Pensiero
Pugnazzo, la Roma permanente e la nostalgia di Bossi
La Nintendo Wii è un dispositivo eccezionale. Se non avete un conoscente che l’ha conservata dagli anni 2000 e si decide a passarvela, potete acquistarla usata ai mercatini per una cinquantina di euro.
Sono migliaia di ore di intrattenimento familiare ineccepibile, sicuro, affidabile, a misura di bambino – questa è del resto la linea che l’azienda di Kyoto tiene da più di un secolo. Mettete (con moderazione, chiaro) vostro figlio dinanzi ad una console Nintendo, difficilmente vi verrà traviato come potrebbe invece succedervi con i giochi più «adulti» della Xbox, che è di Bill Gates, quello che la vostra prole già la tratta con la siringa e con l’mRNA.
Quindi, se approntate una Wii, il piccolo si sparerà certamente ogni singolo titolo di Super Mario disponibile: New Super Mario Bros Wii, Super Mario Galaxy, Super Mario Galaxy 2, Mario Kart Wii, Mario Party 8, Mario Super Sluggers, Super Mario All Stars… fino a che non arriverete al più bizzarro, Super Mario Paper.
Si tratta di un adventure: cioè un gioco lungo dove si va in giro a risolvere enigmi. Mario e i suoi amici finiscono in un mondo bidimensionale – sembra fatto, appunto, di carta – dove devono parlare con decine di altri personaggi, pur sempre tramite fumetti che fanno bip–bip–bip.
È alla fine del primo mondo che incontrerete un personaggio che vi sorprenderà: Pugnazzo.
Pugnazzo è un cattivo di fine livello. È violento e borioso, è vanitoso. Sovrastima la sua forza, ma non lo sa, per cui continua con i suoi ebeti esibizionismi. È aggressivo, a partire dalle parole.
Coloro che hanno regionalizzato Mario Paper hanno avuto un’idea geniale, giustissima: hanno fatto sì che Pugnazzo parlasse, di fatto, in romanesco stretto.
Pugnazzo parla il romanesco di quelli che menano.
«Ahò, ma allora sei te che ‘infili i baffetti negli affari der capo mio» dice Pugnazzo all’irsuto Mario Bros.
«Nun lo dovevi fà (…) Mo’ te faccio nero».
«Mo’ pe’ voi è finita!»
Pugnazzo non ascolta una parola di quello che gli dici, e continua con proclami bellicosi.
«So’ Pugnazzo, se er conte ordina, io ve strapazzo!»
«Mo’ basta. Mo’ ve riempio de botte come nun v’hanno riempito mai. VE ROMPO!»
Ci sta. L’aggressività romana la conosco, è un fenomeno su cui indago da lungo tempo. Anni e anni fa, giovanissimo in Inghilterra, mi ritrovai davanti al muso il naso di un romano, un ragazzo più grande di me del genere finto-atletico, quelli che si mettono la tuta solo per segnalare la minaccia di una prontezza fisica in realtà tutta da verificare. «Io te distruggo, sa’…».
Mentre mi urlava ad un centimetro dalla mia faccia, io non avevo idea di chi fosse questo tizio e di cosa volesse. Solo poi avrei capito che era il ragazzo di una tizia, alla quale forse avevo detto cortesemente «ciao» salutando tutto il gruppo, o forse anche no. Nella testa di lui, chissà quali pensieri stavo facendo – per una che non sapevo neanche che faccia avesse.
La cosa si risolse. Gli risi in faccia, non so bene perché, forse perché all’epoca avevo uno sprezzo del pericolo invidiabile, oppure già sapevo che il romano spesso abbaia e basta. Ci divisero. Andò per la sua strada.
Fast forward di una ventina di anni. Sono a Roma per andare ad un incontro di lavoro in un club fuori città. Prendo un taxi, entriamo in una tangenziale, o forse era proprio il mitico Grande Raccordo Anulare, che ne so. Ad un certo punto, notando i cenni del conducente, mi rendo conto che c’è un tizio con una Smart dietro di noi ci sta a pelo. Il ragazzo, occhiale da sole incollato agli occhi, sta ad una spanna dal paraurti posteriore del tassista, che si innervosisce e comincia a bofonchiare qualcosa (solo anni dopo avrei appreso che l’uomo con la Smart a Roma ha un’antropologia tutta sua). Il tizio ci supera a velocità folle – in parallelo il tassista accelerava enantiodromicamente… Poi ci taglia la strada, tra clacson, corna e diti medi a profusione. Quindi fila dritto con la sua macchinetta ad una velocità talmente inspiegabile da lasciarci indietro di parecchio.
È qui che succede una cosa inaspettata. Il tassista si gira verso di me – che ero, per lui, un giovane signore in giacca e cravatta che gli aveva significato il fatto che stava andando ad un incontro di lavoro – e dice qualcosa che non scorderò mai: «che c’ha fretta, lei?».
Io non faccio in tempo a rispondere «sì» che lui è già partito all’inseguimento dell’uomo con la Smart, gas schiacciato a tavoletta, mentre, con l’inerzia che mi schiaccia il torso sul sedile, io mi aggrappo alla maniglia sopra il finestrino, come faceva mia nonna.
Dopo venti minuti di caccia, che con gentilezza non avrebbe poi conteggiato nel tassametro, l’autista desiste: dell’uomo in Smart nessuna traccia. Arrivato a destinazione, scendendo sconvolto dall’auto, mi chiedo cosa mai sarebbe successo se lo avesse trovato. Probabilmente niente, come quella volta in Inghilterra: urla e insulti barocchi, checcevoifà, è il loro modo di stare al mondo. O forse si sarebbero tamponati, e menati davvero.
A Roma succede: pensate a Campo de’ Fiori, sede dell’infame statuona dell’infame Giordano Bruno. La sera, ricordo bene, si vedevano serque di camionette della polizia parcheggiate in bella vista in Piazza, eppure la gente di sera, nello struscio della movida romana con qualche turista imbucato, ci si picchiava lo stesso, e selvaggiamente, e non si è mai capito perché.
Ecco, sono alcuni dei ricordi e dei pensieri che ho avuto quando è saltata fuori la storia del misterioso video in cui uno dei vertici del PD romano, ad una cena fuori porta, è stato ripreso dai residenti del luogo (che allarmati, hanno chiamato le Forze dell’Ordine) mentre urlava.
«Lo digoh a tutti quello che m’ha dettooooh».
«Vie’ qua. Te devi inginocchià. TI DEVI INGINOCCHIARE!»
«Li ammazzo. Li ammazzo».
«Cinque minuti je do. CINQUE».
«Vi sparo. T’AMMAZZO»
Come non pensare a Pugnazzo.
Cosa era successo? Non si è capito benissimo, tuttavia su certi non detti urlati (non è una contradicio in adjecto) ora stanno facendo delle indagini. Cosa minacciava di rivelare l’uomo fuori di sé? Intorno a lui, a quella cena «pugnazza» (eh sì, loro vanno ancora al ristorante) a quanto si apprende dai giornali: una consigliera regionale, un europarlamentare o ex, il fratello assicuratore UNIPOL, quantità di altri figuri che non sappiamo comprendere, se non per il comune denominatore: tutti del PD, tutto un via via di uomini di Zingaretti, Gualtieri, Letta e chissà quali altre figure oscure. Per noi, la dinamica di tutta la vicenda rimarrebbe incomprensibile, anche se ce la illustrasse con un Power Point Goffredo Bettini via Skype dalla Thailandia.
Rimane la violenza verbale, che in teoria un uomo maturo (specialmente uno che ha a che fare con lo Stato) dovrebbe sapere che in alcuni frangenti può costituire reato (art. 612 Codice Penale: «minaccia»).
Tutto, hanno detto, era partito da una lite sul derby Roma-Lazio: da quello che ho letto oggi su La Verità, potrebbe pure essere vero, e la cosa mi addolora ancora di più. Perché comunque ora su tutti i commensali si abbatte la vergogna nazionale (cagionata da un video uscito sul Foglio, chissà perché) e pure un’indagine della Procura di Frosinone.
Tutto questo, capite, non mi scandalizza nemmeno un pochino. Perché, dai, quella è l’ostentosa aggressività romana come descritta in tanti film e filmetti, e ben presente nei nostri pensieri.
È altro che ci deve scandalizzare.
Prima cosa, che dovrebbe farci cadere dalla sedia: il tizio che urla promettendo violenza, è il figlio di un ex rettore della Sapienza. Non solo: pioniere dell’ingegneria informatica nazionale, è stato pure ministro e Commissario europeo per la scienza, la ricerca e lo sviluppo e l’istruzione, la formazione e la gioventù.
Avete capito? Si tratta del rampollo di un «magnifico» della università romana per eccellenza, una delle più importanti della Nazione, un uomo di governo, un professore che è stato ai vertici di Bruxelles quando il presidente della Commissione era Jacques Delors.
Insomma, la definizione di una «buona famiglia» che discende da un intelligente, competente servitore dello Stato.
Suo figlio parla così? Si comporta così? Parrebbe. I giornali tirano fuori altri dettagli della tragedia dinastica: lo scorso febbraio i figli dell’urlatore, 19 e 17 anni, fermati dai Carabinieri per un controllo avrebbero detto «avete preso le persone sbagliate, non sapete chi siamo». Il padre pure era incappato in vicende non dissimili: «il primo maggio del 2020, in pieno lockdown, per dire, mentre tutti dovevano stare tappati in salotto, lui venne beccato dalla polizia a mangiare a casa di amici su una terrazza di via Macerata, al Pigneto» scrive Il Foglio.
E poi, il babbano extraromano, come lo scrivente, continua a chiedersi: ma quindi, quale rete lo ha portato ad essere lì dove è? È ereditaria? Come può uno essere soprannominato «Rocky» e al contempo avere tanto potere? Domande a cui non so rispondere, perché al laico non-capitolino la mappa sotterranea di Roma è più celata del nome segreto di Roma, quello per cui secondo la leggenda basterebbe pronunciarlo per vedere Roma distrutta (qualcuno è ancora alla cerca, giusto?).
Di questo «mondo di mezzo», per usare un’espressione usata per definire un altro giro ma forse nemmeno lontanissimo nello spazio, non sappiamo nulla, affiora solo qua e là qualche segno, qualche mostro – dal latino moneo, ammonire. Ecco il video del ristorante. L’inchiesta «Mafia capitale», finita non esattamente come sembrava dovesse finire. E poi ancora: ricordate la marmorea villa del boyscout rutelliano Luigi Lusi? E il tizio che chiamavano «Er Batman» con tutto lo scandalo alla regione Lazio?
C’è un’intero universo ctonio che gestisce il potere a Roma: poltrone, appalti, chissà cos’altro. Noi non solo non ne saremo mai parte (anche perché preferiremmo morire!), ma non siamo in grado nemmeno di accorgerci della sua esistenza – anche se esiste solo grazie al nostro danaro.
Quello che comprendiamo è che, come ora negli USA parlano di una Permanent Washington creata dal Deep State, esiste una «Roma permanente», solo che a differenza della palude della capitale americana, quella romana ci sta da 2775 anni.
Un po’ difficile disinstallarla. Anche perché, se ti avvicini, magari ti senti suonare il clacson. «Io te distruggo, sa’…»
Abbiamo parlato spesso, in questo sito, dello Stato-partito, cioè, secondo la sintetica definizione di Rino Formica, l’oramai avvenuta fusione degli apparati amministrativi permanenti con i partiti, che, senza alternativa possibile, si presentano sempre più chiaramente come immagini dello Stato stesso.
Ciò è, ovviamente, vero in particolare per il PD, partito talmente fuso con il sistema da non aver più nemmeno bisogno di alcun carisma nei suoi dirigenti: pensate a Fassino, Bersani, a Zingaretti, pensate a Letta… La macchina, dalle COOP alle cene pugnazze di consiglieri regionali e capi di gabinetto, va avanti da sola…
La «Roma permanente» è in larga parte fatta dal PD.
Tuttavia, anche gli altri partiti parlamentari tendono alla stessa dimensione di identità con lo Stato – non è un segreto per nessuno che ogni partito, in Italia, vorrebbe essere come il PD, che è un partito perdente, e quindi già questo dice tutto sull’arco costituzionale italiano.
In pratica: Roma non la cambi, Roma non la tocchi, perché a Roma viene da noi dato un potere, e un flusso immane di danaro, che viene gestito in larga parte a nostra insaputa, e in larghissima parte contro di noi – e questo con assoluta pervicacia ed aggressività.
È a questo punto che ti sale la nostalgia canaglia di un personaggio pazzesco, che abbiamo la fortuna di aver visto operare nel fiore dei suoi anni, e in tutta la sua virilità salvifica: Umberto Bossi.
Ricordate quale era il mantra? «Roma Ladrona». Quanta ragione aveva?
Bossi che da un microfono veneziano il 18 settembre 2000 (22 anni fa!), accusava i «nazisti rossi alleati con i banchieri», le «lobby omosessuali», i «mondialisti», gli «sporcaccioni», i «porci». Proprio così.
Bossi che attaccò frontalmente Bruxelles con parole che nessuno ora osa ancora: «con l’Europa giacobina finiscono i diritti naturali collegati alla sovranità popolare e alla democrazia e avanzano i “nuovi diritti”: la dose minima di pedofilia, la famiglia orizzontale, il diritto d’immigrazione» (28 febbraio 2002)
Ma più ancora di quel che diceva – profetico potete vedere con gli occhi di oggi – l’Umberto era fondamentale per quello che era. Per la sua esistenza, per la sua presenza – umana, maschia.
Tale potenza di Bossi è stata ricordata di recente da un articolo di Paolo Guzzanti su Il Giornale.
«Di sentimenti forti Umberto Bossi ha inondato la politica fin da quando cominciò a diffondere l’ultimo brivido rivoluzionario in un’Italia ideologicamente frolla, praticamente inerte dopo i fallimenti già consumati ho invia di consumazione delle cosiddette ideologia del ventesimo secolo».
«Il messaggio di Umberto alla prima crociata era pesantissimo: secessione. L’Italia si spacca e quella che produce se ne va lasciando a secco l’Italia che non produce e che vive di rendita e sulle spalle della prima. Tutto ciò che era seguito al fortunoso sbarco di Garibaldi in Sicilia, e alla sua fin troppo fortunata risalita dello Stivale senza incontrare alcuna resistenza, veniva non solo messo in discussione ma idealmente rigettato».
Guzzanti senior ha riconciliato dentro di sé questa cosa:
«Certo, era molto difficile per un romano come me sentire dieci volte al giorno parlare di Roma ladrona, come se Roma capitale d’Italia non fosse stata ridotta a sentina dell’Italia intera, sfigurata nella sua identità e nella sua storia, ridotta un labirinto di palazzi afflitti dalla piaga della burocrazia e dello spreco (…) per questo alla fine non solo apprezzai lo spirito più radicale di Umberto Bossi ma mi trovai d’accordo: prendetevi questa capitale portatevela da qualche altra parte, pensavo, e che ognuno vada per la sua strada».
Sono parole piene di nostalgia, di pacificazione ma al contempo ci ricordano quale genio politico rivoluzionario fosse il Senatùr. Che più che un politico, era un trickster, una figura mitologica in grado di sconvolgere l’ordine delle cose – un ordine, in questo caso, immutabilmente romano.
Il figlio di Guzzanti, il geniale Corrado (che però, dicono, in fatto di imitazioni potrebbe essere inferiore al padre), si occupò spesso di Bossi nei suoi spettacoli TV.
Il colpo di genio definitivo lo ebbe quando, in un sofisticatissimo sketch che voleva essere un remake de Il Sorpasso, riuscì a romanizzare Bossi grazie alla colta citazione cinefila.
Qui vediamo Bossi nei panni del personaggio che fu di Vittorio Gassman, che parla, grazie alla maestria del Guzzanti jr., un’incredibile, inedita, impossibile commistione tra romanesco e milanese.
È davvero un’opera d’arte: inchioda una volte per tutte il ruolo di Bossi nel catalogo dell’umanità italiana.
Bossi ha resistito nelle decadi e si è fatto largo a Roma proprio perché, in fondo, aveva capito l’aspetto brutale della romanità, e glielo aveva rovesciato addosso.
Ecco, ci voleva un lombardo «romano», diretto e carnale, per difenderci dai romani-romani. Bossi rappresentava un’inaspettata ri-simmetrizzazione del conflitto tra Roma e il resto d’Italia: siete aggressivi, testardi, sboccati? Eccoci, possiamo esserlo anche noi. Se gli USA lo avessero capito in Afghanistan, ora a Kabul non ci starebbero i talebani: non hanno avuto un Bossi a riportare la simmetria tra gli umori delle parti.
È inutile che ci ricordiate che la missione di Umberto non è stata completata. Lo sappiamo. Lo vediamo dalle cene nei ristoranti del Frusinate, e da tante altre cose – per esempio l’esistenza del romanissimo Calenda, che gli scienziati sarebbero ad un passo dal poter spiegare (copyright Lercio).
Ora Bossi è candidato sicuro; Salvini è, come Berlusconi, uno riconoscente. Tuttavia, sappiamo che non può più essere il Bossi di un tempo.
Noi lo ricordiamo in tante sue declinazioni: con la canotta in Sardegna a casa di Berlusconi, sul palco di innumeri comizi infuocati, o ancora, seduto accanto al grande politologo Gianfranco Miglio, quello che odiava Roma al punto da voler fare proprio di Frosinone la capitale d’Italia.
Umberto quanto ci manchi.
Umberto salvaci tu dai Pugnazzo e dal PD.
Roberto Dal Bosco
Immagine di Gorup de Besanez via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale (CC BY-SA 4.0); immagine tagliata
Pensiero
Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza
Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.
Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».
Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?
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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.
Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.
La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.
La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.
Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.
Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.
Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.
Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.
Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.
In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.
Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.
In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.
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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.
Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.
Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?
Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.
Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.
Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.
Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.
E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.
Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.
Buon lavoro.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo
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Pensiero
«Preghiera» pagana a Zeus ed Apollo recitata durante cerimonia di accensione della torcia olimpica. Quanti sacrifici umani verranno fatti, poi, con l’aborto-doping?
All’inizio di questo mese, il rituale dell’accensione della torcia olimpica – di fatto la prima cerimonia dei Giochi Olimpici – si è tenuta ad Olimpia, in Grecia, presso l’antico tempio di Era, la moglie di Zeus, padre degli dei greci detti, appunto, olimpici. Lo riporta LifeSite.
Accompagnata da uno stuolo di vestali per qualche ragione tutte bianche, l’attrice greca Mary Mina ha interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» che aveva funzione, tra le altre cose, di offrire una «preghiera» agli dèi olimpici.
«Apollo, dio del sole e dell’idea della luce, invia i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola per la città ospite», cioè Parigi. «E tu, Zeus, dona la pace a tutti i popoli della terra e incorona i vincitori della corsa sacra».
🗣️ “Apollo, God of sun, and the idea of light, send your rays and light the sacred torch for the hospitable city of Paris. And you, Zeus, give peace to all peoples on earth and wreath the winners of the Sacred Race.”#Paris2024 | @Paris2024 pic.twitter.com/FHMEmJ134U
— The Olympic Games (@Olympics) April 16, 2024
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Il Comitato Olimpico Ellenico organizza l’evento, che ha una durata di circa 30 minuti, ed elenca sul suo sito il resto dell’«Invocazione ad Apollo».
Silenzio sacro
Risuonino il cielo, la terra, il mare e i venti.
Le montagne tacciono.
I suoni e i cinguettii degli uccelli cessano.
Per Febo, il Re portatore di Luce ci terrà compagnia.
Apollo Dio del sole e dell’idea della luce
manda i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola
per l’ospitale città di…
E tu Zeus dona la pace a tutti i popoli della terra e
incorona i vincitori
della Razza Sacra
Il gruppo spiega che la prima cerimonia di accensione della torcia ebbe luogo nel 1936 con «l’alta sacerdotessa Koula Pratsika, considerata una pioniera della danza classica in Grecia e fu la prima coreografa della cerimonia di accensione». La Pratsika nell’ambito dei celeberrimi Giochi di Berlino – quelli dello Hitler e di Jesse Owens, e di Leni Riefenstahl – e che da allora si è svolta più o meno prima di ogni Olimpiade.
La coreografa Artemis Ignatiou dirige lo spettacolo dal 2008. Originaria della Grecia, ha precedentemente interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» ed è stata coinvolta nella produzione dagli anni Novanta.
È, ammetterà anche il lettore, molto molto curioso: la preghiera ai dei dell’Ellade rispunta per lo Sport, quando invece, l’invocazione che nei secoli si è pronunziata per la medicina – il giuramento di Ippocrate – è oramai quasi del tutto sparito in tutto il mondo – e mica lo vediamo solo in Israele, lo abbiamo visto anche sotto casa durante il COVID. I motivi, li sapete: quelle frasi sul fatto che il medico non darà sostanze abortive, né cagionerà la morte del paziente… Siamo lontani anni luce da ciò che oggi deve fare il dottore, e cioè servire la Necrocultura, estendendo la morte ovunque si possa.
È bene ricordare anche che il mondo moderno ora esige un altro culto pagano greco, quello alla dèa preolimpica (cioè, ctonia) Gaia, che tramite le elucubrazioni dell’ambientalismo è divenuta la Terra stessa, intesa come unico essere vivente minacciato dalla presenza umana. Del resto, Gaia apparteneva alla stirpe dei titani, come Crono, il dio che divorava i suoi figli…
Ma torniamo al fuoco pagano dei Giuochi. Il sito olimpico ricorda che i giochi iniziarono nel 776 a.C. e continuarono fino al 393 d.C. quando l’imperatore cristiano Teodosio I li abolì. «Le sue cerimonie di apertura sembrano quasi sempre incorporare temi massonici o globalisti» scrive LifeSite. «I giochi di quest’anno sono stati annunciati come le prime Olimpiadi “della parità di genere”. Ciò significa che uomini e donne avranno una rappresentanza 50-50 nella competizione. Detto in altro modo, ci saranno tanti atleti maschi quante sono le atlete. Questo è stato presentato come un importante segno di “progresso”».
Alla cerimonia di accensione della torcia, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach ha sottolineato che i giochi di quest’anno saranno «più giovani, più inclusivi, più urbani, più sostenibili». Si riferiva al fatto che sarà allestita una «Pride House» pro-LGBT per «sostenitori, atleti e alleati LGBTI+».
«I Giochi sono una celebrazione della diversità», afferma il sito ufficiale delle Olimpiadi. «In occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, Parigi 2024 ribadisce il suo impegno nella lotta contro ogni forma di discriminazione», riferendosi eufemisticamente a qualsiasi opposizione all’omosessualità o al transgenderismo e aggiungendo che la «Pride House» ha lo scopo di «celebrare» le «minoranze» LGBT e il loro «orgoglio».
LifeSiteNews ci tiene a ricordare che «come i precedenti Giochi Olimpici, Parigi 2024 sarà probabilmente una cloaca di impurità. (…) la fornicazione è dilagante e nel Villaggio Olimpico dove soggiornano gli atleti vengono distribuiti contraccettivi gratuiti».
Riguardo al sesso al villaggio olimpico, chi ha partecipato da atleta ad un’Olimpiade in genere torna con racconti impressionanti – dionisiaci, erotici, del resto sempre di dèi greci si tratta, Dioniso, Eros, e mettiamoci pure dentro pure la poetessa greca Saffo, che dea non è, ma popolare di certo lo deve essere presso certe giocatrici di basket, ad esempio, e neanche solo quelle.
Del resto, metti quantità di giovani sani (in teoria: da Tokyo sappiamo quanti ne ha rovinati, financo sportivamente, l’mRNA) tutti insieme nello stesso luogo, e cosa vuoi che succeda? Sappiamo che la cosa capita anche alla Giornate Mondiale della Gioventù organizzate dai papati moderni, al termine delle quali trovano a terra tra la spazzatura, oltre che le ostie consacrate, anche preservativi usati da giovani e previdenti papaboys.
La questione, semmai, è capire che l’abominio pagano dello sport olimpico potrebbe essere andato molto oltre le semplici fornicazioni degli atleti: da anni si parla sommessamente del fenomeno dell’aborto-doping. Funziona così: per giovarsi della biochimica ormonale fantastica offerta dalla gravidanza e migliorare quindi le proprie prestazioni sportive, le atlete si fanno ingravidare per poi uccidere il figlio e godere del beneficio organico e muscolare della gravidanza.
Praticamente: vero e proprio doping, senza alcuno steroide sintetico – quindi perfettamente legale. Specie, immaginiamo, nelle Olimpiadi delle «pari opportunità».
«Ora che i test antidroga sono di routine, la gravidanza sta diventando il modo preferito per ottenere un vantaggio sulla concorrenza» avvertiva ancora nel 2013 Mona Passiganno, direttrice di un gruppo pro-life texano. In quell’anno emerse anche la storia di un atleta russo che avrebbe raccontato a un giornalista che già negli anni Settanta, alle ginnaste di appena 14 anni veniva ordinato di dormire con i loro allenatori per rimanere incinte e poi abortire. La procedura sarebbe così conosciuta da arrivare persino anche sui libri di testo: un libro di testo online di fisiologia del dipartimento di Fisiologia Medica dell’Università di Copenaghen sembra averne ancora traccia.
«Le atlete di punta – proprio dopo il momento in cui hanno dato alla luce il loro primo figlio – hanno stabilito diversi record mondiali» scrive il testo danese di fisiologia sportiva. «Naturalmente, questo è accettabile come evento naturale e non intenzionale. Tuttavia, in alcuni Paesi le atlete rimangono incinte per 2-3 mesi, al fine di migliorare le loro prestazioni subito dopo l’aborto».
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Altro che preghiera ad Apollo: questo è un sacrificio umano, un atto propiziatorio tramite l’uccisione della propria prole al dio pagano della prestanza fisica, della vittoria sportiva, della ricca sponsorizzazione, dell’ego incoronato etc.
E quindi: quanti sacrifici umani agli dèi antichi e moderni verranno consumati per i Giochi parigini?
Va ricordato l’aborto nel mondo sportivo non è una novità, una importante multinazionale di vestiario, negli anni, è stata accusata di aver fatto pressioni affinché le proprie atlete sponsorizzate abortissero, anche se non è chiaro se semplicemente per continuare a sfruttarne le prestazioni o per ottenerne anche i benefici corporei del doping feticida.
Diciamo pure che la strage olimpica occulta dei bambini delle atlete non potrebbe essere l’unico accento di morte da aspettarsi a Giochi di Parigi. Come noto, Macron ha fatto capire di temere per l’incolumità della sua Olimpiade, arrivando a chiedere, anche grottescamente, una «tregua» dei conflitti in corso – lui che, contro l’opinione degli omologhi europei e dello stesso popolo francese, paventa truppe NATO in Ucraina, e che secondo alcuno già sarebbero state spedite ad Odessa.
Abbiamo visto, nel frattempo, come qualcuno degli organizzatori olimpici si stia lamentando del fatto che per il nuoto la Senna sembra non andare bene: è stata rilevato troppo Escherichia Coli, cioè troppa materia fecale. Parigi è baciata da un fiume escrementizio, e vuole che gli atleti di tutto il globo vi si tuffino.
Questa immagine, del fiume di cacca in cui obbligano la gente ad immergersi, racconta bene il senso occulto dell’Olimpiade.
Tuffatevi anche voi nell’acqua marrone: dietro l’Olimpiade non c’è solo l’afflato neopagano e massonico (con le logge che da sempre rivendicano la consonanza con i principi olimpici), potrebbe esserci un’ondata di morte vera e propria.
Giochi di morte: lo Stato moderno pare volerceli infliggere a tutti i costi.
Roberto Dal Bosco
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