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Geopolitica

Verso «l’europeizzazione della guerra» e l’escalation nucleare: l’avvertimento dell’ex generale tedesco

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In una lunga intervista ripubblicata online il 22 agosto, l’ex capo di stato maggiore della Bundeswehr tedesca e poi presidente dal 2002 al 2005 del comitato militare della NATO, il generale in pensione Harald Kujat, ha messo in guardia dalla minaccia di guerra se la Germania dovesse soccombere alle presioni NATO e consegnare missili da crociera Taurus all’Ucraina.

 

«La consegna dei Taurus sarebbe un altro passo verso l’europeizzazione della guerra» afferma il generale Kujat, che asserisce che qualora i missili fossero utilizzati contro obiettivi all’interno della Russia, la reazione di Mosca sarebbe certa: «L’unica domanda è se questa reazione è diretta contro l’Ucraina o anche contro coloro che consentono all’Ucraina di effettuare questi attacchi».

 

Altre volte abbiamo visto la consegna di armi ritenute in grado di rivoluzionare il teatro di guerra, e in tutti i casi si sono rivelate inefficaci controproducenti.

 

«Se, contrariamente alle aspettative, ATACMS e Taurus non cambiassero radicalmente la situazione strategica a favore dell’Ucraina, l’Occidente accetterebbe una sconfitta militare per l’Ucraina, o la NATO o una coalizione di stati NATO intervenire nella guerra?».

 

Interrogato sui paralleli dell’escalation che portò alla prima guerra mondiale, il generale Kujat ha dichiarato che «sì, ma c’è un altro punto. La Prima Guerra Mondiale è stata definita la “catastrofe primordiale del XX secolo”, l’origine di tutte le catastrofi successive: Seconda Guerra Mondiale, Guerra Fredda, Guerra di Corea, Guerra del Vietnam, solo per citarne alcune. La guerra in Ucraina non deve diventare la più grande catastrofe del XXI secolo, con la conseguenza di una grande guerra europea e il rischio di una guerra nucleare limitata al continente europeo».

 

Sebbene le sue analisi siano in gran parte oscurate dai media mainstream, il generale Kujat non è pessimista e si è messo a parlare anche del ruolo dei BRICS nel quadro geopolitico attuale.

 

«La guerra in Ucraina ha contribuito all’emergere di un nuovo ordine mondiale multipolare che guadagnava slancio. Con i Paesi BRICS, intorno alla Cina e alla Russia sta emergendo un nuovo centro di potere politico, economico e militare, il cui obiettivo è quello di sostituire gli Stati Uniti come prima potenza mondiale e di porre fine al predominio economico e finanziario del dollaro USA come principale valuta mondiale».

 

«I Paesi BRICS, i cui obiettivi ufficiali sono la pace, la sicurezza, lo sviluppo e la cooperazione, rappresentano attualmente il 40%, i Paesi occidentali del G7, compreso il Giappone, solo circa il 12,5% della popolazione mondiale. Il loro prodotto interno lordo è maggiore di quello dei paesi del G7» spiega il generale Kujatto.

 

«La Cina intende lavorare con l’Arabia Saudita sul mercato globale del petrolio e sull’uso dell’energia nucleare, sostiene l’ingresso dell’Arabia Saudita nel gruppo BRICS, spinge la formazione di un’economia basata sulle materie prime valuta di riserva per competere con il petrodollaro, e da mesi accumula riserve auree per sostituire il dollaro come valuta di riserva mondiale» continua l’ex militare germanico.

 

Nell’ultima parte dell’intervista è dichiarata l’impossibilità di una soluzione militare, soprattutto per l’Ucraina: «senza l’impegno dei due grandi Stati europei, Francia e Germania, per una pace negoziata, le parti in conflitto non si uniranno e la loro strada porterà ad una catastrofe europea».

 

Le ultime parole sono una stoccata al governo Scholz: «vorrei concludere sottolineando che questo non deve essere il caso in cui il governo federale continua a ignorare il precetto costituzionale per la pace e promuove il rischio di un’escalation e di un’espansione della guerra attraverso sempre più consegne di armi fino al “punto di non ritorno”, senza alcuno sforzo per raggiungere un cessate il fuoco e intraprendere una pace negoziata».

 

Come riportato da Renovatio 21, il nome del generale Kujat appariva in un appello di inizio anno da parte di generali tedeschi che si opponevano alla fornitura di carrarmati Leopard all’Ucraina.

 

Nel maggio 2022 il Kujat aveva proposto di convocare il Consiglio NATO-Russia come «un modo promettente per cambiare rotta dalla guerra ai negoziati».

 

Attualmente la proposta di pace ufficiale di Berlino è al limite del ridicolo: il cancelliere Scholz l’ha annunziata durante l’annuale «intervista estiva» concessa alla rete pubblica nazionale ZDF, e si tratta nientemeno dell’irreale, utopistica, proposta ucraina: cacciare i russi dai territori annessi per referendum, e neutralizzarne il potenziale offensivo.

 

Lo Scholzo nelle scorse settimane ha aggredito un gruppo di pacifisti che lo contestavano sputazzando al microfono accuse a Putin invasore ed assassino – lo stesso Putin che il cancelliere era andato a trovare a pochi giorni dal lancio dell’operazione militare speciale russa, lo stesso Putin con cui aveva in comproprietà una grande infrastruttura energetica che doveva alimentare l’industria tedesca, ma che è stata bombardata da un soggetto che un premio Pulitzer dice essere la Casa Bianca, dove però poco dopo sempre lo Scholzo va scodinzolando accucciandosi nello studio ovale, nella più totale umiliazione di tedeschi ed europei.

 

Come riportato da Renovatio 21la Germania sta spedendo altri 2,7 miliardi di euro in armi da inviare in Ucraina, e sta eseguendo in modo evidente una rimilitarizzazione (fenomeno per evitare il quale, si diceva, era stata creata la NATO) con espansione in Paesi vicini e investimenti in munizioni (22 miliardi entro il 2031), nonostante i problemi di reclutamento e i malumori delle truppe.

 

La Germania di fatto ha cambiato la Costituzione per aumentare il budget militare.

 

I malumori per la situazione possono essere percepiti perfino dalla cappellania militare della Bundeswher, con il vescovo Franz-Josef Overbeck, a invitare a «cercare compromessi salva-faccia» per porre fine alla guerra in Ucraina.

 

 

 

 

 

Immagine di GPA Photo Archive via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

 

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Missili Hezbollah contro basi israeliane

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Hezbollah ha preso di mira diverse installazioni militari israeliane, inclusa una base critica di sorveglianza aerea sul Monte Meron, con una raffica di razzi e droni sabato, dopo che una serie di attacchi aerei israeliani avevano colpito il Libano meridionale all’inizio della giornata.

 

Decine di missili hanno colpito il Monte Meron, la vetta più alta del territorio israeliano al di fuori delle alture di Golan, nella tarda notte di sabato, secondo i video che circolano online. I quotidiani Times of Israel e Jerusalem Post scrivono tuttavia che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che tutti i razzi sono stati «intercettati o caduti in aree aperte», senza che siano stati segnalati danni o vittime.

 

Il gruppo militante sciita libanese ha rivendicato l’attacco, affermando in una dichiarazione all’inizio di domenica che «in risposta agli attacchi del nemico israeliano contro i villaggi meridionali e le case civili» ha preso di mira «l’insediamento di Meron e gli insediamenti circostanti con dozzine di razzi Katyusha».

 

Il gruppo paramilitare islamico ha affermato di aver anche «lanciato un attacco complesso utilizzando droni esplosivi e missili guidati contro il quartier generale del comando militare di Al Manara e un raduno di forze del 51° battaglione della Brigata Golani», sabato scorso. L’IDF ha affermato di aver intercettato i proiettili in arrivo e di «aver colpito le fonti di fuoco» nell’area di confine libanese.

 

 

Ieri l’aeronautica israeliana ha condotto una serie di attacchi aerei nei villaggi di Al-Quzah, Markaba e Sarbin, nel Libano meridionale, presumibilmente prendendo di mira le «infrastrutture terroristiche e militari» di Hezbollah. Venerdì l’IDF ha colpito anche diverse strutture a Kfarkela e Kfarchouba.

 

Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno tre persone, tra cui due combattenti di Hezbollah. I media libanesi hanno riferito che altre 11 persone, tra cui cittadini siriani, sono rimaste ferite negli attacchi.

 

Il gruppo armato sciita ha ripetutamente bombardato il suo vicino meridionale da quando è scoppiato il conflitto militare tra Israele e Hamas lo scorso ottobre. Anche la fondamentale base israeliana di sorveglianza aerea sul Monte Meron è stata attaccata in diverse occasioni. Hezbollah aveva precedentemente descritto la base come «l’unico centro amministrativo, di monitoraggio e di controllo aereo nel nord dell’entità usurpatrice [Israele]», senza il quale Israele non ha «alcuna alternativa praticabile».

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Hamas deporrà le armi se uno Stato di Palestina verrà riconosciuto in una soluzione a due Stati

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Il funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato il 24 aprile che Hamas deporrà le armi se ci fosse uno Stato palestinese in una soluzione a due Stati al conflitto.   In un’intervista di ieri con l’agenzia Associated Press, al-Hayya ha detto che sono disposti ad accettare una tregua di cinque anni o più con Israele e che Hamas si convertirebbe in un partito politico, se si creasse uno Stato palestinese indipendente «in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e vi fosse un ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali».   Al-Hayya è considerato un funzionario di alto rango di Hamas e ha rappresentato Hamas nei negoziati per il cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi.

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Nonostante l’importanza di una simile concessione da parte di Hamas, si ritiene improbabile che Israele prenda in considerazione uno scenario del genere, almeno sotto l’attuale governo del primo ministro Benajmin Netanyahu.   Al-Hayya ha dichiarato ad AP che Hamas vuole unirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata dalla fazione rivale di Fatah, per formare un governo unificato per Gaza e la Cisgiordania, spiegando che Hamas accetterebbe «uno Stato palestinese pienamente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e il ritorno dei profughi palestinesi in conformità con le risoluzioni internazionali», lungo i confini di Israele pre-1967.   L’ala militare del gruppo, quindi si scioglierebbe.   «Tutte le esperienze delle persone che hanno combattuto contro gli occupanti, quando sono diventate indipendenti e hanno ottenuto i loro diritti e il loro Stato, cosa hanno fatto queste forze? Si sono trasformati in partiti politici e le loro forze combattenti in difesa si sono trasformate nell’esercito nazionale».   Il funzionario di Hamas ha anche detto che un’offensiva a Rafah non riuscirebbe a distruggere Hamas, sottolineando che le forze israeliane «non hanno distrutto più del 20% delle capacità [di Hamas], né umane né sul campo. Se non riescono a sconfiggere [Hamas], qual è la soluzione? La soluzione è andare al consenso».   Per il resto ha confermato che Hamas non si tirerà indietro rispetto alle sue richieste di cessate il fuoco permanente e di ritiro completo delle truppe israeliane.   «Se non abbiamo la certezza che la guerra finirà, perché dovrei consegnare i prigionieri?» ha detto il leader di Hamas riguardo ai restanti ostaggi nelle mani degli islamisti palestinesi.

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«Rifiutiamo categoricamente qualsiasi presenza non palestinese a Gaza, sia in mare che via terra, e tratteremo qualsiasi forza militare presente in questi luoghi, israeliana o meno… come una potenza occupante», ha continuato   Hamas e l’OLP hanno discusso in varie capitali, tra cui Mosca, nel tentativo di raggiungere l’unità, scrive EIRN. Non è noto quale sia lo stato di questi colloqui.   L’intervista di AP è stata registrata a Istanbul, dove Al-Hayya e altri leader di Hamas si sono uniti al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, che ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il 20 aprile. Non c’è stata alcuna reazione immediata da parte di Israele o dell’autore palestinese.   Nel mondo alcune voci filo-israeliane hanno detto che le parole del funzionario di Hamas sarebbero un bluff.   Come riportato da Renovatio 21, in molti negli ultimi mesi hanno ricordato che ai suoi inizi Hamas è stata protetta e nutrita da Israele e in particolare da Netanyahu proprio come antidoto alla prospettiva della soluzione a due Stati.

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Immagine di Al Jazeera English via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic  
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Birmania, ancora scontri al confine, il ministro degli Esteri tailandese annulla la visita al confine

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

Il primo ministro Sretta Thavisin ha rinunciato alla visita, ma ha annunciato la creazione di un comitato ad hoc per gestire la situazione. Nel fine settimana, infatti, si sono verificati ulteriori combattimenti lungo la frontiera tra Myanmar e Thailandia e migliaia di rifugiati continuano a spostarsi da una parte all’altra del confine. Per evitare una nuova umiliazione l’esercito birmano ha intensificato i bombardamenti.

 

Il primo ministro della Thailandia Sretta Thavisin questa mattina ha cancellato la visita che aveva in programma a Mae Sot, città al confine con il Myanmar, e ha invece mandato al suo posto il ministro degli Esteri e vicepremier Parnpree Bahidda Nukara.

 

Nei giorni scorsi era stata annunciata la creazione di «un comitato ad hoc per gestire la situazione derivante dai disordini in Myanmar», ha aggiunto il premier. «Sarà un meccanismo di monitoraggio e valutazione» che avrà come scopo quello di «analizzare la situazione complessiva» e «dare pareri e suggerimenti per gestire in modo efficace la situazione».

 

La Thailandia, dopo i ripetuti fallimenti da parte dell’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico) di far rispettare l’accordo di pace in Myanmar, sta cercando di evitare che un esodo di rifugiati in fuga dalla guerra civile si riversi sui propri confini proponendosi come mediatore. «Il ruolo della Thailandia è quello di fare tutto il possibile per aiutare a risolvere il conflitto nel Paese vicino, e un ruolo simile è atteso anche dalla comunità internazionale», ha dichiarato ieri il segretario generale del primo ministro Prommin Lertsuridej.

 

Durante il fine settimana si sono verificati ulteriori scontri a Myawaddy (la città birmana dirimpettaia di Mae Sot), nello Stato Karen, tra le truppe dell’esercito golpista e le forze della resistenza, che hanno strappato il controllo della città ai soldati, grazie anche al cambio di bandiera della Border Guard Force, che, trasformatasi nell’Esercito di liberazione Karen (KLA), è passata a sostenere la resistenza e sta combattendo per la creazione di uno Stato Karen autonomo.

 

Giovedì scorso, l’Esercito di Liberazione Nazionale Karen (KNLA, una milizia etnica da non confondere con il KNA) aveva annunciato di aver intercettato l’ultimo gruppo di militari rimasto, il battaglione di fanteria 275. Alla notizia, l’esercito ha risposto con pesanti bombardamenti, lanciando l’Operazione Aung Zeya (dal nome del fondatore della dinastia Konbaung che regnò in Birmania nel XVIII secolo), nel tentativo di riconquistare Myawaddy ed evitare così un’altra umiliante sconfitta.

 

The Irrawaddy scrive che l’aviazione birmana ha sganciato nei pressi del Secondo ponte dell’amicizia (uno dei collegamenti tra Mae Sot e Myawaddy) circa 150 bombe, di cui almeno sette sono cadute vicino al confine thailandese dove sono di stanza le guardie di frontiera. Si tratta di una tattica a cui l’esercito birmano sta facendo ricorso sempre più frequentemente a causa delle sconfitte registrate sul campo a partire da ottobre, quando le milizie etniche e le Forze di Difesa del Popolo (PDF, che fanno capo al Governo di unità nazionale in esilio, composto dai deputati che appartenevano al precedente esecutivo, spodestato con il colpo di Stato militare) hanno lanciato un’offensiva congiunta. Una tattica realizzabile, però, solo grazie al continuo sostegno da parte della Russia. Fonti locali hanno infatti dichiarato che gli aerei e gli elicotteri «utilizzati per bombardare i villaggi e per consegnare rifornimenti e munizioni» a «circa 10 chilometri dal confine tra Thailandia e Myanmar» erano «tutti russi».

 

Bangkok è stata presa alla sprovvista dalla situazione. Sabato un proiettile vagante ha colpito il retro di una casa sulla parte thailandese del confine, senza ferire nessuno, ma l’episodio ha costretto il Paese a rafforzare le proprie difese di confine, aumentando i controlli su coloro che attraversano i due ponti che collegano Myawaddy e Mae Sot, al momento ancora aperti.

 

La polizia thai ha anche arrestato 15 birmani e due thailandesi che stavano cercando di fuggire in Malaysia in cerca di migliori opportunità di lavoro. Il gruppo ha raccontato di aver valicato il confine a Mae Sot grazie all’aiuto di intermediari. Viaggi di questo tipo rischiano di diventare sempre più frequenti con l’esacerbarsi della violenza in Myanmar, sostengono gli esperti, i quali si aspettano un prosieguo dei combattimenti, almeno finché non comincerà la stagione delle piogge, che ogni anno pone un freno agli scontri.

 

Ma la Thailandia ha anche inviato aiuti in Myanmar (sebbene tramite enti gestiti dai generali) e attivato una risposta umanitaria a Mae Sot. Il Governo di unità nazionale in esilio ha ringraziato Bangkok per aver fornito riparo e assistenza ai rifugiati, prevedendo tuttavia ulteriori sfollamenti. Almeno 3mila persone – perlopiù anziani e bambini – hanno varcato il confine solo nel fine settimana, ha dichiarato due giorni fa il ministro degli Esteri Parnpree Bahidda Nukara, ma circa 2mila sono tornati a Myawaddy lunedì.

 

Il mese scorso Parnpree aveva annunciato che il Paese avrebbe potuto ospitare fino a 10mila rifugiati birmani a Mae Sot e dintorni.

 

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