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Leggi del Congresso USA in preparazione della guerra contro la Cina?

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Il disegno di legge del Congresso USA chiamato Taiwan Policy Act 2022 è stato approvato dalla commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti lo scorso il 14 settembre; ora si dirige all’aula del Senato.

 

Il disegno di legge si concentra sull’espansione sia della natura che dell’importo degli aiuti militari che il governo degli Stati Uniti è autorizzato a fornire a Taiwan, richiedendo anche che le richieste di assistenza di Taiwan abbiano la priorità.

 

Il disegno di legge imporrebbe che Taiwan «sia trattata come se fosse designato un importante alleato non NATO ai fini del trasferimento o dell’eventuale trasferimento della difesa».

 

Secondo quanto riferito, il disegno di legge delinea anche un ampio regime di sanzioni economiche contro la Cina.

 

L’amministrazione ha espresso una certa cautela sul disegno di legge, con il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan che avrebbe detto a Bloomberg in un’intervista del 7 settembre che ha alcuni elementi che sono «abbastanza efficaci e solidi», ma «altri elementi che ci danno qualche preoccupazione».

 

Dopo il viaggio di Nancy Pelosi ad agosto, la Cina si prepara a nuovi atti ostili della Casa Bianca. Quando è stato chiesto oggi di commentare l’approvazione della commissione per le relazioni estere, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Mao Ning ha risposto che la Cina ha già presentato serie proteste diplomatiche con il governo degli Stati Uniti, aggiungendo che «la Cina avanzerà incrollabilmente la completa riunificazione del Paese. Nessun paese, nessuna forza e nessun individuo dovrebbero mai sottovalutare la ferma determinazione, la forte volontà e la grande capacità del governo e del popolo cinese di difendere la sovranità statale e l’integrità territoriale e di ottenere la riunificazione e il ringiovanimento nazionale».

 

«Se il disegno di legge continua a essere deliberato, portato avanti o addirittura a diventare legge, scuoterà notevolmente le basi politiche di Cina-USA. relazioni e causare gravissime conseguenze per le relazioni Cina-USA, pace e stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan».

 

Se la deliberazione sul disegno di legge continua, dice il portavoce cinese, «la Cina adotterà tutte le misure necessarie alla luce del processo del disegno di legge e del risultato finale per salvaguardare fermamente la nostra sovranità e integrità territoriale».

 

Sul piatto c’è la III guerra mondiale, nientemeno.

 

Xi Jinping, giacchetta alla Mao, ha già annunciato solennemente nel suo discorso per il centenario del Partito Comunista Cinese la volontà di «riunificare» la Cina, cioè invadere quella che definisce una «provincia ribelle».

 

Le tensioni nell’area riguardano anche Giappone e Australia, con continue frizioni diplomatiche e provocazioni militari.

 

L’attacco a Formosa da parte di Pechino sarebbe il colpo di grazia per l’economia mondiale, che è totalmente dipendente dalla manifattura dei microchip made in Taiwan. Ciò è definito lo «scudo dei microchip»: fino a che Taipei avrà la primazia sui microprocessori, sarebbe improbabile un attacco della Cina, che spingerebbe gli USA, che dipendono grandemente dai chip cinesi, ad intervenire.

 

Tuttavia, come in questi anni abbiamo sussurrato su Renovatio 21, è anche possibile uno scenario di scontro in cui gli USA invece abbiano già accettato, come fecero in Corea e in Vietnam, di dover rinunciare a quel territorio asiatico.

 

In pratica, un accordo per una guerra di facciata breve e di bassa intensità, che consegni Taiwan alla Cina, con Washington che assente sulla scorta di patti precedenti sulla stabilità di fornitura di microchip, che vengono prodotti in massa anche nella Cina continentali ma da aziende taiwanesi com Foxconn e TSMC, peraltro in città come Shenzhen e Chengdu che sono costantemente a rischio di lockdown zero-COVID imposto da Pechino.

 

Si tratterebbe della fine di un grattacapo per gli USA, con il sacrificio del popolo taiwanese, che non si sa fino a che punto possa interessare ai cervelloni sul Potomac. Del resto, sappiamo come può andare a finire, perché lo abbiamo visto a Hong Kong…

 

Un motivo ulteriore, per uno scenario del genere, potrebbe essere ricercato nelle reti del clan Biden, con Biden che raccoglie danari in Cina presso personaggi legati ai servizi: . I Biden avrebbero incassato 31 milioni di dollari da individui con «legami diretti con gli apparati cinesi di spionaggio».

 

È stato finanche riferito che gli affari della famiglia Biden toccherebbero perfino la famiglia Xi.

 

Come riportato da Renovatio 21, un professore cinese a fine 2020 si vantò pubblicamente del fatto che la Cina aveva dato i soldi a Hunter Biden per il suo fondo da 2 miliardi.

 

 

Lo stesso Biden, durante la campagna elettorale, fu definito come un pupazzo «controllato al 100% dal Partito Comunista Cinese» dai media della dissidenza cinese.

 

Come riportato da Renovatio 21, due mesi fa Biden ha venduto 1 milione di barili dalla riserva di petrolio strategica USA all’azienda cinese in cui ha investito suo figlio Hunter, il quale investe pure in pericolose centrali nucleari in Cina.

 

Più in fondo, vi è la storia dell’hard disk di Hunter Biden, forse ricco di materiale altamente compromettente, di cui i cinesi potrebbero disporre, o potrebbero disporre di immagini su quello che Biden jr. combinava in Cina e non solo.

 

L’idea che Biden sia compromesso con Pechino è stata analizzata dal consulente politico e scrittore americano Peter Schweizer nel suo libro Red-Handed: How American Elites Get Rich Helping China Win («Mano rossa: come le élite americane si arricchiscono aiutando la Cina a vincere»).

 

 

 

 

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Cina, dietro a un cancello i 40 anni di Messa di mons. Guo

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Nel Fujian il vescovo che ha rinunciato alla carica di ausiliare nel 2020 per non registrarsi negli organismi ufficiali, ha festeggiato l’anniversario dell’ordinazione sacerdotale segregato nella sua residenza. Sigillata anche la cappella, alcuni video giunti da fonti locali ad AsiaNews lo mostrano incontrare i fedeli e amministrare la comunione attraverso le sbarre di un cancello

 

Nel maggio 2020 aveva deciso di «abbandonare tutte le cariche della diocesi e di ritirarsi a vivere in preghiera», dichiarandosi «incapace di stare al passo coi tempi e con lo stile della Chiesa in Cina e specificamente della nostra diocesi di Mindong».

 

Cinque anni dopo, l’ex vescovo sotterraneo mons. Vincenzo Guo Xijing – che ai sensi dell’Accordo provvisorio tra Roma e Pechino sulla nomina dei vescovi, nel 2018 era stato indicato dalla Santa Sede nel ruolo di vescovo ausiliare, lasciando la guida di questa Chiesa locale al vescovo «ufficiale» mons. Vincenzo Zhan Silu, riaccolto in comunione con il papa – si trova oggi recluso nella sua residenza, dietro a un cancello con una vistosa catena che gli impedisce di ricevere visite dai fedeli.

 

A rivelarlo sono alcuni video ricevuti da AsiaNews in concomitanza con una giornata particolare: la ricorrenza dei 40 anni dall’ordinazione sacerdotale che l’oggi sessantasettenne mons. Guo Xijing ha festeggiato il 25 gennaio. Come si può vedere dalle immagini, il presule lo ha fatto da dietro a questo ingresso forzatamente chiuso. Agli amici che gli hanno fatto visita ha potuto offrire una fetta di torta fatta passare tra le sbarre. Ma è anche l’unico modo che ha a disposizione per distribuire la comunione, dal momento che pure la cappella della sua residenza è stata sigillata dalle autorità per impedire ai fedeli delle comunità sotterranee (storicamente molto forti nel nord del Fujian) di partecipare alle sue celebrazioni.

 

 

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Come mostra il video la gente non manca lo stesso di portare rosari e oggetti religiosi da far benedire al presule, anche questi fatti passare e poi restituiti attraverso il solito cancello.

 

Secondo quanto riferito da alcune fonti locali ad AsiaNews questa nuova stretta nei confronti di mons. Guo Xijing andrebbe avanti da Natale, parallelamente a ulteriori pressioni nei confronti dei sacerdoti locali affinché si decidano a registrarsi negli «organismi ufficiali» imposti dal Partito comunista alla Chiesa in Cina.

 

Cosa che il presule e altri preti del nord del Fujian non hanno mai voluto fare. Va anche aggiunto che tutto questo sarebbe avvenuto proprio nelle settimane successive alla partecipazione di mons. Zhan Silu, il vescovo di Mindong, al Sinodo in Vaticano, tenutosi a ottobre.

 

I video sulla situazione di mons. Guo Xijing arrivano anche a pochi giorni dal trasferimento – approvato dalla Santa Sede – del vescovo di Xiamen mons. Cai Bingrui alla diocesi di Fuzhou, il capoluogo del Fujian, che è una delle sedi storicamente più importanti per la Chiesa in Cina.

 

Una cerimonia presieduta dallo stesso mons. Zhan Silu, in un’altra diocesi dove – lo ricordavamo in quest’articolo – l’unità tra «ufficiali» e «sotterranei» resta un cantiere aperto. E i pesanti cancelli imposti dalle autorità non aiutano certo a realizzarla.

 

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Alle porte di Pechino un comando militare 10 volte più grande del Pentagono

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il complesso sorge a 30 km circa in direzione Sud-Ovest della capitale e si estende su un sito di almeno 1500 acri. Secondo fonti dell’intelligence Usa, una volta ultimato sarà il più grande al mondo. Attorno all’area massima sicurezza, divieto di sorvolo per droni o scattare foto. Al suo interno bunker antiatomici per accogliere anche Xi Jinping in caso di guerra (nucleare).   L’esercito cinese sta costruendo un enorme complesso militare nella parte occidentale di Pechino che, secondo i servizi segreti statunitensi, servirà come centro di comando in tempo di guerra; una struttura, spiegano funzionari americani, che risulterà molto più grande del Pentagono una volta ultimata la realizzazione. Le immagini satellitari ottenute dal Financial Times che ha rilanciato la notizia, e attualmente al vaglio degli esperti di Intelligence a Washington, mostrano un sito di costruzione di circa 1.500 acri a 30 km a sud-ovest Della capitale cinese.   Diversi funzionari statunitensi, sia in servizio che in pensione ma pur sempre attenti alle vicende militari, confermano la massima attenzione dei servizi segreti e di Intelligence attorno al sito. Una volta ultimato, il comando militare sarà il più grande al mondo e almeno 10 volte più vasto del suo omologo statunitense a Washington. In base a una valutazione delle immagini satellitari ottenute dal quotidiano economico britannico, la costruzione principale è iniziata a metà del 2024 e, secondo alcune fonti, l’intera struttura sarebbe stata ribattezzata «Beijing Military City».   Nell’area vi sarebbero anche delle buche profonde che, secondo gli esperti militari, ospiteranno grandi bunker rinforzati per proteggere i leader militari cinesi in caso di conflitto, compresa una potenziale guerra nucleare. La costruzione avviene mentre l’Esercito popolare di liberazione cinese (Pla) sta sviluppando nuove armi e progetti in vista del centenario della forza nel 2027.   L’Intelligence statunitense ha dichiarato che il presidente Xi Jinping ha ordinato ai vertici militari di sviluppare la capacità di attaccare Taiwan entro quella data. «Se confermato, questo nuovo bunker di comando sotterraneo avanzato per i vertici militari, compreso il presidente Xi in qualità di presidente della Commissione militare centrale, segnala l’intenzione di Pechino di costruire non solo una forza convenzionale di livello mondiale, ma anche una capacità di guerra nucleare avanzata» ha dichiarato Dennis Wilder, ex capo analista della Cina per la CIA.   A inizio mese il sito era in piena attività di costruzione, in contrasto con la scarsità di sviluppo della maggior parte dei grandi progetti immobiliari in Cina, nazione attanagliata da una crisi del settore immobiliare. Inoltre, non si trovano show-room o manifesti tipicamente associati a un progetto immobiliare commerciale di questa portata. E ancora, altro elemento inusuale che fa capire che non si tratta di un progetto commerciale, non vi sono menzioni ufficiali del cantiere su internet in cinese.   Sebbene non vi fosse alcuna presenza militare visibile nell’area oggetto del cantiere, vi sono numerosi cartelli che avvertono di non far volare i droni o di non scattare fotografie. E quanti hanno cercato di avvicinare i cancelli si sono visti respingere in modo brutale dalle guardie, che hanno ribadito che l’accesso è è vietato e hanno opposto il silenzio a ogni richiesta di informazioni. Infine, secondo il FT «un supervisore che ha lasciato il cantiere si è rifiutato di commentare il progetto».   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.  

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Cina, un nuovo vescovo a Luliang nel quadro dell’Accordo

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Mons. Antonio Ji Weizhong, 51 anni, si è insediato oggi alla guida della diocesi, che nel nome e nei confini canonici prende il posto di quella istituita da Pio XII con il nome di Fenyang. La nomina era stata approvata da papa Francesco il 28 ottobre. In settimana novità in arrivo anche nel Fujian.

 

Le nomine dei vescovi nel quadro dell’Accordo provvisorio tra Roma e Pechino ripartono dalla provincia dello Shanxi, nella Cina settentrionale.

 

Questa mattina nella cattedrale del Sacro Cuore di Gesù a Fenyang, un distretto dell’odierna città di Luliang, si è svolta la cerimonia di ordinazione del nuovo vescovo mons. Antonio Ji Weizhong, un sacerdote di 51 anni che era già il vicario generale di questa Chiesa locale. Si è così insediato su una cattedra vacante da quando due anni fa morì all’età di 96 anni l’ultimo predecessore, mons. Giovanni Huo Cheng, presule che aveva trascorso 14 anni in carcere durante la Rivoluzione culturale e che dal 1991 aveva guidato la Chiesa di Fenyang in comunione con la Santa Sede.

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La cerimonia di consacrazione di mons. Ji Weizhong è stata presieduta dal vescovo Taiyuan, mons. Meng Ningyou, che è anche vicepresidente dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, assistito da mons. Ding Lingbin, vescovo di Changzhi, mons. Liu Genzhu, vescovo di Linfen, e mons. Ma Cunguo, vescovo di Shuozhou. Alla cerimonia di consacrazione hanno partecipato circa 130 sacerdoti provenienti dalle diocesi di tutto il Paese, oltre a suore, seminaristi e laici, per un totale di circa 450 persone.

 

La Santa Sede ha confermato che l’ordinazione è avvenuta ai sensi dell’Accordo e che papa Francesco aveva già approvato questa candidatura lo scorso 28 ottobre, cioè pochi giorni dopo il terzo rinnovo dell’intesa provvisoria tra Roma e Pechino, estesa a una durata di altri quattro anni. Il Vaticano ha anche reso noto che in occasione di questa nomina sono state mutate la denominazione e i confini della diocesi, che d’ora in poi prenderà il nome di Luliang, la città capoluogo della prefettura in cui si trova.

 

Anche in questa nomina, dunque, si conferma la scelta vaticana di acconsentire al ridisegno della geografia delle Chiese locali seguendo i confini amministrativi, perseguita da tempo dalle autorità di Pechino. Ora «il territorio della diocesi di Luliang – riferisce la sala stampa vaticana – è conforme a quello della città capoluogo di Luliang, con una superfice totale di 21mila kmq e una popolazione totale di 3.346.500 abitanti, di cui circa 20mila cattolici, serviti da 51 sacerdoti e 26 suore».

 

Il vescovo Ji Weizhong è nato il 3 agosto 1973 nella contea di Wenshui, a Luliang. Dal 1995 al 2001 ha studiato teologia e filosofia presso il seminario cattolico nazionale di Pechino ed è stato ordinato sacerdote nell’ottobre 2001 per la diocesi di Fenyang. Dal 2005 al 2010 ha conseguito la licenza in teologia dogmatica presso l’Università di Sankt Augustin dei Verbiti in Germania. Rientrato nella sua diocesi è stato prima vice-parroco, poi responsabile del Centro pastorale e infine vicario generale. Il 19 luglio scorso era avvenuta la sua elezione come vescovo, poi confermata dalla nomina di papa Francesco.

 

La sua è la prima nomina episcopale dall’ultimo rinnovo dell’Accordo (quella del vescovo coadiutore di Pechino mons. Matteo Zhen Xuebin, pur annunciata a fine ottobre, era in realtà avvenuta in agosto) e l’undicesima dall’avvio di questa modalità nelle relazioni tra Roma e Pechino nel 2018. Probabilmente – come già avvenuto recentemente – già nei prossimi giorni potrebbero arrivare anche altre notizie di nomine per la Chiesa in Cina: per la mattina di giovedì 23, infatti, anche la diocesi di Fuzhou nella provincia del Fujian, ha già annunciato la cerimonia di insediamento del suo nuovo vescovo.

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Questa sede – in una delle comunità storicamente più importanti del cattolicesimo cinese – è vacante dalla morte nell’aprile 2023 di mons. Pietro Lin Jashian, che era uno dei vescovi «clandestini» riconosciuti ufficialmente dalle autorità di Pechino nell’ambito dell’Accordo.

 

A differenza di quanto accade solitamente, l’invito diffuso dalla diocesi non indica il nome del successore; fonti locali parlano di un possibile trasferimento di un vescovo da un’altra diocesi della provincia del Fujian.

 

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Immagine da AsiaNews.

 

 

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