Pensiero

Pugnazzo, la Roma permanente e la nostalgia di Bossi

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La Nintendo Wii è un dispositivo eccezionale. Se non avete un conoscente che l’ha conservata dagli anni 2000 e si decide a passarvela, potete acquistarla usata ai mercatini per una cinquantina di euro.

 

Sono migliaia di ore di intrattenimento familiare ineccepibile, sicuro, affidabile, a misura di bambino – questa è del resto la linea che l’azienda di Kyoto tiene da più di un secolo. Mettete (con moderazione, chiaro) vostro figlio dinanzi ad una console Nintendo, difficilmente vi verrà traviato come potrebbe invece succedervi con i giochi più «adulti» della Xbox, che è di Bill Gates, quello che la vostra prole già la tratta con la siringa e con l’mRNA.

 

Quindi, se approntate una Wii,  il piccolo si sparerà certamente ogni singolo titolo di Super Mario disponibile: New Super Mario Bros Wii, Super Mario Galaxy, Super Mario Galaxy 2, Mario Kart Wii, Mario Party 8, Mario Super Sluggers, Super Mario All Stars… fino a che non arriverete al più bizzarro, Super Mario Paper.

 

Si tratta di un adventure: cioè un gioco lungo dove si va in giro a risolvere enigmi. Mario e i suoi amici finiscono in un mondo bidimensionale – sembra fatto, appunto, di carta – dove devono parlare con decine di altri personaggi, pur sempre tramite fumetti che fanno bipbipbip.

 

È alla fine del primo mondo che incontrerete un personaggio che vi sorprenderà: Pugnazzo.

 

Pugnazzo è un cattivo di fine livello. È violento e borioso, è vanitoso. Sovrastima la sua forza, ma non lo sa, per cui continua con i suoi ebeti esibizionismi. È aggressivo, a partire dalle parole.

 

Coloro che hanno regionalizzato Mario Paper hanno avuto un’idea geniale, giustissima: hanno fatto sì che Pugnazzo parlasse, di fatto, in romanesco stretto.

 

 

Pugnazzo parla il romanesco di quelli che menano.

 

«Ahò, ma allora sei te che ‘infili i baffetti negli affari der capo mio» dice Pugnazzo all’irsuto Mario Bros.

 

«Nun lo dovevi fà (…) Mo’ te faccio nero».

 

«Mo’ pe’ voi è finita!»

 

Pugnazzo non ascolta una parola di quello che gli dici, e continua con proclami bellicosi.

 

«So’ Pugnazzo, se er conte ordina, io ve strapazzo!»

 

«Mo’ basta. Mo’ ve riempio de botte come nun v’hanno riempito mai. VE ROMPO!»

 

Ci sta. L’aggressività romana la conosco, è un fenomeno su cui indago da lungo tempo. Anni e anni fa, giovanissimo in Inghilterra, mi ritrovai davanti al muso il naso di un romano, un ragazzo più grande di me del genere finto-atletico, quelli che si mettono la tuta solo per segnalare la minaccia di una prontezza fisica in realtà tutta da verificare. «Io te distruggo, sa’…».

 

Mentre mi urlava ad un centimetro dalla mia faccia, io non avevo idea di chi fosse questo tizio e di cosa volesse. Solo poi avrei capito che era il ragazzo di una tizia, alla quale forse avevo detto cortesemente «ciao» salutando tutto il gruppo, o forse anche no. Nella testa di lui, chissà quali pensieri stavo facendo – per una che non sapevo neanche che faccia avesse.

 

La cosa si risolse. Gli risi in faccia, non so bene perché, forse perché all’epoca avevo uno sprezzo del pericolo invidiabile, oppure già sapevo che il romano spesso abbaia e basta. Ci divisero. Andò per la sua strada.

 

Fast forward di una ventina di anni. Sono a Roma per andare ad un incontro di lavoro in un club fuori città. Prendo un taxi, entriamo in una tangenziale, o forse era proprio il mitico Grande Raccordo Anulare, che ne so. Ad un certo punto, notando i cenni del conducente, mi rendo conto che c’è un tizio con una Smart dietro di noi ci sta a pelo. Il ragazzo, occhiale da sole incollato agli occhi, sta ad una spanna dal paraurti posteriore del tassista, che si innervosisce e comincia a bofonchiare qualcosa (solo anni dopo avrei appreso che l’uomo con la Smart a Roma ha un’antropologia tutta sua). Il tizio ci supera a velocità folle –  in parallelo il tassista accelerava enantiodromicamente… Poi ci taglia la strada, tra clacson, corna e diti medi a profusione. Quindi fila dritto con la sua macchinetta ad una velocità talmente inspiegabile da lasciarci indietro di parecchio.

 

È qui che succede una cosa inaspettata. Il tassista si gira verso di me – che ero, per lui, un giovane signore in giacca e cravatta che gli aveva significato il fatto che stava andando ad un incontro di lavoro – e dice qualcosa che non scorderò mai: «che c’ha fretta, lei?».

 

Io non faccio in tempo a rispondere «sì» che lui è già partito all’inseguimento dell’uomo con la Smart, gas schiacciato a tavoletta, mentre, con l’inerzia che mi schiaccia il torso sul sedile, io mi aggrappo alla maniglia sopra il finestrino, come faceva mia nonna.

 

Dopo venti minuti di caccia, che con gentilezza non avrebbe poi conteggiato nel tassametro, l’autista desiste: dell’uomo in Smart nessuna traccia. Arrivato a destinazione, scendendo sconvolto dall’auto, mi chiedo cosa mai sarebbe successo se lo avesse trovato. Probabilmente niente, come quella volta in Inghilterra: urla e insulti barocchi, checcevoifà, è il loro modo di stare al mondo. O forse si sarebbero tamponati, e menati davvero.

 

A Roma succede: pensate a Campo de’ Fiori, sede dell’infame statuona dell’infame Giordano Bruno. La sera, ricordo bene, si vedevano serque di camionette della polizia parcheggiate in bella vista in Piazza, eppure la gente di sera, nello struscio della movida romana con qualche turista imbucato, ci si picchiava lo stesso, e selvaggiamente, e non si è mai capito perché.

 

Ecco, sono alcuni dei ricordi e dei pensieri che ho avuto quando è saltata fuori la storia del misterioso video in cui uno dei vertici del PD romano, ad una cena fuori porta, è stato ripreso dai residenti del luogo (che allarmati, hanno chiamato le Forze dell’Ordine) mentre urlava.

 

«Lo digoh a tutti quello che m’ha dettooooh».

 

«Vie’ qua. Te devi inginocchià. TI DEVI INGINOCCHIARE!»

 

«Li ammazzo. Li ammazzo».

 

«Cinque minuti je do. CINQUE».

 

«Vi sparo. T’AMMAZZO»

 

Come non pensare a Pugnazzo.

 

 

Cosa era successo? Non si è capito benissimo, tuttavia su certi non detti urlati (non è una contradicio in adjecto) ora stanno facendo delle indagini. Cosa minacciava di rivelare l’uomo fuori di sé? Intorno a lui, a quella cena «pugnazza» (eh sì, loro vanno ancora al ristorante) a quanto si apprende dai giornali: una consigliera regionale, un europarlamentare o ex, il fratello assicuratore UNIPOL, quantità di altri figuri che non sappiamo comprendere, se non per il comune denominatore: tutti del PD, tutto un via via di uomini di Zingaretti, Gualtieri, Letta e chissà quali altre figure oscure. Per noi, la dinamica di tutta la vicenda rimarrebbe incomprensibile, anche se ce la illustrasse con un Power Point Goffredo Bettini via Skype dalla Thailandia.

 

Rimane la violenza verbale, che in teoria un uomo maturo (specialmente uno che ha a che fare con lo Stato) dovrebbe sapere che in alcuni frangenti può costituire reato (art. 612 Codice Penale: «minaccia»).

 

Tutto, hanno detto, era partito da una lite sul derby Roma-Lazio: da quello che ho letto oggi su La Verità, potrebbe pure essere vero, e la cosa mi addolora ancora di più. Perché comunque ora su tutti i commensali si abbatte la vergogna nazionale (cagionata da un video uscito sul Foglio, chissà perché) e pure un’indagine della Procura di Frosinone.

 

Tutto questo, capite, non mi scandalizza nemmeno un pochino. Perché, dai, quella è l’ostentosa aggressività romana come descritta in tanti film e filmetti, e ben presente nei nostri pensieri.

 

È altro che ci deve scandalizzare.

 

Prima cosa, che dovrebbe farci cadere dalla sedia: il tizio che urla promettendo violenza, è il figlio di un ex rettore della Sapienza. Non solo: pioniere dell’ingegneria informatica nazionale, è stato pure ministro e Commissario europeo per la scienza, la ricerca e lo sviluppo e l’istruzione, la formazione e la gioventù.

 

Avete capito? Si tratta del rampollo di un «magnifico» della università romana per eccellenza, una delle più importanti della Nazione, un uomo di governo, un professore che è stato ai vertici di Bruxelles quando il presidente della Commissione era Jacques Delors.

 

Insomma, la definizione di una «buona famiglia» che discende da un intelligente, competente servitore dello Stato.

 

Suo figlio parla così? Si comporta così? Parrebbe. I giornali tirano fuori altri dettagli della tragedia dinastica: lo scorso febbraio i figli dell’urlatore, 19 e 17 anni, fermati dai Carabinieri per un controllo avrebbero detto «avete preso le persone sbagliate, non sapete chi siamo». Il padre pure era incappato in vicende non dissimili: «il primo maggio del 2020, in pieno lockdown, per dire, mentre tutti dovevano stare tappati in salotto, lui venne beccato dalla polizia a mangiare a casa di amici su una terrazza di via Macerata, al Pigneto» scrive Il Foglio.

 

E poi, il babbano extraromano, come lo scrivente, continua a chiedersi: ma quindi, quale rete lo ha portato ad essere lì dove è? È ereditaria? Come può uno essere soprannominato «Rocky» e al contempo avere tanto potere? Domande a cui non so rispondere, perché al laico non-capitolino la mappa sotterranea di Roma è più celata del nome segreto di Roma, quello per cui secondo la leggenda basterebbe pronunciarlo per vedere Roma distrutta (qualcuno è ancora alla cerca, giusto?).

 

Di questo «mondo di mezzo», per usare un’espressione usata per definire un altro giro ma forse nemmeno lontanissimo nello spazio, non sappiamo nulla, affiora solo qua e là qualche segno, qualche mostro – dal latino moneo, ammonire. Ecco il video del ristorante. L’inchiesta «Mafia capitale», finita non esattamente come sembrava dovesse finire. E poi ancora: ricordate la marmorea villa del boyscout rutelliano Luigi Lusi? E il tizio che chiamavano «Er Batman» con tutto lo scandalo alla regione Lazio?

 

C’è un’intero universo ctonio che gestisce il potere a Roma: poltrone, appalti, chissà cos’altro. Noi non solo non ne saremo mai parte (anche perché preferiremmo morire!), ma non siamo in grado nemmeno di accorgerci della sua esistenza – anche se esiste solo grazie al nostro danaro.

 

Quello che comprendiamo è che, come ora negli USA parlano di una Permanent Washington creata dal Deep State, esiste una «Roma permanente», solo che a differenza della palude della capitale americana, quella romana ci sta da 2775 anni.

 

Un po’ difficile disinstallarla. Anche perché, se ti avvicini, magari ti senti suonare il clacson. «Io te distruggo, sa’…»

 

Abbiamo parlato spesso, in questo sito, dello Stato-partito, cioè, secondo la sintetica definizione di Rino Formica, l’oramai avvenuta fusione degli apparati amministrativi permanenti con i partiti, che, senza alternativa possibile, si presentano sempre più chiaramente come immagini dello Stato stesso.

 

Ciò è, ovviamente, vero in particolare per il PD, partito talmente fuso con il sistema da non aver più nemmeno bisogno di alcun carisma nei suoi dirigenti: pensate a Fassino, Bersani, a Zingaretti, pensate a Letta… La macchina, dalle COOP alle cene pugnazze di consiglieri regionali e capi di gabinetto, va avanti da sola…

 

La «Roma permanente» è in larga parte fatta dal PD.

 

Tuttavia, anche gli altri partiti parlamentari tendono alla stessa dimensione di identità con lo Stato – non è un segreto per nessuno che ogni partito, in Italia, vorrebbe essere come il PD, che è un partito perdente, e quindi già questo dice tutto sull’arco costituzionale italiano.

 

In pratica: Roma non la cambi, Roma non la tocchi, perché a Roma viene da noi dato un potere, e un flusso immane di danaro, che viene gestito in larga parte a nostra insaputa, e in larghissima parte contro di noi –  e questo con assoluta pervicacia ed aggressività.

 

È a questo punto che ti sale la nostalgia canaglia di un personaggio pazzesco, che abbiamo la fortuna di aver visto operare nel fiore dei suoi anni, e in tutta la sua virilità salvifica: Umberto Bossi.

 

Ricordate quale era il mantra? «Roma Ladrona». Quanta ragione aveva?

 

Bossi che da un microfono veneziano il 18 settembre 2000 (22 anni fa!), accusava i «nazisti rossi alleati con i banchieri», le «lobby omosessuali», i «mondialisti», gli «sporcaccioni», i «porci». Proprio così.

 

Bossi che attaccò frontalmente Bruxelles con parole che nessuno ora osa ancora: «con l’Europa giacobina finiscono i diritti naturali collegati alla sovranità popolare e alla democrazia e avanzano i “nuovi diritti”: la dose minima di pedofilia, la famiglia orizzontale, il diritto d’immigrazione» (28 febbraio 2002)

 

Ma più ancora di quel che diceva – profetico potete vedere con gli occhi di oggi – l’Umberto era fondamentale per quello che era. Per la sua esistenza, per la sua presenza – umana, maschia.

 

Tale potenza di Bossi è stata ricordata di recente da un articolo di Paolo Guzzanti su Il Giornale.

 

«Di sentimenti forti Umberto Bossi ha inondato la politica fin da quando cominciò a diffondere l’ultimo brivido rivoluzionario in un’Italia ideologicamente frolla, praticamente inerte dopo i fallimenti già consumati ho invia di consumazione delle cosiddette ideologia del ventesimo secolo».

 

«Il messaggio di Umberto alla prima crociata era pesantissimo: secessione. L’Italia si spacca e quella che produce se ne va lasciando a secco l’Italia che non produce e che vive di rendita e sulle spalle della prima. Tutto ciò che era seguito al fortunoso sbarco di Garibaldi in Sicilia, e alla sua fin troppo fortunata risalita dello Stivale senza incontrare alcuna resistenza, veniva non solo messo in discussione ma idealmente rigettato».

 

Guzzanti senior ha riconciliato dentro di sé questa cosa:

 

«Certo, era molto difficile per un romano come me sentire dieci volte al giorno parlare di Roma ladrona, come se Roma capitale d’Italia non fosse stata ridotta a sentina dell’Italia intera, sfigurata nella sua identità e nella sua storia, ridotta un labirinto di palazzi afflitti dalla piaga della burocrazia e dello spreco (…) per questo alla fine non solo apprezzai lo spirito più radicale di Umberto Bossi ma mi trovai d’accordo: prendetevi questa capitale portatevela da qualche altra parte, pensavo, e che ognuno vada per la sua strada».

 

Sono parole piene di nostalgia, di pacificazione ma al contempo ci ricordano quale genio politico rivoluzionario fosse il Senatùr. Che più che un politico, era un trickster, una figura mitologica in grado di sconvolgere l’ordine delle cose – un ordine, in questo caso, immutabilmente romano.

 

Il figlio di Guzzanti, il geniale Corrado (che però, dicono, in fatto di imitazioni potrebbe essere inferiore al padre), si occupò spesso di Bossi nei suoi spettacoli TV.

 

Il colpo di genio definitivo lo ebbe quando, in un sofisticatissimo sketch che voleva essere un remake de Il Sorpasso, riuscì a romanizzare Bossi grazie alla colta citazione cinefila.

 

Qui vediamo Bossi nei panni del personaggio che fu di Vittorio Gassman, che parla, grazie alla maestria del Guzzanti jr., un’incredibile, inedita, impossibile commistione tra romanesco e milanese.

 

 

È davvero un’opera d’arte: inchioda una volte per tutte il ruolo di Bossi nel catalogo dell’umanità italiana.

 

Bossi ha resistito nelle decadi e si è fatto largo a Roma proprio perché, in fondo, aveva capito l’aspetto brutale della romanità, e glielo aveva rovesciato addosso.

 

Ecco, ci voleva un lombardo «romano», diretto e carnale, per difenderci dai romani-romani. Bossi rappresentava un’inaspettata ri-simmetrizzazione del conflitto tra Roma e il resto d’Italia: siete aggressivi, testardi, sboccati? Eccoci, possiamo esserlo anche noi. Se gli USA lo avessero capito in Afghanistan, ora a Kabul non ci starebbero i talebani: non hanno avuto un Bossi a riportare la simmetria tra gli umori delle parti.

 

È inutile che ci ricordiate che la missione di Umberto non è stata completata. Lo sappiamo. Lo vediamo dalle cene nei ristoranti del Frusinate, e da tante altre cose – per esempio l’esistenza del romanissimo Calenda, che gli scienziati sarebbero ad un passo dal poter spiegare (copyright Lercio).

 

Ora Bossi è candidato sicuro; Salvini è, come Berlusconi, uno riconoscente. Tuttavia, sappiamo che non può più essere il Bossi di un tempo.

 

Noi lo ricordiamo in tante sue declinazioni: con la canotta in Sardegna a casa di Berlusconi, sul palco di innumeri comizi infuocati, o ancora, seduto accanto al grande politologo Gianfranco Miglio, quello che odiava Roma al punto da voler fare proprio di Frosinone la capitale d’Italia.

 

Umberto quanto ci manchi.

 

Umberto salvaci tu dai Pugnazzo e dal PD.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine di Gorup de Besanez via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 4.0 Internazionale (CC BY-SA 4.0); immagine tagliata

 

 

 

 

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