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Geopolitica

Diplomatico russo picchiato da parlamentare ucraino al meeting di Ankara

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Botte ad Ankara, durante l’Assemblea Parlamentare della Cooperazione Economica del Mar Nero (PABSEC), dove membri della delegazione ucraina hanno cercato di interrompere un incontro che coinvolge la Russi e infine picchiato un diplomatico di Mosca.

 

Olga Timofejeva, capo ad interim della delegazione russa, ha dichiarato al sito russo RT che gli ospiti sono rimasti «scioccati» dalle azioni dei loro colleghi ucraini.

 

Mentre la Timofejeva stava pronunciando un discorso ad una sessione dell’incontro, diversi ospiti ucraini si sono avvicinati alle sue spalle, dispiegando una grande bandiera ucraina e quello che sembrava essere uno stendardo appartenente a un’unità militare ucraina.

 

Nel video è visibile una delle bandiere esposte dietro il seggio della diplomatica conteneva anche il colore nero e rosso, come da tradizione del banderismo, cioè del nazionalista integrale ucraino Stepan Bandera che fu collaboratore della Germania nazista.

 

 

«Stanno usando qualsiasi piattaforma per calunniarci, mentre noi utilizziamo qualsiasi piattaforma per affermare effettivamente la nostra posizione», ha detto la Timofejeva, che ha esternato il fatto che gli ucraini si sarebbero poi comportati in modo «aggressivo» poco dopo la sessione, aggiungendo inoltre che i membri di altre delegazioni erano rimasti «scioccati dal loro atteggiamento».

 

Secondo Politico, il presidente del parlamento turco Mustafa Şentop, che presiedeva la riunione, è intervenuto e ha chiesto che i rappresentanti ucraini fossero scortati fuori dalla sala. Şentop in seguito si è scusato su Twitter per l’incidente «sfortunato e inaccettabile», che «ha interrotto l’ambiente di pace che la Turchia sta cercando di raggiungere».

 

Ma non è finita. L’episodio più grave è avvenuto quando la Timofejeva stava rilasciando un’intervista in diretta al canale televisivo Rossiya-1 nel corso della giornata.

 

Durante l’intervista, il deputato ucraino Oleksandr Marikovskyi le si è avvicinato con in mano una bandiera ucraina tridentata. Il segretario della delegazione russa Valerij Stavitskyj ha strappato la bandiera dalle mani di Marikovskyj, ma mentre l’uomo se ne stava andando, Marikovskyi gli è corso dietro e gli avrebbe dato uno schiaffo tale da fargli volare a terra gli occhiali, riottenendo infine il drappo. Il breve combattimento è stato interrotto dal personale turco.

 

 

Secondo quanto riportato, Irina Kasimova, portavoce dell’ambasciata russa in Turchia, ha detto che Valerij Stavitskij, il segretario della delegazione russa, sarebbe stato ricoverato in ospedale dopo l’attacco.

 

 

Il deputato ucraino Oleksandr Valeriyovyvch Marikovskyi, 40 anni, si presenta come molto più giovane rispetto al collega russo strattonato e picchiato.

 

Marikovskyi è deputato alla Verkhovna Rada, il Parlamento unicamerale di Kiev, per il partito Servitore del Popolo, la formazione politica di Zelens’kyj che prende il nome dal telefilm in cui l’attuale presidente, comico di professione, interpretava un uomo qualsiasi che ascendeva al potere in Ucraina, come poi avvenuto. La trasmissione, con la conseguente carriera politica nella vita reale di Zelens’kyj, fu lanciata nei canali TV dell’oligarca ebreo-ucraino con cittadinanza cipriota Igor Kolomojskyj, accusato di crimini da più parti, da cui Zelens’kyj, dopo un raid nella sua abitazione, sembra essersi emancipato.

 

Capello corto, spalle larghe, l’aspetto di Marikovskyi potrebbero far pensare ad uno degli hooligan neonazi allevati dagli oligarchi negli stadi di calcio nei decenni in cui i plutocrati si ingrassavano a spese dal popolo ucraino sempre più impoverito, invece si tratta di un laureato in scienze politiche con specializzazione in e-government, ecologia, e pratiche anticorruzione. Wikipedia ci fa anche sapere che è membro di iniziative animaliste.

 

David Arakhamia, capo del partito zelenskiano Servitore del popolo del presidente, ha ringraziato Marikovsky per «aver difeso l’onore della bandiera ucraina e la sua posizione dignitosa».

 

Qualcuno può ricordare l’Arakhamia per un altro episodio, oramai sepolto nella memoria dalla spazzatura della propaganda NATO. Egli fu membro del gruppo negoziale ucraino mandato a Pripjat, sul confine bielorusso-ucraino, per trattare un arresto del conflitto il 28 febbraio 2022, a quattro giorni dall’inizio dell’invasione russa.

 

Ricorderete la strana sperequazione estetica tra le due parti: da una parte i diplomatici russi, completo e cravatta di ordinanza, compostezza affinata da decenni di pratica internazionale; dall’altra gli ucraini, presentatisi in felpa, cappello da baseball fissato in testa, telefonino lasciato sul tavolo, e forse nemmeno per sola sciatteria.

 

Forse non il lettore di Renovatio 21, ma certamente il pubblico medio occidentale ha dimenticato cosa accadde al team di negoziatori di Arakhamia: un suo membro, Denis Kireev, fu trucidato in strada. Dissero che era stato «giustiziato» per tradimento, di cui ci sarebbero state «prove evidenti». Abbiamo notato che era l’unico degli ucraini in cravatta, come la controparte russa.

 

Rimase di lui una foto in maglione, steso sul selciato, la pancia che un po’ gli esce, e un rivolo di sangue dietro alla nuca. Qualcuno disse che c’erano i segni del fatto che lo avessero picchiato, e poi gli avessero sparato in faccia.

 

 

Solo quell’evento, belluino, scomposto fino all’inspiegabile, doveva far capire da subito al mondo con chi si aveva a che fare.

 

Invece, siamo ancora qui a toglierci dalle tasche il danaro (e le armi, sottratte alla nostra Difesa) per darlo al regime di Zelens’kyj, nonostante la violenza patente mostrataci fin dentro le sedi diplomatiche.

 

Nell’attesa che presto, quella boria e quella violenza ferale si riversi anche in Europa, nel nostro Paese, nella vostra cittadina. Le armi per far partire un macello qui sotto casa nostra già sono in circolo: ce le hanno messe gli ucraini, ma gliele abbiamo date noi.

 

Preparativi ad una «gestione della barbarie» ucraina nel vostro quartiere.

 

 

 

 

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Geopolitica

Orban: finanziare la «mafia di guerra» di Kiev è come la vodka per un alcolizzato

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Il primo ministro ungherese Vittorio Orban ha aspramente censurato la Commissione europea per aver invitato gli Stati membri dell’UE a incrementare gli apporti finanziari all’Ucraina, in piena luce del macroscopico scandalo corruttivo, sostenendo che la «mafia della guerra» di Kiev sta deviando i fondi dei contribuenti europei.

 

Lunedì, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha recapitato una missiva alle capitali europee, incalzando un’intesa celere per far fronte alle esigenze militari e monetarie di Kiev per il biennio venturo. Nella lettera, ripresa dalla stampa, il deficit di bilancio in espansione dell’Ucraina viene stimato in circa 135,7 miliardi di euro. Von der Leyen ha delineato tre opzioni di finanziamento: versamenti bilaterali opzionali da parte dei membri UE, mutui collettivi a livello europeo e un prestito risarcitorio ancorato ai beni russi congelati.

 

Orban ha postato su X di aver ricevuto la nota, in cui si descrive il gap finanziario ucraino come «considerevole» e si sollecita l’invio di ulteriori risorse da parte dei Paesi UE.

 

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«È stupefacente. Proprio quando è emerso che una mafia della guerra sta svuotando le tasche dei contribuenti europei, anziché pretendere verifiche reali o bloccare i flussi, la presidente della Commissione propone di mandarne ancora di più», ha scritto, alludendo palesemente al recente scandalo corruttivo in Ucraina. Orban ha equiparato tale strategia al «tentativo di soccorrere un ubriaco spedendogli un’altra cassa di vodka», chiosando che «l’Ungheria non ha smarrito il buonsenso».

 

All’inizio del mese, le autorità anticorruzione ucraine hanno smascherato un presunto schema illecito capitanato da Timur Mindich, storico partner d’affari di Volodymyr Zelens’kyj, che ha distolto circa 100 milioni di dollari in mazzette dai contratti con l’operatore nucleare nazionale Energoatom, fortemente dipendente dagli aiuti esteri.

 

La vicenda corruttiva è esplosa mentre Kiev preme sui donatori per un finanziamento da 140 miliardi di euro, garantito dai beni della banca centrale russa bloccati dall’Occidente – un progetto ostacolato dal Belgio, custode della fetta maggiore di quei fondi. Mosca qualifica qualunque impiego di tali asset come «furto» e ha minacciato contromisure giudiziarie.

 

Il caso potrebbe armare i politici europei di argomenti solidi per invocare un ridimensionamento degli aiuti a Kiev, ha osservato Le Monde.

 

Come riportato da Renovatio 21, intanto con il megascandalo sulla corruzione Kiev sta incontrando ostacoli nel reperire un nuovo prestito dal FMI.

 

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Geopolitica

Mearsheimer: l’Occidente vuole distruggere la Russia come grande potenza

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I governi occidentali continuano a perseguire politiche mirate a indebolire la Russia fino a privarla definitivamente del suo status di grande potenza. Lo sostiene John Mearsheimer, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, ritenuto decano mondiale nella scuola di pensiero realista nelle relazioni internazionali.   In un’intervista rilasciata venerdì al canale YouTube Daniel Davis Deep Dive, Mearsheimer ha dichiarato che l’obiettivo dei governi occidentali è sempre stato «sconfiggere Russia e Ucraina, distruggere l’economia russa con le sanzioni e mettere i russi in ginocchio».   «Non ci siamo riusciti, ma questo non significa che non lo vogliamo; ovviamente lo vogliamo ancora», ha aggiunto.

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«Se domani si presentasse l’occasione di farlo, la coglieremmo immediatamente: ci piacerebbe eliminare la Russia come grande potenza», ha proseguito il politologo, sottolineando che Mosca percepisce perfettamente la natura esistenziale della minaccia occidentale.   Mearsheimer ha poi osservato che l presidente russo Vladimir «Putin, l’ultima volta che ho controllato, ha un QI a tre cifre, il che significa che ha capito perfettamente la situazione e sa esattamente contro cosa sta combattendo».   Il professore ha sostenuto che Putin ha tutte le ragioni per non fidarsi né del presidente degli Stati Uniti Donald Trump né dei leader europei, poiché «sta ipotizzando in modo molto realistico lo scenario peggiore».   Negli ultimi mesi numerosi esponenti occidentali hanno apertamente definito il conflitto ucraino una guerra per procura contro la Russia. All’inizio di quest’anno Keith Kellogg, inviato per la politica ucraina nell’amministrazione Trump, ha usato questa espressione mettendo in guardia contro la fornitura di missili da crociera a lungo raggio a Kiev.   Anche il segretario di Stato americano Marco Rubio ha impiegato lo stesso termine, e il Cremlino ha accolto con favore tale caratterizzazione.   Come riportato da Renovatio 21, il Mearsheimer aveva preconizzato ancora nel 2015 lo sfascio dell’Ucraina, accusando, già all’ora, l’Occidente di portare Kiev verso la sua distruzione invece che verso un’era florida che sarebbe seguita alla neutralità dichiarata dagli ucraini.

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Il politologo appartiene alla schiera delle grandi figure politiche americane che hanno rifiutato la NATO, talvolta prima ancora che nascesse. Uno è George Frost Kennan (1904-2005), ex ambasciatore USA in URSS, lucido, geniale mente capofila della scuola «realista» delle Relazioni Estere (quella oggi portata avanti accademicamente proprio da Mearsheimer) e funzionario di governo considerato «il padre della guerra fredda».   Mearsheimer è noto altresì per il controverso libro La Israel lobby e la politica estera americana, tradotto in Italia da Mondadori. Il libro contiene una disamina dell’influenza di Tel Aviv sulla politica americana, e identifica vari gruppi di pressione tra cui i Cristiani sionisti e soprattutto i neocon.   Il cattedratico statunitense ha anche recentemente toccato la questione israeliana dichiarando che le intenzioni dello Stato Ebraico sarebbero quelle di allargare il più possibile il conflitto nell’area di modo da poter svuotare i territori dai palestinesi: «più grande è la guerra, maggiore è la possibilità di pulizia etnica».

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I marines americani si scambiano colpi di arma da fuoco con le bande di Haiti

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La scorsa settimana, i marines USA di sentinella presso l’ambasciata nella capitale haitiana, Port-au-Prince, hanno ingaggiato uno scontro armato con presunti affiliati di una gang, ha riferito un portavoce delle forze armate.

 

La nazione caraibica, con quasi 12 milioni di abitanti, è funestata da violenza incessante a partire dall’omicidio del presidente Jovenel Moïse nel 2021, con bande criminali ben armate che approfittano del vuoto istituzionale per estendere il loro dominio su Port-au-Prince e altre zone del territorio. Haiti versa in stato di emergenza da oltre un anno.

 

I marines hanno replicato al fuoco nemico dopo essere stati bersagliati da sospetti membri di una gang giovedì sera, ha precisato domenica il capitano Steven J. Keenan, portavoce dei marines USA, in un comunicato ufficiale.

 

Keenan ha inoltre confermato che non si sono registrate vittime tra il personale statunitense in seguito all’episodio.

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Il dipartimento di Stato americano ha imposto l’evacuazione del personale governativo non essenziale e dei loro familiari da Haiti nel luglio 2023. Attualmente, vigono un avviso di «Livello 4: Non Viaggiare» per l’intero Paese, motivato da pericoli di sequestri, criminalità diffusa, atti terroristici e instabilità civile.

 

A giugno, Ghada Fathi Waly, capo dell’Ufficio ONU contro droga e crimine, ha denunciato che le gang detengono «circa il 90% di Port-au-Prince sotto il loro giogo», con estese offensive in aree prima tranquille. Il monopolio sulle arterie commerciali da parte di questi gruppi ha azzerato il flusso legale di merci, gonfiando i prezzi di beni vitali come il carburante da cottura e il riso, ha aggiunto Waly.

 

Dati ONU indicano che nel 2024 in Haiti almeno 5.600 individui sono periti in fatti legati alle gang, mentre 1,3 milioni di persone su tutto il territorio sono state costrette allo spostamento forzato dalla crisi.

 

Una missione a guida keniota, sostenuta dalle Nazioni Unite e arrivata ad Haiti nel 2024 per arginare l’escalation violenta, ha riconquistato il palazzo presidenziale nella capitale e liberato alcune vie strategiche, ma non ha conseguito ulteriori avanzate per presunta carenza di effettivi e mezzi. Secondo l’Associated Press, è stato dispiegato solo il 40% circa dei 2.500 militari programmati.

 

Il mese scorso, il Consiglio di sicurezza ONU ha deliberato la ristrutturazione della missione, convertendola nella Gang Suppression Force, con un organico di 5.500 tra soldati e poliziotti.

 

Come riportato da Renovatio 21, mesi fa l’ONU aveva dichiarato che le gang hanno portato la capitale di Haiti Port au Prince sull’orlo del collasso.

 

Come riportato da Renovatio 21, settimane fa è emerso che il governo ad interim di Haiti, la cosiddetta Commissione Presidenziale di Transizione (TPC), avrebbe assunto Erik Prince, noto per aver fondato (e poi venduto) la multinazionale di contractor militare Blackwater, per combattere le violente ghenghe che hanno di fatto preso il controllo di gran parte della capitale Port-au-Prince e di porzioni sempre più estese della regione di Artibonite.

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Come riportato da Renovatio 21, l’isola è oramai considerata come interamente in mano alle ghenghe.

 

La discesa di Haiti in un paesaggio infernale si è accelerata nel 2021, quando il presidente Jovenel Moise è stato assassinato. Da allora, le gang hanno governato quasi tutta la capitale, perpetrando estorsioni, rapimenti, stupri, omicidi e decapitazioni su larga scala. Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa l’Alto Commissarrio ONU per i diritti umani Bachelet aveva parlato di livelli «inimmaginabili ed intollerabili» di violenza armata.

 

Due anni fa gli USA avevano chiuso l’ambasciata tra le mitragliate delle bande.

 

Come riportato da Renovatio 21, tra rapimenti e violenze, anche i religiosi e le religiose cattoliche ad Haiti non se la passano bene. Lo scorso novembre era emerso che era stato bruciato il convento e l’ospedale delle Suore della Carità. In altre occasioni si erano rivisti rapimenti di missionari e aggressioni contro suore.Lo scorso autunno vescovi di Haiti avevano dichiarato di essere «disperati».

 

Tre anni fa l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha parlato di livelli «inimmaginabili e intollerabili» di violenza armata.

 

Haiti negli anni è più volte emersa come base per il supposto malaffare umanitario della Fondazione Clinton. Lo ha sostenuto Breitbart e tutto il giro di Steve Bannon nel film e nel libro Clinton Cash, di cui hanno pure fatto una versione a fumetti.

 

Nel panorama allucinante haitiano dell’ora presente, arrivano notizie come quella delle 184 persone (in maggior parte anziani) fatte uccidere da un capobanda perché avrebbero praticato contro di lui la stregoneria per far ammalare il figlio.

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