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Mons. Viganò, «migrazione forzata» e «conquista islamica»: la «visione distopica, antiumana, anticristiana ed anticristica» di Bergoglio

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Nella lunga e densa intervista rilasciata pochi giorni fa al vaticanista Aldo Maria Valli, l’arcivescovo ha trattato articolatamente il tema dell’immigrazione secondo quella che è la vera dottrina cattolica, condannando le distorsioni sul tema operate dal Vaticano bergogliano, con il gesuita argentino, come noto, ha pochi mesi definito l’opposizione alle migrazioni «un peccato grave».

 

In particolare, monsignor Viganò attacca l’uso fatto da Bergoglio della Costituzione Apostolica di Pio XII Exsul Familia, che secondo il prelato lombardo è citata completamente a sproposito.

 

«Il “magistero” della chiesa bergogliana è totalmente autoreferenziale: Bergoglio cita praticamente solo se stesso, e quando cita documenti del Vaticano II e dei Papi postconciliari è per superarli. Vedere citato Pio XII da Bergoglio dovrebbe dunque suscitare un più che legittimo sospetto, confermato nei fatti anche da una rapida lettura di Exsul familia» dice l’arcivescovo.

 

«Lo zelo apostolico di Papa Pio XII – così come dei suoi Predecessori – non si limita ad una mera indicazione della necessità di accogliere i flussi migratori, ma si concentra anzitutto sulla cura d’anime dei Cattolici costretti a migrare a causa di carestie, conflitti, persecuzioni religiose. Anche se le grandi migrazioni economiche dell’Ottocento e del Novecento erano mosse dalle stesse lobby internazionali, spostando popolazioni dal Sud dell’Europa al Nord, o dall’Europa alle Americhe, non possiamo dimenticare che il contesto storico del dopoguerra era ben diverso da quello attuale, anzitutto perché la Chiesa Cattolica non era – né avrebbe mai potuto essere – alleata e complice della Massoneria, ma ferma e coraggiosa protettrice dei poveri e dei deboli; e in secondo luogo perché oggi l’attacco alla nostra civiltà è molto più violento e scoperto di quanto non fosse alla fine del secondo conflitto mondiale».

 

Monsignore cita dunque un passo dell’enciclica di Pio XXI: «La Santa Madre Chiesa, spinta dal suo immenso amore per le anime ed impaziente di adempiere agli impegni dell’universale salvifico mandato affidatole da Cristo, non tardò a prendersi la cura specialmente spirituale anche dei pellegrini, dei forestieri, degli esuli, di tutti gli emigranti, senza risparmio di forze e valendosi principalmente di sacerdoti, i quali, mediante l’amministrazione dei carismi della grazia e la predicazione della parola divina, lavorassero con ogni sollecitudine a confermare quei cristiani nella fede ed a stringerne i vincoli di carità» (Const. Ap. Exsul Familia, 1 agosto 1952, n. 5).

 

La cura di «pellegrini, dei forestieri, degli esuli, di tutti gli emigranti» (notare l’ordine) è quindi essenzialmente di tipo spirituale, lontana dai traffici materiali in cui paiono immersi gli episcopati oggi in tutto l’Occidente.

 

«L’ultima cosa che Bergoglio persegue è la difesa dell’integrità della Fede o la salvezza delle anime» continua Viganò. «Né ha veramente a cuore i poveri: basta vedere quanti clochards sono accampati attorno al Vaticano e sotto il Colonnato del Bernini; all’epoca del COVID per ottenere un pasto dovevano mostrare di aver ricevuto il vaccino».

 

«Quell’orribile barcone in bronzo eretto in Piazza San Pietro è un monumento all’ipocrisia di Bergoglio» tuona l’arcivescovo. «Per lui i poveri e gli emarginati sono un mero strumento per “meticciare” il tessuto sociale e ecclesiale, cioè per dissolverlo ed ottenere così la definitiva cancellazione di ciò che resta della Società Cristiana dopo decenni di secolarizzazione».

 

Il fine, sembra suggerire l’ex nunzio apostolico, è infine di matrice spirituale, ma di segno inverso rispetto allo spirito cristiano.

 

«Bergoglio “pensa in grande”: vuole creare le premesse alla Nuova Religione dell’Umanità, illudendosi di poterla presiedere e di ricavarsi così un ruolo nel Nuovo Ordine Mondiale. Come profeta del globalismo sincretista, green ed inclusivo, Bergoglio è arrivato a fare la sua comparsa al festival di Sanremo, lanciando il brano di John Lennon Imagine, manifesto massonico del Nuovo Ordine.

 

«La Costituzione apostolica di Papa Pio XII è di tenore totalmente opposto a questa visione orizzontale, come lo è tutto il Magistero cattolico rispetto a quello bergogliano» spiega ancora monsignore. «In Exsul Familia Pio XII ricorda la tratta degli schiavi per mano degli usurai in terra americana (n. 11); accenna ai pericoli cui erano stati esposti i Messicani in fuga dalla rivoluzione anticlericale e massonica (1926-1929), fatti preda dei nemici di Cristo (ibid. 54). Ben altro è l’atteggiamento di Bergoglio verso i cristiani perseguitati: con l’Accordo segreto stipulato con il regime comunista di Pechino egli ha consegnato i Cattolici cinesi al massacro e tace sulle violazioni dei diritti fondamentali».

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L’arcivescovo poi tratta la questione dell’ascesa dell’islam in Europa per tramite delle migrazioni massive.

 

«Nella visione distopica – antiumana, anticristiana ed anticristica – di Bergoglio, le nostre nazioni sono terre di conquista maomettana: a questo serve l’ecumenismo conciliare. Per il Corano, dove risuona il richiamo del muezzìn e dove viene steso “il tappeto di preghiera”, lì è territorio islamico. La connivenza del clero bergogliano, che ospita gli imam nelle nostre chiese e concede alla preghiera i sagrati delle nostre Cattedrali, costituisce un tradimento di Cristo e dei fedeli».

 

«Un’immigrazione regolata, nella quale vige una reale integrazione e in cui la Chiesa Cattolica si impegna per la conversione alla vera Fede dei pagani, è l’ultima cosa che vuole Bergoglio: lo scopo dell’invasione non è aiutare i diseredati e i poveri, ma importare povertà, caos sociale e guerra civile nelle nostre città. E se il globalismo appoggia Bergoglio, è perché questi è un suo emissario, obbediente agli ordini che gli sono stati impartiti».

 

«Quella cui assistiamo è di fatto una migrazione forzata, che depaupera gli Stati d’origine di tanti uomini e giovani che potrebbero renderne saldi i governi e prospera la Nazione, per fare di essi criminali, schiavi, vittime dei turpi traffici di pervertiti o del mercato della predazione degli organi. Centinaia di migliaia di minori scompaiono ogni anno nel nulla, con la complicità di chi perverte la carità cristiana nella colpevole contraffazione di un’accoglienza per trarne profitto».

 

Il decremento demografico, pianificato da politiche che disincentivano la natalità e penalizzano la famiglia naturale, costituisce lo scopo principale dell’azione dell’élite globalista, per cui essa propone come soluzione la sostituzione etnica con masse di stranieri». Un tema, quello della grande sostituzione, trattato da monsignore più volte, come quando definì il processo migratorio come «ingegneria sociale del globalismo» promossa da Bergoglio.

 

«Nel 2015 Bergoglio ha detto: “C’è chi crede che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come conigli”» ricorda Viganò. «Oggi sostiene che il calo demografico dei Paesi occidentali deve essere combattuto non con sagge politiche di tutela della famiglia naturale e dignitose condizioni di lavoro, ma con le frontiere aperte e l’istituzionalizzazione di quel meticciato tanto caro all’emerito Arcivescovo di Milano card. Scola e teorizzato dal massone eugenista neomalthusiano Kalergi sin dalla metà del secolo scorso».

 

Insomma, «non più figli cattolici in terra cattolica, ma figli meticci, senza storia, senza tradizione, senza educazione né cultura, senza identità, senza Patria né senza Fede, sfruttati per alimentare il Moloch globalista e la tirannide del World Economic Forum» tuona ancora l’arcivescovo.

 

«La distopia globalista di Bergoglio mira alla cancellazione delle identità nazionali ed etniche, specialmente laddove esse siano fondate sulla civiltà cristiana; e al contrario promuove ciò che è legato a credenze pagane ed idolatriche. La cancellazione di ogni differenza e l’omologazione esteriore delle culture dovrebbe essere considerata dalla Chiesa Cattolica come una sciagura, mentre la chiesa bergogliana se ne fa sconsiderata promotrice».

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Il Corriere e Lavrov, apice del cringe giornalistico italiano

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In un episodio imbarazzante come pochi altri per la stampa nazionale italiana, il Corriere della Sera ha rifiutato di pubblicare un’intervista esclusiva con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.   L’incredibile sviluppo è stato ridicolizzato dal portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova, che, facendo ridere i presenti ad un briefing a Mosca, ha raccontato che quando il ministero russo ha chiesto come mai l’intervista non fosse stata pubblicata il Corriere avrebbe risposto che non c’era spazio; la Zakharova ha proseguito dicendo che, visiti i «problemi con la Carta che deve avere l’Italia», era stato proposto dal Cremlino di pubblicarla sul sito, ma sarebbe stato risposto da via Solferino che non c’era spazio nemmeno su internet. Infine, non si sa quanto scherzando, la portavoce dice che è stato ulteriormente proposto all’antico quotidiano italiano di pubblicare un link ad una pagina esterna, ma sarebbe stato detto che non c’era spazio nemmeno per quello.   È finita che l’intervista la ha pubblicata il sito del ministero degli Esteri russo e dell’ambasciata russa in Italia.  

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Se le parole della Zakharova non fossero per ischerzo saremmo davanti ad un fatto di gravità – professionale, diplomatica, umana – sconcertante. Il racconto della portavoce racconta di una vetta di cringe giornalistico senza precedenti.   Nelle scorse ore il giornale della borghesia italiana ha tentato di rispondere, giustificando la mancata pubblicazione di uno dei vertici della massima superpotenza atomica planetaria (possiamo dire «censura»?) con i contenuti dei discorsi del Lavrov, che con evidenza il giornale ed i suoi padroni non condividono – ma dei quali i lettori dovrebbero essere informati.   «Le risposte del ministro contenevano anche molte affermazioni del tutto discutibili e dal chiaro intento propagandistico» scrive il Corriere in un articolo. Come, ad esempio, il passaggio sul «cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama» (in via Solferino forse erano in vacanza quando uscì l’audio di Victoria Nuland che oltre che a parlare degli investimenti USA e decidere il premier di Kiev proclamava in maniera indimenticabile «Fuck the EU»), oppure quello sul «regime di Kiev» che definisce «subumani» o «terroristi» gli abitanti delle quattro regioni ucraine annesse illegalmente dalla Russia» (anche qui, forse il giornalone era in letargo negli anni dal 2014 al 2022, e quanto alle annessioni illegali, magari ricordare che ci sono stati dei referendum in zone quasi totalmente russofone sarebbe stata una cosa bella e «giornalistica»)   Il Corriere mica desiste: ha cancellato la pubblicazione dell’intervista al decano della diplomazia mondiale perché «in altre parti, Lavrov arriva a sostenere che, “a differenza degli occidentali”, l’esercito russo protegge “le persone, sia civili che militari” e che le “nostre forze armate” agiscono “con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche”».   Qui sarebbe bello che il giornalissimo dimostrasse che non è così, facendoci vedere, chessò, Kiev e Kharkov ridotte in macerie come Baghdad e Beirut – perché non è che ci voglia un genio per vedere quanto la guerra condotta dalla Russia sia diversa da quelle fatte da USA, NATO e compagni in Iraq, Libano, Afghanistan, Siria, Libia e pure in Serbia… Diverso è il caso di Donetsk, città che dicono essere ucraina, ma che l’Ucraina, per qualche ragione, bombarda, anche a Natale e a Pasqua vicino alle chiese, nei mercati, nei centri commerciali, con le ondate di sangue civile che conosciamo: ma guarda chi li fa, i massacri degli innocenti.   Al Corrierone, come a tutte le testate occidentali possedute da camerieri atlantici o peggiobrucia ancora che Bucha non sia riuscita col buco, e di questa presunta «strage» che doveva fungere da casus belli per mandare i nostri soldati a morire in Ucraina non se ne è fatto più nulla. Voi avete più sentito nulla? Chissà perché.   Ma non basta: il Corriere è disturbato assai dal fatto che il Lavrov «dichiara che «il nazismo sta rialzando la testa in Europa». Lo scrive il giornale dove in prima pagina, con corsivi non esattamente imperdibili, scrive per qualche ragione uno che in TV andò a dire che un generale vicino al Battaglione Azov è «giusto» come Schindler e Perlasca. Lo scrive il giornale il cui inviato a Kiev riprese un militare nazi-odinista dichiarare la sua fede pagana dinanzi all’assedio dei monaci della Lavra. È stato detto, giustamente, che il Corriere in quell’occasione era riuscito, senza volerlo, a realizzare l’apice della propaganda ucraina e pure russa nello stesso momento.  

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  Ma non è finita. Il giornalone nelle mani del venditore di pubblicità proprietario del Torino calcio alza il ditino con boria e pervicacia: «il ministero degli Esteri russo ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere della Sera con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista con un contraddittorio e con la contestazione dei punti che ritenevamo andassero approfonditi il ministero ha opposto un rifiuto categorico».   Un’intervista scritta con il contraddittorio? Ma di cosa stanno parlando? Il compito dell’intervistatore è sentire quello che dice il più alto diplomatico della superpotenza oppure salvaguardare la mente dei lettori dalla possibilità di sentire l’altra campana – cioè il lavoro che dovrebbe fare il giornalismo?   Lavrov, accusa il Corrierissimo, «Evidentemente pensava di applicare a un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata». A questo punto non è più possibile trattenere le risate. «Quando il ministro Lavrov vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili».   Il Corriere «libero e indipendente»? Eccerto. Ce lo ricordiamo in pandemia, quando, dopo decenni di abbonamento (chi scrive ha letto quel giornale quotidianamente da quando aveva praticamente 15 anni) abbiamo mollato il colpo, ché le menzogne (per esempio sull’ivermectina farmaco per cavalli) erano divenute intollerabili. Anche dopo, con la guerra ucraina e la lista dei putiniani italiani, con per soprammercato la stupenda affermazione che la stampa russa avrebbe usato come manifesto un articolo di Manlio Dinucci: le giornalistissime in cima al massimo quotidiano italiano non si era ovviamente peritata di comprendere o approfondire nulla – Dinucci riprendeva uno studio della Rand Corporation, citato varie volte anche da Renovatio 21, dipingendo quindi l’84 geografo italiano come faro della politica di Putin… eh?   Vabbè, qualche lettore lo sa: con il Corriere per Renovatio 21 ci può essere stata qualche screzio in passato. Come quando un video un po’ minaccioso di Bill Gates e consorte (col COVID stavano ancora assieme) trovato e sottotitolato da Renovatio 21 comparve per magia, senza credito alcuno, talis et qualis sul sito del Corriere.   Faccia il lettore il confronto. L’unica vera differenza e che noi – che abbiamo realizzato i sottotitoli, sistemato l’audio e finalizzato – non ci abbiamo messo la pubblicità.    

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O quella volta che, ci segnalarono tanti lettori, c’era nelle pagine di cultura quella lenzuolata della celeberrima romanziera Susanna Tamaro sulla scuola che sembrava, a detta di molti, un pochino somigliante ad un articolo di Elisabetta Frezza pubblicato sulle colonne di Renovatio 21.    Pressati dal nostro pubblico, scrivemmo all’altezza del Natale 2022 alla redazione di via Solferino. Siamo in grado qui di riprodurre la missiva.   Gentili signori della redazione del Corriere,
abbiamo ricevuto diverse segnalazioni riguardo una possibile somiglianza tra l’articolo comparso sul Vostro giornale lo scorso mercoledì 21 dicembre a firma di Susanna Tamaro («Perché dico no alla Scuola 4.0») e l’articolo di Elisabetta Frezza pubblicato da Renovatio 21 in data  14 dicembre 2022 (ore 15:56) con il titolo «L’abisso del Piano Scuola 4.0».
(…) Le simiglianze segnalateci dai lettori sono varie, tra cui, ad esempio, il curioso uso dell’espressione «Giovani Marmotte», che ricorre nel successivo pezzo della Tamaro, che i lettori ci ricordano essere stata impiegata in altri discorsi della dott.ssa Frezza, come l’articolo pubblicato da Renovatio 21 «Scuola, cosa ci aspetta a settembre», del 13 luglio 2020.
Più in generale, ci segnalano una certa corrispondenza fra i due articoli nella disposizione degli argomenti.
Chiederemmo dunque, se possibile, un Vostro commento a riguardo.
In attesa di Vostre,
Auguriamo a tutta la Redazione del Corriere e alle rispettive famiglie Buon Natale.
  Secondo voi i colleghi del Corriere dei grandi ci risposero? Maddeché – neppure agli auguri di Natale.   Gli auguri a questo punto glieli facciamo noi: perché, se continuano così, quanto avanti potrà andare ancora avanti il giornalismo italiano?   Roberto Dal Bosco  

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Il potere della vittima

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È riemersa in queste ore una vecchia storia dell’orrore, quella dei «turisti-cecchini» italiani che avrebbero pagato per andare ad uccidere persone a caso nella Bosnia dilaniata dalla guerra degli anni Novanta. «I cecchini del weekend, dall’Italia a Sarajevo per uccidere: “Centomila euro a bambino, safari criminale”» titola Il Giorno.

 

È la storia, mai del tutto definita, delle «battute di caccia» di crudeli cittadini italiani nel caos sanguinario della fine della Yugoslavia.

 

«Viaggi in aereo fino a Belgrado, per poi spostarsi in elicottero o con veicoli a Pale e Sarajevo, ma anche a Mostar, altra città della Bosnia-Erzegovina dove secondo alcune testimonianze sono stati notati “tiratori turistici”» scrive il quotidiano, che fa almeno un nome, quello di «Jovica Stanisic, ex capo del servizio di sicurezza della Serbia condannato a 15 anni di carcere all’Aia per crimini di guerra nella ex Jugoslavia», il quale «avrebbe svolto un “ruolo” nell’organizzazione».

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L’articolo parla di esposto di un giornalista italiano alla Procura di Milano, per il quale potrebbe essere ascoltato dal giudice una delle fonti dei virgolettati del pezzo, un ex ufficiale dell’Intelligence militare della Bosnia, cioè il Paese considerato vittima delle violenze dei serbi.

 

«Per il modo in cui tutto era organizzato – ha spiegato l’ex 007 – i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo e che fosse coinvolto anche il servizio di Intelligence militare serbo con l’assistenza di comandanti serbi nella parte occupata» continua Il Giorno.

 

La storia raccontata dalla spia militare bosniaca è allucinante: all’epoca, ha raccontato, «condividemmo le informazioni con gli ufficiali del SISMI(ora AISI) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste (…) un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste». Nell’esposto, prosegue la testata «si fa riferimento a “soffiate” pure sul tariffario dell’orrore: “i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis”».

 

I nomi, tuttavia, non saltano fuori. Un altro articolo sempre de Il Giorno titola «Cecchini del weekend a Sarajevo, l’ex 007 bosniaco: “Il SISMI fu informato e li bloccò. Ma non abbiamo mai ottenuto i nomi”».

 

Nelle conclusioni fa capolino, d’un bleu, il neofascismo: «la speranza è quella di riuscire a dare un nome agli impuniti “cecchini del weekend” e trovare elementi in grado di portare a una svolta, trent’anni dopo i fatti. Persone vicine ad ambienti dell’estrema destra, che avrebbero agito “con la copertura dell’attività venatoria” e con soldi da spendere». Insomma fascisti abbienti in combutta con i servizi di un Paese post-comunista, per il brivido di uccidere a pagamento.

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Lasciamo alla magistratura il lavoro di accertare i fatti, che sarebbero di gravità rivoltante – notiamo, tuttavia, che a distanza di 30 anni questi ricchi destrorsi potrebbero ora avere quasi ottant’anni (e quindi, potrebbero scampare la galera anche se condannati) oppure essere addirittura deceduti.

 

Questo rigurgito della guerra yugoslava ci riporta alla mente tante, tantissime cose. Ci ricordiamo quando, all’epoca, eravamo praticamente convinti delle storie degli orchi serbi e dei poveri bosniaci, senza minimamente pensare che si trattasse di propaganda NATO: l’Occidente, secondo un disegno usato più di una volta, voleva spaccare la Yugoslavia cugina della Russia, e, manovra più interessante, creare un piccolo Stato musulmano in Europa.

 

E ce la fecero: eccoti la Bosnia-Erzegovina (un nuovo Stato talmente autentico da avere un nome duplice, tipo Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Massa-Carrara), con a capo Alija Izetbegović (1925-2003), da giovane membro dei Mladi Muslimani, i «Giovani Musulmani» che volevano un ritorno all’Islam più puro per le genti yugoslave la cui pratica era stinta.

 

I «Giovani Musulmani» si divisero tra il sostegno alla divisione Handschar delle Waffen-SS, a maggioranza musulmana, o ai partigiani comunisti jugoslavi. Il New York Times sostiene che si sia unito alla divisione Handschar delle SS. Vedendo l’Ucraina odiera sappiamo, tuttavia, che l’Occidente è disposto a chiudere un occhio sulla svastica, se è per dare addosso a nemici della Russia.

 

Finita la guerra, nel 1946 lo trovano a pubblicare un giornale clandestino chiamato Muzhahid («Mujahiddin») e viene imprigionato per «affermazioni contro l’Unione Sovietica».

 

Nel 1970, Izetbegovic pubblicò un manifesto intitolato Dichiarazione islamica, in cui esprimeva le sue opinioni sui rapporti tra Islam, Stato e società. Il manifesto fu vietato dal governo, che vi vedeva una cospirazione per l’istituzione di una Bosnia-Erzegovina «islamicamente pura». La Dichiarazione designava il Pakistan come un Paese modello da emulare per i rivoluzionari musulmani di tutta la Terra.

 

«Non può esserci pace o coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche… lo Stato dovrebbe essere un’espressione della religione e dovrebbe sostenere i suoi concetti morali» scrive ancora il futuro presidente bosniaco, il quale non abbiamo idea di quante foto abbio fatta assieme ai nostri primi ministri, presidente, deputati, etc.

 

In pratica, un fondamentalista islamico al vertice di un Paese Europeo, creato apposta per lui. Uno Stato Islamico europeo, sia pure senza la boria videomatica che successivamente mostrò l’ISIS, come da disegno del mondo-Clinton. Creiamo un Stato musulmano teoricamente «moderato» (anche se cosparso di integralisti), come spina nel fianco dell’Europa, pronto per fare, alla bisogna delle «cose interessanti».

 

Per significare queste «cose interessanti» voglio buttare là, così per fare, un paio di volte in cui la narrazione della Bosnia come vittima dei malvagi serbi, qualche volta, anche leggendo i giornaloni, ha vacillato. Per esempio, quando si apprese che l’allora imam della controversa moschea di viale Jenner a Milano finì i suoi giorni in battaglia in Bosnia – e chissà quindi cosa predicava sotto la Madonnina, e chissà chi faceva passare di là, tenendo presente che erano pure gli anni delle infinite stragi islamiche in Algeria.

 

Vi fu poi l’incredibile storia, circolata su qualche giornale e TV, del villaggio musulmano bosniaco da dove, dieci anni fa, sarebbe partito un commando suicida, poi neutralizzato, intento a fare esplodere Piazza San Pietro durante i funerali di Giovanni Paolo II, incredibile celebrazione dove potevano disintegrare una quantità di Presidenti americani, europei, africani, asiatici più re e regine e perfino il papa successivo. Si parlò di un gruppo chiamato «Gioventù islamica attiva», nome non tanto distante da quello del gruppo del presidente bosniaco mezzo secolo prima.

 

La storia della Bosnia-pakistana e dei balcani islamici non si fermò a Sarajevo.

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Di lì a poco arrivò il Kosovo, dove si ripeté lo schemino: con la spintarella atlantico-americana, via un pezzo della Yugoslavia, cioè la Serbia, legata ai russi, e avanti con un altro staterello islamico-europeo – il quale sarebbe divenuto, di lì a poco, il primo Paese al mondo per esportazione pro-capite di foreign-fighter ISIS. La guerra del Kosovo fu un’ulteriore galleria dell’orrore, con la NATO che stavolta arrivò a bombardare direttamente Belgrado e oltre, mentre in televisione servivano immagini di un esodo di kosovari musulmani che denunziavano ogni tipo di violenza: ecco, gli islamici yugoslavi erano, ancora una volta, vittime dei serbi.

 

Non che i serbi non abbiano riflettuto, in qualche modo, su questo schema di vittima-carnefice in cui, per un disegno geopolitico, metapolitico immenso, si sono trovati incastrati.

 

Lo ha fatto un film che non ho visto, e che non vedrò mai (perché ci tengo all’integrità della mia mente) così come con probabilità non lo vedranno in Spagna, Portogallo, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Brasile, dove la pellicola è stata proibita. Si tratta di un horror intitolato, semplicemente Srpski film (2010), noto internazionalmente come A Serbian film («Un film serbo»).

 

Quello che so della trama lo devo ad un amico serbo, divenuto poi cittadino italiano, che non c’è più, perché divorato da un turbo male, al cui pensiero ho gli occhi lucidi anche ora mentre scrivo. Lui – che no, non aveva nessun istinto orrendo, essendo una delle persone più buone che abbia mai conosciuto – mi spiegava come questa storia lasciava il segno nella sensibilità serba dopo gli anni di guerra.

 

La trama del film, che riprendiamo dall’enciclopedia online, vede Milos, un pornodivo ritiratosi a vita privata per stare con moglie e figlio, venga invitato ad una nuova produzione serba per il mercato estero. Il produttore, che offre una quantità di danaro immensa che permette a Milos di risolvere i suoi guai finanziari, specifica nel contratto che il pornoattore non deve sapere nulla del film che sta girando.

 

Il primo set della misteriosa produzione cinematografica è un orfanotrofio, dove Milos assiste al pestaggio di una ragazzina da parte di sua madre, una prostituta, che poi farà una scena di fellatio con lui dinanzi alla figlia: l’uomo si rifiuta, ma è costretto dai cameraman, e invitato a picchiare a sua volta la donna.

 

A quel punto Milos, disgustato e sconvolto, decide di non proseguire le riprese e va a parlare con il produttore, che si scopre essere uno psicologo con un oscuro passato in polizia. Il produttore gli spiega che lui stesso, come Milos e tutto il popolo serbo sono «vittime», e la «vittima», dice, è ciò che vende di più. L’uomo quindi mostra al protagonista un filmato ributtante e demoniaco al punto che nemmeno la descriviamo qui. L’attore decide di troncare, ma si sveglia in un letto coperto di sangue: è stato drogato, e ora non trova più la famiglia, e dove erano gli uffici del produttore trova solo cassette in cui egli, sotto l’effetto di una qualche sostanza, stupra, uccide, viene stuprato.

 

Seguono ancora torture, minacce di castrazioni e scene ancora più intollerabili, con un finale che svela una realtà di orrore davvero abissale. La famiglia…

 

In fondo alla storia, una scena fa capire che anche quell’abominio è motore per la filiera dei carnefici.

 

Il mio amico, che diceva non aver retto alla visione di tutto il film, mi raccontava che la pellicola aveva attivato in tanti serbi la realizzazione di essere stati manipolati negli anni della guerra e dell’orrore, un continuum dove forze più grandi, e più oscure, ti spingevano verso questo meccanismo perverso ed incomprensibile… sei vittima… sei carnefice… cosa sei? La pazzia, a questo punto, è una reazione appropriata, ed è forse quello che vogliono: il pazzo è manipolabile, non in grado di unirsi ad altri e opporre resistenza.

 

Allo stesso tempo, è impossibile non interrogarsi su ciò che il sistema chiama «vittima»: è vittima («scappa dalla guerra») l’immigrato, che a spese nostre spaccia e stupra nella nostra città; è vittima l’omotransessuale (perché indotto ad odiarsi dalla «società omofoba»), che pretende oggi di comprare i bambini e poi farli castrare e riempire di ormoni sintetici; è vittima l’ebreo israeliano (perché «l’Olocausto», «il 7 ottobre, etc.»), che poi compie il massacro robotico automatizzato di decine migliaia di palestinesi, e non sembra nemmeno volersi fermare lì.

 

Conosciamo la cifra metafisica di questo processo: è la sostituzione dell’Agnello con il caprone infernale. Di Cristo con Bafometto. Il carnefice diviene, per il racconto sistemica, la vittima: ecco spiegato il fascino assoluto per gli accusati di episodi di cronaca nera, che divengono ben più importanti dell’ammazzato, sino a trovare uno zoccolo di opinione pubblica che li ritiene innocenti. Agnelli, appunto.

 

Abbiamo raccontato qui la trama di un film horror estremo. Il lettore di Renovatio 21 sa, tuttavia, che scene ancora più estreme si sono avute nella realtà – per esempio con il traffico degli organi in Kosovo.

 

Rammentiamo l’Esercito di liberazione del Kosovo, il gruppo militante kosovaro albanese sostenuto dagli USA clintoniani chiamato UCK (memorabili le immagini alla TV italiana con i miliziani mascherati in stile ETA e le bandiere albanese e statunitense). I membri dell’UCK alcuni dei quali arrivati sono giunti alle più alte cariche del nuovo Stato kosovaro, hanno subito accuse di prelievo illegale di organi, come nel caso del presidente kosovaro Hashim Thaci.

 

Durante il periodo in cui era a capo dell’Esercito di liberazione del Kosovo, il Washington Times ha riferito che l’UCK finanziava le sue attività con il traffico di droghe illegali di eroina e cocaina nell’Europa occidentale. Secondo Carla Del Ponte, procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dal 1999 al 2007, civili serbi – tra cui donne e bambini – furono rapiti dall’UÇK e successivamente trasferiti a Burrel, in Albania, dove vennero trattenuti in attesa dell’espianto dei loro organi, destinati a cliniche turche specializzate in trapianti; alcuni subirono più prelievi prima di essere uccisi e fatti sparire.

 

Le accuse contro Thaci risalgono a decenni fa, e furono formulate da sedi istituzionali come il Consiglio d’Europa di Strasburgo. Un rapporto al Consiglio d’Europa, scritto da relatore presso il Consiglio d’Europa Dick Marty ed emesso il 15 dicembre 2010 afferma che Thaci era il leader del «Gruppo Drenica» incaricato del traffico di organi prelevati dai prigionieri serbi. Come noto ai lettori di Renovatio 21, i trapianti di organo – cioè, la predazione degli organi – possono avvenire solo a cuor battente, e con il ricevente non troppo lontano. Diverse agenzie di stampa internazionali riportarono quindi che in un’intervista per la televisione albanese il 24 dicembre 2010, Thaçi aveva dichiarato che avrebbe pubblicato informazioni sui nomi di Marty e dei collaboratori di Marty. Nel 2011, Marty ha chiarito che il suo rapporto coinvolgeva gli stretti collaboratori di Thaci ma non lo stesso Thaci.

 

Il 24 aprile 2020, le Camere specializzate per il Kosovo e l’Ufficio del procuratore specializzato con sede all’Aia hanno presentato un atto d’accusa in dieci capi per l’esame della Corte, accusando Thaci e altri di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, sparizione forzata di persone, persecuzioni e torture.

 

Non si contano le foto dei nostri politici con Thaci, divenuto presidente del neo-Stato kosovaro, scattate con i nostri primi ministri, presidenti, politici – molti dei quali, ancora oggi attivi a sinistra, ebbero un ruolo nella guerra a seguito della quale il Kosovo albanese fu creato, con i caccia statunitensi che partivano dall’Italia…

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Pensate sia finita? Macché: ci è stato servito, in questi anni, un bel sequel. Una bella guerra proxy sostenuta dalla NATO sempre contro i russi, ma stavolta ancora più direttamente: non più i cugini serbi, ma i fratelli ucraini.

 

Eccoti riservita la sbobba della vittima: Kiev, poverella fra le Nazioni, deve essere sostenuta con miliardi e armi, perché vittima dell’invasione dell’orco russo. Ecco che spuntano fuori stragi compiute dai russi malvagi, come Bucha, di cui per qualche ragione non si parla più: ma lo status di vittima dell’Ucraina, Paese aggredito, rimane inscalfibile, lo dice pure Giorgia Meloni.

 

Pazienza se la vittima ha, come dire, forti simpatie naziste, si chiude un occhio anche qui. Pazienza pure se – è capitato – emerge pure qualche collegamento con il fondamentalismo islamico. Pazienza se la vittima è accusata di abominevoli torture e di aver compiuto crimini di guerra, di essere un pericolo per gli stessi Paesi che la sostengono. La storiella atlantica va avanti spedita, e comincia a fregarsene platealmente delle vostre dissonanze cognitive.

 

Quale pensate che sia, anche qui, uno degli effetti collaterali dello schemino geostrategico occidentale? Indovinato: anche qui si è parlato, e plurime volte in questi anni, di traffico degli organi in zona di guerra, con coinvolti, secondo le accuse russe, personaggi israelo-ucraini che avevano già calcato la scena in Kosovo.

 

Il film dell’orrore lo abbiamo già visto. Sappiamo come va a finire.

 

È il caso di uscire dal cinema NATO. Al più presto.

 

Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia

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In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.   Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.   Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.   Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.

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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.   Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.   Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.   Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.   Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.   Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.   Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.   Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.   E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.   Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.   Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.   Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.   Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».   Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».   Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.

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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.   Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.   E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.   Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.   Patrizia Fermani

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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata
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