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Militaria

Il Pentagono nomina Michael Bloomberg nel comitato per l’Innovazione

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Il portavoce del Pentagono John Kirby ha annunciato ieri che il Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha scelto l’ambientalista miliardario Michael Bloomberg per presiedere il Defense Innovation Board, il consiglio per l’innovazione della difesa.

 

Kirby ha affermato che Austin avrebbe nominato Bloomberg per «sfruttare la sua esperienza e le sue intuizioni strategiche su innovazione, affari e servizio pubblico».

 

Kirby ha aggiunto che Bloomberg porterà «una vasta esperienza nell’innovazione tecnologica, negli affari e nel governo al Defense Innovation Board».

 

«La sua leadership sarà fondamentale per garantire che il dipartimento abbia accesso alle menti migliori e più brillanti nel campo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione attraverso il team di diversi esperti che guiderà come presidente di quel consiglio», ha affermato Kirby.

 

«Ovviamente il segretario è molto grato che il signor Bloomberg sia stato disposto ad assumersi questa responsabilità aggiuntiva e molto grato di essere disposto a servire in tale veste», ha continuato.

 

La testata The Hill riferisce che il Defense Innovation Board è un comitato consultivo istituito nel 2016 per fornire al dipartimento raccomandazioni sulle tecnologie emergenti e approcci innovativi allo sviluppo.

 

In altre parole, è stato creato come parte della terza strategia di compensazione dell’allora vice segretario alla Difesa Robert Work per «sfruttare» la Silicon Valley al fine di rendere l’esercito statunitense tecnologicamente superiore ai concorrenti geopolitici

 

«L’innovazione e l’adattabilità sono assolutamente fondamentali in qualsiasi grande organizzazione e non esiste un’organizzazione più grande o più complessa del Dipartimento della Difesa», ha affermato Bloomberg in una nota.

 

«Sono onorato di lavorare con il segretario Austin, il vicesegretario Hicks, altri alti dirigenti del Dipartimento della Difesa e innovatori del governo e delle imprese per aiutare a portare nuove idee e prospettive esterne che possono aiutare a proteggere gli americani e i nostri valori, interessi e alleati Intorno al mondo».

 

Si tratta di una scelta certamente controversa.

 

Prima di essere sindaco di Nuova York nel dopo-Giuliani, Bloomberg era conosciuto come miliardario della finanza, con un patrimonio stimato attorno ai 70 miliardi di dollari, cifra che fa di lui uno degli uomini più ricchi al mondo. Ebbe l’intuizione di creare un sistema-terminale per gli operatori di Borsa, che ancora oggi è lo standard globale. Il successo strepitoso dei suoi prodotti informatico-finanziari lo ha portato poi a creare una testata economica di grande influenza, l’omonima Bloomberg.

 

Bloomberg, afferente al Partito Repubblicano durante elezione e mandato a Nuova York, è tornato al Partito Democratico nel 2020 per correre alle primarie con l’intento di vincerle per poi battere Donald Trump. Investì nella corsa 676 milioni di dollari, adottando tattiche talvolta grottesche. Tuttavia, la sua candidatura non andò da nessuna parte, e il supermiliardario si risolse ad appoggiare Joe Biden.

 

I lettori di Renovatio 21 lo conoscono perché fu segnalato due anni fa come il candidato più anti-vita di tutte le primarie democratiche 2020. Quando si candidò la prima volta a sindaco di New York nel 2001, promise di obbligare tutti a seguire corso di ginecologia e ostetricia negli ospedali cittadini per essere in grado di effettuare un aborto. Nel 2012, i ricavi di sue manovre sulle obbligazioni vennero utilizzati per rinnovare i 10 chilometri quadrati dell’edificio che ospitava il colosso abortista Planned Parenthood, inclusi arredamento e attrezzature.

 

Non sono mancati i suoi attacchi alla religione cattolica: nel 2007, quando un hotel volle esporre nella vetrata all’ingresso una statua di cioccolato alta un metro e ottanta raffigurante Gesù Cristo, anatomicamente perfetta, durante la Settimana Santa, Bloomberg si limitò ad affermare che la statua doveva semplicemente essere ignorata. Nel 2005 dichiarò di voler marciare durante la tradizionale parata neoeboracena del giorno di San Patrizio, in modo da fare pressione sugli organizzatori per autorizzare gli omosessuali a marciare insieme a loro. Quando il proprietario dell’Empire State Building rifiutò di illuminare l’edificio in blu e bianco per commemorare il centenario della nascita di Madre Teresa di Calcutta nel 2010, Bloomberg non disse nulla. Nel 2011, vietò ogni addobbo natalizio al terminal dei traghetti di Staten Island.

 

Durante le celebrazioni per il decimo anniversario dell’11 settembre, il sindaco Bloomberg vietò la partecipazione a tutti gli uomini di chiesa, di qualsiasi religione; non permise a nessun prete, pastore, rabbino, imam di tenere un discorso.

 

Bloomberg non è il solo magnate finito a discettare di tecnologia al Pentagono. Egli è in compagnia dell’ex CEO Google Eric Schmidt, 55a persona più ricca del pianeta (secondo il Bloomberg Index), che da diversi anni ha lasciato la Silicon Valley per i piani altissimi dell’Esercito USA. Dal 2019 al 2021, Schmidt ha presieduto la Commissione per la sicurezza nazionale sull’Intelligenza Artificiale. In questi giorni è in uscita un libro scritto da Schmidt con il 99enne Henry Kissinger.

 

L’innovazione dell’esercito americano passa materialmente attraverso la DARPA, che da decenni costituisce il ramo ricerca e sviluppo del Pentagono.

 

La DARPA produce ogni sorta di tecnologia avveniristica – Internet (un tempo chiamata ARPANET) e il GPS sono invenzioni DARPA poi civilizzate. Alcune sue ricerche sono davvero di avanguardia (antigravità, soldati che non invecchiano, insetti militarizzati, agenti di mutazione genetica spruzzati nell’ambiente), altre si sono dimostrate molto più concrete. Ora, ad esempio, DARPA sta alacremente lavorando a sistemi di interfaccia cervello umano – chip.

 

Di recente è emerso come la tecnologia mRNA usata nei vaccini COVID abbia radici nelle ricerche DARPA. Parimenti, sempre lo stesso ente scientifico militare sta progettando un microchip-vaccino anti COVID.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’esercito USA starebbe ora lavorando ad un vaccino universale contro il COVID.

 

 

 

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Militaria

L’esercito russo è più potente di prima dell’invasione: avvertimento del generale USA capo del comando europeo

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Un alto generale americano ha dichiarato al Congresso USA che l’esercito russo è oggi più grande del 15% rispetto a prima dell’invasione dell’Ucraina del febbraio 2022, riconoscendo che l’obiettivo di «indebolire» la Russia è fallito.

 

«L’esercito è in realtà ora più grande – del 15% – rispetto a quando invase l’Ucraina», ha detto il generale Christopher Cavoli, capo del comando europeo degli Stati Uniti, in un’audizione della commissione per le forze armate del Senato americano.

 

Il generale Cavoli ha dichiarato che nell’ultimo anno, la Russia ha aumentato le sue «forze di truppe in prima linea da 360.000 a 470.000», cosa che, secondo lui, è dovuta all’aumento dell’età massima della coscrizione da 27 a 30 anni.

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L’alto ufficiale delle forze armate statunitensi ha quindi spiegato che ciò significa che la Russia avrà la capacità di ampliare «di 2 milioni il pool di coscritti militari disponibili per gli anni a venire».

 

«In sintesi, la Russia è sulla buona strada per comandare il più grande esercito del continente», ha ammesso il generale. «Indipendentemente dall’esito della guerra in Ucraina, la Russia sarà più grande, più letale e più arrabbiata con l’Occidente rispetto a quando l’ha invasa».

 

Come scrive il sito Antiwar, il vice segretario di Stato Kurt Campbell ha recentemente fatto commenti simili, affermando che gli Stati Uniti hanno «valutato nel corso degli ultimi due mesi che la Russia si è quasi completamente ricostituita militarmente».

 

Nell’aprile 2022, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin aveva dichiarato che uno degli obiettivi della guerra per procura era quello di «indebolire» la Russia. Più recentemente, i falchi del Congresso hanno affermato che il danno arrecato all’esercito russo è una ragione sufficiente per continuare ad alimentare il conflitto.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Russia ha anche aumentato le sue capacità industriali e sta producendo quasi tre volte più proiettili di artiglieria rispetto a Stati Uniti ed Europa (cioè, la NATO) messi insieme. Già un anno fa era chiaro che, a differenza dell’Occidente, la Russia non stava esaurendo le munizioni di artiglieria, grazie ad una filiera industriale-militare portata a lavorare a pieno regime.

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«Abbiamo determinato il livello di priorità delle forniture e fissato obiettivi importanti. Abbiamo anche assistito i fornitori nello stabilire una cooperazione tra gli stabilimenti di produzione», aveva osservato il primo ministro della Federazione Russa Mikhail Mishustin. «Abbiamo notevolmente accelerato la produzione di quelle armi e articoli di materiale militare che sono più richiesti».

 

I Paesi occidentali hanno dovuto affrontare la questione del deficit di munizioni dopo massicce spedizioni in Ucraina, dove le munizioni vengono spese rapidamente a causa dell’elevata intensità dell’azione militare. Il 19 giugno scorso, il ministero della Difesa tedesco ha dichiarato che nelle sue scorte sono rimasti solo 20.000 proiettili di artiglieria ad alto esplosivo. Calcoli precedenti avevano fatto notare che il Paese avrebbe avuto, in caso di guerra, munizione per due giorni di combattimenti.

 

Nell’estate 2023 è emerso che la Germania prevede di spendere oltre 20 miliardi di euro in munizioni entro il 2031 per evitare il suo deficit.

 

Come riportato da Renovatio 21, un incendio è scoppiato nelle scorse ore in una fabbrica di munizioni dell’esercito USA a Scranton, in Pennsylvania, città natale di Joe Biden.

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Immagine di Mil.ru via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

 

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Israele mostra le conseguenze dell’attacco iraniano alla base aerea

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Gli attacchi aerei iraniani su Israele nel fine settimana hanno causato solo lievi danni a una base militare, hanno affermato le Forze di Difesa Israeliane (IDF), rilasciando filmati che pretendono di mostrare i lavori di riparazione presso la struttura.   Teheran ha lanciato una serie di attacchi aerei contro Israele durante il fine settimana, in rappresaglia per il bombardamento di un complesso consolare iraniano in Siria all’inizio di questo mese. Gerusalemme Ovest non ha commentato l’attacco al consolato, anche se Teheran l’ha accusata di aver assassinato diversi membri del suo personale militare di alto rango.   Dei circa 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici lanciati dall’Iran nel fine settimana, solo pochi sono riusciti a superare le difese aeree combinate di Israele e dei suoi alleati, ha detto domenica il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, in un comunicato stampa citato da RT.   I missili balistici che hanno violato le difese israeliane hanno causato «solo lievi danni alle infrastrutture della base di Nevatim», ha scritto l’IDF sul suo sito web, pubblicando filmati che pretendono di mostrare il danno e il successivo lavoro di riparazione.  

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  «La funzione della base Nevatim non è stata influenzata, gli aerei hanno continuato a decollare e atterrare e ad adempiere alle missioni di difesa e attacco», ha aggiunto.   Ben nove missili sono penetrati nelle difese israeliane, ha scritto ABC News, citando un alto funzionario americano. Cinque missili balistici hanno colpito la base aerea di Nevatim e danneggiato un aereo da trasporto C-130, una pista e strutture di stoccaggio vuote, ha detto il canale. Altri quattro missili hanno colpito la base aerea del Negev, anche se non è stato causato alcun danno significativo, ha detto il funzionario alla ABC.   I media iraniani, tuttavia, hanno affermato che gli attacchi hanno distrutto «importanti obiettivi militari» e hanno pubblicato numerosi video che pretendono di mostrare missili che penetrano le difese aeree israeliane.   Teheran è soddisfatta del risultato e non ha intenzione di continuare l’operazione, ha detto il capo di Stato maggiore delle forze armate, generale Mohammad Bagheri, che ha avvertito che qualora Israele reagirà, «la prossima operazione sarà molto più estesa».   Come riportato da Renovatio 21, il costo dell’intercettazione dell’attacco israeliano è stato per lo Stato Ebraico pari a circa un miliardo di dollari.   Secondo rivelazioni delle ultime ore, l’Arabia Saudita avrebbe abbattuto alcuni droni iraniani diretto contro Israele.

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Geopolitica

Le potenze del Golfo Persico rifiutano di concedere agli USA l’accesso alle basi per gli attacchi contro l’Iran

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I paesi del Golfo Persico avrebbero detto agli Stati Uniti di non lanciare alcun attacco contro l’Iran dal loro territorio o dallo spazio aereo in mezzo alle ribollenti tensioni regionali. Lo riporta la testata araba Middle East Eye.

 

Fonti, tra cui un alto funzionario statunitense, hanno detto al Middle East Eye che le monarchie del Golfo hanno «fatto gli straordinari» sulla pista diplomatica «per chiudere strade che potrebbero collegarle a una rappresaglia statunitense contro Teheran o i suoi delegati da basi all’interno dei loro regni».

 

I Paesi coinvolti includono Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman e Kuwait, con i loro leader che, secondo quanto riferito, «sollevano domande» sui dettagli degli accordi di base statunitensi e adottano misure per impedire l’uso delle loro basi adiacenti alla Repubblica Islamica dell’Iran, scrive il sito russo Sputnik.

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Secondo quanto riferito, la Turchia, membro della NATO avrebbe vietato agli Stati Uniti di utilizzare il proprio spazio aereo per attacchi contro l’Iran, tuttavia la notizia non è ancora data per verificata.

 

«È un disastro», ha detto un alto funzionario americano, riferendosi ai grattacapi che l’amministrazione Biden deve affrontare mentre si prepara a un potenziale attacco di ritorsione iraniano contro il suo principale alleato regionale, Israele, in seguito all’attacco di Tel Aviv del 1° aprile al complesso dell’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria.

 

L’articolo di Middle East Eye fa seguito a un pezzo della testata statunitense Axios di venerdì che citava funzionari statunitensi che affermavano che l’Iran ha avvertito privatamente gli Stati Uniti che prenderà di mira le forze americane in Medio Oriente se Washington sarà coinvolta in uno scontro militare tra Iran e Israele.

 

Si stima che gli Stati Uniti abbiano più di 40.000 militari nelle basi sparse in Medio Oriente, inclusa la base aerea di Al Udeid in Qatar, che ospita almeno 10.000 soldati e funge da quartier generale avanzato del Comando Centrale degli Stati Uniti, il comando combattente responsabile delle forze armate. operazioni in tutto il Medio Oriente.

 

Il vicino Bahrein ospita fino a 7.000 soldati e la Quinta Flotta degli Stati Uniti, che opera nel Golfo Persico, nel Mar Rosso e nel Mar Arabico e in parte dell’Oceano Indiano. Gli Stati Uniti hanno anche una guarnigione di 15.000 soldati in Kuwait, almeno 5.000 soldati negli Emirati Arabi Uniti e circa 2.700 soldati e aerei da combattimento nella base aerea Prince Sultan in Arabia Saudita.

 

L’Oman ospita alcune centinaia di soldati statunitensi e consente all’aeronautica americana di effettuare sorvoli e sbarchi, e alle navi da guerra di effettuare 80 scali all’anno.

 

La politica estera sempre più indipendente delle potenze del Golfo rappresenta potenzialmente un grave ostacolo per Washington, che per molti decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale (e soprattutto dopo la guerra fredda) ha potuto fare affidamento sulle monarchie del Golfo Persico per le sue operazioni militari nei Paesi ricchi di petrolio.

 

L’accordo principale fu stipulato nel 1945 tra il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e il re saudita Abdulaziz Ibn Saud – il cosiddetto patto del Grande Lago Amaro, di cui Renovatio 21 vi ricorda spesso, ossia la creazione del petrodollaro, fonte della grande ricchezza e durevole influenza di Washington nel mondo. Il patto prevedeva che, in cambio dell’uso del dollaro nel commercio del petrolio, gli USA avrebbero fornito alla famiglia reale saudita protezione anche militare. Qualcuno fa notare che si parlava della famiglia reale, non della difesa del Paese in sé.

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I Paesi del Golfo guidati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti hanno recentemente adottato una serie di sorprendenti misure che sembrano volte a rompere con la dipendenza economica, politica e militare dagli Stati Uniti, con Riyadh che si muove per rompere il monopolio del petrodollaro nel commercio di petrolio con la Cina, mettendo in pausa la sua campagna militare contro la milizia Houthi nello Yemen, ripristinando i rapporti diplomatici con l’Iran e, insieme ad Abu Dhabi, unendosi al blocco BRICS Plus.

 

La crisi israelo-palestinese ha allontanato i leader degli Stati del Golfo e le loro popolazioni dall’idea di ulteriori «Accordi di Abramo» come nell’era Trump – ossia la normalizzazione dei rapporti dei Paesi del Golfo con Israele –e ha raffreddato i legami con gli Stati Uniti grazie al pieno sostegno dell’amministrazione Biden a Tel Aviv nel corso della guerra di Gaza.

 

Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa si parlava di colloqui segreti tra il principe saudita Mohammed bin Salman e Netanyahu. A fine 2023, dopo l’inizio della guerra di Gaza, l’Arabia Saudita ha dichiarato che ogni piano di accordo con Israele è sospeso.

 

Secondo sondaggi di pochi mesi fa il 96% dei sauditi si oppone ai legami con Israele, mentre Hamas tra i sudditi dei Saud cresce in popolarità.

 

La situazione nell’area è precipitata al punto che tre mesi fa Mohammed bin Salman ha dichiarato che il Regno dei Saud è pronto a dotarsi dell’atomica se lo farà l’Iran. Tra Riyadh e Teheran era pochi mesi prima arrivato un accordo stipulato sotto l’auspicio cinese.

 

Come riportato da Renovatio 21, quattro anni fa quando furono firmati gli Accordi di Abramo i palestinesi lasciarono la presidenza della Lega Araba.

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

 

 

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