poi vado in chiesa.

 

Sentiamo anche V., ventenne spagnuola: «la Chiesa ha quasi sempre evitato di parlarne, e ha sbagliato, perché il sesso fa parte della vita. Anzi, nel sesso c’è anche il futuro della vita, dell’umanità. Quindi mi conforta sentire che il papa ne parli e dica che è una cosa bella. Questo può aiutare ad aprire la mente di tanti uomini di Chiesa, a connetterli di più con la quotidianità della gente. Io sono cattolica, sono fidanzata, e penso che il sesso sia parte cruciale dell’amore, dell’amore vero».

 

Tradotto: questo papa mi piace perché mi lascia fare le zozzerie col mio boyfriendo.

 

C’è anche una 23enne romana intervistata, la quale ritiene che la morale sessuale sarebbe alla base dell’«allontanamento dei giovani dalla chiesa» che purtroppo viene intesa «come luogo di giudizio e di condanna. Dunque, le parole gioiose del Papa sulla sessualità possono riavvicinare i ragazzi alla chiesa. Per me è stato così».

 

Tradotto: adesso posso tornare in chiesa perché è caduta la proibizione delle porcherie. In pratica, pare di capire, perché non c’è più peccato: e notate che questa parola qui non compare mai.

 

Anche queste rivendicazioni potrebbero avere un rapporto diretto con l’Eucarestia, il sacrilegio. Non sappiamo. Di mezzo in teoria c’è la confessione, dove però l’assoluzione non c’è senza il proposito di non commettere più il peccato, come insegna l’Atto di dolore, che nessuno sa più, tanto che nelle chiese neocattoliche il confessore spesso tiene il foglietto sul tavolo per farlo leggere al penitente. Difficile che da un confessore della chiesa vera arrivi l’assoluzione ad una «praticante» che va a dire i giornali che fa sesso prima del matrimonio (la parola arcaica: fornicatrice), quindi l’accesso all’Eucarestia.

 

Ci rediamo conto che si torna sempre lì, alla Comunione. Come se, nel mondo disincantato che non crede più, nell’ambito cattolico che ha in larga parte dimenticato che quella cosa è sostanzialmente Dio, ci fosse un attacco continuo. Bisogna sminuirla, degradarla, farla ingoiare a peccatori impenitenti.

 

In passato vari personaggi mediatici «laici» (cioè, massoni o paramassoni) hanno cavalcato la storia secondo cui nel prato di Tor Vergata, dopo la conclusione della titanica GMG del Giubileo 2000 – quella dove si coniò l’irresistibile insulto papaboys – i netturbini trovarono quantità di preservativi.

 

Gli apologeti dell’8 per 1000 schiumarono di rabbia per anni: non c’è nessuna prova, dissero, né foto né video.

 

Tuttavia, rifacciamo il calcolo di cui sopra: metti insieme, in un contesto di gioia e di avventura fuori di casa, qualcosa come 2 milioni di giovani sistemi endocrini perfettamente funzionanti (era il 2000: i ragazzi non erano ancora stati psico-ormonalmente rovinati da decadi di gender, inquinamento e farmaci come quelli di oggi) e poi, cosa credi che possa succedere?

 

La questione, semmai, è che all’epoca il papaboys potrebbe aver fornicato, gommandosi, di nascosto, in quanto sapeva che ambo le cose erano un peccato per l’istituzione ospite, la chiesa cattolica, che una qualche parte nella sua vita di parrocchiano, magari, l’aveva ancora.

 

23 anni dopo, con le ragazzine che proclamano la fine del peccato grazie al papa del sesso prematrimoniale cattolico, non siamo sicuri che il fenomeno si sia prodotto nascostamente.

 

Sono supposizioni, la parola spetta solo ed esclusivamente ai netturbini che stanno ora pulendo il macello del dopo GMG lisbonese – una categoria già esposta, come canta una antica canzone cripto-abortista, ai frutti del peccato, in quanto si ritrova spesso ad incontrare, nel cassonetto differenziato, il bambino neonato. (Questa, al di là dell’ironia, è un’altra questione che ha implicazioni sacre, essendo quel bambino Imago Dei).

 

Tuttavia non è dei profilattici usati che gli spazzini troveranno al suolo che ci preoccupiamo.

 

Ben più grave è la certezza che, tra i rifiuti, troveranno miriadi di ostie consacrate. Non lo dico io, calcolandolo con la logica. Lo ha denunciato il cardinale Malcolm Ranjith, già segretario della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, nell’introduzione al libro del vescovo ausiliario di Astana Athanasius Schneider, Dominus est (2008).

 

«Ci sono poi abusi di chi porta via le sacre specie per tenerle come souvenir, di chi le vende, o, peggio ancora, di chi le porta via per profanare in riti satanici. Tali situazioni sono state rilevate. Persino nelle grandi concelebrazioni, anche a Roma, varie volte sono state trovate delle specie sacre buttate a terra» scrive il porporato cingalese nel libro del vescovo che, con la sua famiglia perseguitata dai sovietici nel Centrasia del dopoguerra, ha scritto di cattolici che nell’URSS per la Santa Eucarestia erano disposti a rischiare la vita – e in alcuni casi la hanno anche persa.

 

Quindi, alla GMG migliaia di Sante Comunioni possono essere andate disperse, gettate – se non hanno fatto una fine peggiore, appunto, nelle messe nere. Questa è la meccanica conseguenza degli eventi con distribuzione massiva del Corpo di Nostro Signore, e, ancora di più, della Comunione data sulla mano e non sulla lingua.

 

Quindi: il grande raduno cattolico ha come risultato la sofferenza sostanziale di Gesù Cristo? Il sacrilegio?

 

Lo capite anche da voi cosa sta accadendo. Invece che il canto gregoriano, abbiamo la musica elettronica. Invece che sacerdoti, abbiamo DJ. Invece che processioni, abbiamo rave ai quali i giovani arrivano convinti di poter fare sesso liberamente.

 

La finestra di Overton è bella che spalancata: quanto pensate che ci vorrà prima che le GMG divengano orge? Credete che non sia lo sbocco naturale di una chiesa paganizzata e paganizzante, che sta sdoganando il gender, il transessualismo, i bambini fatti in laboratorio, perfino le parolacce sconce, nella decostruzione più totale della morale sessuale?

 

Credete che l’istituzione che ha portato milioni – miliardi, forse – di persone a vaccinarsi con un siero genico ottenuto tramite aborti, non arrivi a pratiche storicamente definibili come sataniche? (Biologicamente e forse moralmente, pure, meno gravi dell’inoculo mRNA)

 

Tuttavia, le orge dei giovani cattolici del futuro sono forse la cosa meno importante.

 

Perché qui, ed ora, è il Corpo di Nostro Signore che è attaccato, umiliato, torturato ed abbandonato durante il megaevento neopapista.

 

Quelle specie eucaristiche che gli spazzini portoghesi stanno trovando, sono l’esatto scopo di tutto il programma. Attaccare Gesù nel suo Corpo, farlo soffrire come ha sofferto in Croce.

 

Credo che su Renovatio 21 sia già stato ripetuto: l’intera storia moderna, tutti i grandi fenomeni politici, geopolitici e religiosi a cui stiamo assistendo, hanno un unico denominatore – sono attacchi al Corpo e all’Immagine di Dio.

 

L’aborto e il Concilio Vaticano II, i bambini nei cassonetti o nelle provette o nei barattoli disseminati nei prati e l’Amoris Laetitia, l’imperialismo LGBT e il rito della messa maya altro non sono che la lotta contro il Corpus Domini, lotta contro l’Imago Dei.

 

Domanderete: ma il committente, chi è? Chi ha davvero dichiarato questa guerra contro Dio e – di conseguenza – contro l’uomo?

 

La risposta, riuscite a darvela da soli?

 

Riuscite a capire chi è il DJ principale del rave?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine screenshot da Twitter

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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