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L’UE lavora con i governi per identità digitale e censura online

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Nell’ambito di una campagna più ampia volta ad espandere la propria influenza globale nell’era digitale, l’Unione Europea ha introdotto una radicale strategia digitale internazionale che si basa fortemente su infrastrutture centralizzate, sistemi di identità digitale e quadri normativi che sollevano importanti questioni sulle libertà e sulla privacy online. Lo riporta Reclaim The Net.

 

Nell’annunciare l’iniziativa, la Commissione europea ha sottolineato la sua intenzione di collaborare con i governi stranieri in una serie di settori, in particolare nei sistemi di identità digitale e in quella che definisce «infrastruttura pubblica digitale».

 

Questi quadri, che hanno ottenuto ampio sostegno da parte di istituzioni transnazionali quali le Nazioni Unite e il World Economic Forum, vengono commercializzati come strumenti per semplificare il commercio transfrontaliero e migliorare la mobilità. Tuttavia, per i sostenitori della privacy, la strategia solleva dei dubbi in quanto promuove programmi di identificazione digitale interoperabili e un modello di governance orientato alla sorveglianza, sotto l’egida dell’efficienza.

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Secondo i documenti strategici, uno degli obiettivi dell’UE è promuovere il riconoscimento reciproco dei servizi fiduciari elettronici, comprese le identità digitali, tra i paesi partner come Ucraina, Moldavia e diversi Paesi dei Balcani e dell’America Latina. Ciò è in linea con l’ambizione dell’UE di diffondere il suo modello di Portafoglio di Identità Digitale, un’iniziativa che, secondo gli attivisti per la privacy, potrebbe consolidare il controllo governativo sui dati personali.

 

La strategia delinea anche misure volte ad approfondire la cooperazione in materia di regolamentazione digitale globale, comprese le leggi che regolano la libertà di parola online.

 

Sebbene inquadrati come iniziative volte a promuovere «la libertà di espressione, la democrazia e la privacy dei cittadini», questi sforzi sono strettamente legati all’applicazione del Digital Services Act (DSA), che impone un’ampia conformità della piattaforma e un monitoraggio del rischio sistemico.

 

 

La richiesta della DSA include obblighi in materia di tutela dei minori, una motivazione frequentemente utilizzata per una maggiore moderazione dei contenuti e requisiti di identificazione online.

 

A pagina 11 della strategia, l’UE si impegna a intensificare la lotta contro quella che definisce manipolazione e interferenza delle informazioni straniere (FIMI), promettendo una maggiore attribuzione di tali attività.

 

Ciò rafforza la tendenza a istituzionalizzare il controllo delle informazioni e a delegittimare le narrazioni straniere attraverso una definizione ampia di interferenza.

 

L’UE cerca inoltre di consolidare il proprio modello di governance digitale attraverso programmi di allineamento con paesi come India, Brasile, Egitto e Uruguay, in particolare nei settori dell’interoperabilità dell’identità digitale e dello sviluppo delle infrastrutture pubbliche. Apprezza il Global Digital Compact delle Nazioni Unite, un accordo volto a definire le regole globali di Internet, inclusa la regolamentazione dell’identità digitale e dei contenuti, come fondamento condiviso per il futuro ordine digitale.

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Anche i requisiti di verifica dell’età rientrano negli sforzi dell’UE, in particolare attraverso la promozione del DSA. La strategia designa la «protezione e l’emancipazione dei minori online» come priorità globale, un’espressione che, sebbene apparentemente protettiva, spesso funge da pretesto per richiedere meccanismi di sorveglianza e strumenti di moderazione delle piattaforme più rigorosi.

 

«Considerando la trasformazione digitale sia come un imperativo economico che come una preoccupazione per la sicurezza, la strategia dell’UE rafforza la convergenza di interessi tra il potere statale e le infrastrutture aziendali» scrive Reclaim The Net. «È una visione del futuro digitale in cui la verifica dell’identità, l’armonizzazione normativa e le partnership globali si fondono in un ecosistema rigorosamente gestito, che potrebbe lasciare poco spazio a una privacy significativa e alla partecipazione anonima online».

 

L’espansione delle maglie della censura da parte dell’Europa è risalente, e ha trovato fiato soprattutto durante gli anni pandemici, nei quali sono stati mandati avanti appalti per la realizzazione elettronica del sistema.

 

Come riportato da Renovatio 21, Bruxelles i è mossa verso la formalizzazione del «codice di disinformazione» ai sensi del DSA.

 

Come riportato da Renovatio 21, l’Europa si sta scagliando contro i colossi della pornografia web con il pretesto della protezione dei minori ma con il fine, nemmeno tanto dissimulato, di introdurre sistemi di identificazione digitale di precisione per tutti i cittadini, il famoso portafoglio UE.

 

Sullo sfondo, l’avvio dell’euro digitale, la piattaforma di controllo che ingollerà mezzo milione di europei comandandone per sempre le esistenze. Il credito sociale della Repubblica Popolare Cinese al confronto sembrerà una mite misura liberale.

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La Francia apre un procedimento penale contro X di Musk. Durov: da Parigi una «crociata» contro la libertà di parola e il progresso tecnologico

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La Francia ha aperto un’indagine penale per verificare se gli algoritmi della piattaforma X di Elon Musk siano stati utilizzati per interferire nella politica interna.   L’indagine trae origine da due denunce presentate a gennaio, ha dichiarato venerdì la procuratrice di Parigi Laure Beccuau. Senza fare il nome diretto di Musk, ha dichiarato che gli investigatori esamineranno l’azienda e i suoi dirigenti per presunta manipolazione di algoritmi «a fini di interferenza straniera».   La prima denuncia è arrivata da Eric Bothorel, un parlamentare del partito centrista Ensemble del presidente Emmanuel Macron. Il Bothorel ha affermato che una «riduzione della diversità di voci e opzioni» su X ha creato un ambiente pericoloso. Bothorel ha anche criticato il modello di moderazione della piattaforma, definendolo poco chiaro, e ha accusato Musk di essere intervenuto personalmente nella sua gestione, secondo France 24. La denuncia descriveva le attività di X come un «pericolo reale e una minaccia per le nostre democrazie».

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La seconda denuncia sarebbe partita da un funzionario governativo addetto alla sicurezza informatica, il quale ha affermato che le modifiche all’algoritmo promuovono contenuti razzisti e omofobi, con l’obiettivo di «alterare il dibattito democratico in Francia».   Giovedì, i politici del Partito Socialista Thierry Sother e Pierre Jouvet hanno presentato una denuncia separata contro il chatbot Grok di Musk, che di recente avrebbe generato commenti offensivi e politicamente scorretti su X, dicendo ad esempio, in una bizzarra auto-reductio ad Hitlerum macchinale, di essere «MechaHitler».   Mercoledì, il team di Grok ha dichiarato di aver aggiornato il modello per rimuovere i discorsi d’odio. Musk ha affermato che il chatbot era «troppo arrendevole alle richieste degli utenti» e «troppo desideroso di compiacere ed essere manipolato» per produrre retorica d’odio.   I politici europei hanno chiesto sempre più una maggiore supervisione di X e piattaforme simili, mettendo in guardia da potenziali abusi da parte di attori malintenzionati. Musk ha suscitato polemiche a Berlino quando ha apertamente appoggiato il partito anti-immigrazione Alternativa per la Germania (AfD) durante le elezioni parlamentari di febbraio. L’AfD ha aumentato significativamente la sua quota di voti, diventando la seconda fazione più numerosa nel Bundestag.   La Francia ha intrapreso una «crociata» contro la libertà di parola e il progresso stesso, ha dichiarato venerdì il fondatore di Telegram, Pavel Durov, dopo che Parigi ha avviato l’indagine su X. Le autorità francesi dovrebbero dialogare con le aziende tecnologiche invece di processarle, ritiene l’imprenditore.   Le azioni dei «burocrati francesi» non faranno altro che «spaventare gli investimenti e danneggiare la crescita economica del Paese per decenni», ha scritto il miliardario di origine russa su X.   «Alcuni procuratori, spinti da ambizioni di carriera o da motivi politici, stanno mettendo a repentaglio il futuro del Paese, avviando indagini penali su questioni che potrebbero (e dovrebbero) essere risolte attraverso una regolamentazione chiara e la cooperazione con i leader della tecnologia», ha scritto il Durov, commentando gli sviluppi.

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Lo stesso CEO di Telegram sta affrontando accuse penali in Francia, che ha recentemente definito «senza precedenti». Durov, la cui azienda ha sede a Dubai, è stato arrestato in Francia nell’agosto 2024 con l’accusa di complicità in reati presumibilmente commessi dagli utenti di Telegram, tra cui estremismo e abusi su minori. È stato successivamente rilasciato su cauzione di 5 milioni di euro, ma rimane sotto sorveglianza limitata.   Dopo il suo arresto, il suo servizio di messaggistica crittografata ha aggiornato la propria politica sulla privacy per consentire la raccolta di metadati, come indirizzi IP, informazioni sui dispositivi e modifiche del nome utente, per un massimo di un anno e la loro potenziale trasmissione alle «autorità giudiziarie competenti».   Durov ha liquidato le accuse contro di lui come infondate, mentre il suo avvocato le ha definite «totalmente assurde». L’imprenditore ha anche ripetutamente criticato la situazione della libertà di parola nell’UE. L’anno scorso, ha affermato che l’Unione stava imponendo più censura e restrizioni ai media rispetto alla Russia, dopo che i canali delle principali testate giornalistiche russe su Telegram erano stati resi inaccessibili nell’UE.   A maggio, Durov ha annunciato una partnership con la startup xAI di Musk, che prevede l’integrazione del chatbot Grok in Telegram. Musk ha anche elogiato il suo collega imprenditore tecnologico per essersi rifiutato di accogliere la richiesta del governo francese di bloccare i contenuti politici conservatori sulla piattaforma di messaggistica.

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Google chiude il sito Messa in Latino. Contro il totalitarismo web, sarebbe ora di finirla con i blog

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Il sito Messa in Latino è stato rimosso dalla piattaforma che lo ospitava, Blogger, che è di proprietà di Google.

 

Il sito, noto come MiL, era nato nel 2007 all’altezza del Summorum Pontificum di Benedetto XVI, il motu proprio secondo cui, in teoria, veniva «liberata» la messa tradizionale nel mondo. Il blog era molto trafficato (si parla di un milione di visite solo lo scorso mese!)  da chi si interessava della Messa in rito antico e non di rado conteneva succose rivelazioni riguardo le meccaniche interne della gerarchia a Roma e nelle diocesi.

 

La notizia della chiusura del sito è rimbalzata sui giornali e anche al di là dell’Atlantico: a parlarne è anche LifeSiteNews. Secondo quanto riportato in una email inviata da blogger.com si informavano i redattori di Messa in Latino che il sito era stato chiuso con effetto immediato. MiL aveva qualcosa come 22.000 post, un vero tesoro di testimonianza degli ultimi 20 anni di post-concilio.

 

«Spiacenti, il blog all’indirizzo lamessainlatino.blogspot.com è stato rimosso» è la scritta che appare se si digita l’URL del sito.

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Il Giornale riporta che ora «proprietari del blog hanno reagito rivolgendosi ad uno studio legale ed inviando una diffida per lamentare quella che hanno definito “l’inopinata e soprattutto immotivata soppressione dello stesso” ed hanno richiamato il rispetto dell’articolo 21 della Costituzione in merito al diritto alla libera manifestazione del pensiero».

 

I motivi della chiusura ad oggi restano, come quasi sempre accade, oscuri.

 

«Il team di Blogger non ha fornito dettagli su possibili violazioni della politica. Tuttavia, MIL ha suggerito che l’azienda di proprietà di Google avesse sollevato obiezioni ad alcuni post che promuovevano la dottrina cattolica e mettevano in guardia dai pericoli della Massoneria» scrive l’inviato di LifeSitea Roma Michale Haynes. In rete circolano varie altre speculazioni su quale contenuto possa aver fatto scattare la censura: questa o quell’intervista, questo o quell’articolo, quel commento, etc.

 

Tuttavia, nessuna di queste ipotesi è credibile: è quello che Renovatio 21, che di piattaforme e censure se ne intende, ha imparato in tanti anni di colpi ricevuti, anche in tribunale. L’amara realtà, valida per chiunque sui social, è che non sai mai davvero per cosa ti abbiano censurato.

 

Si tratta, invero, di una situazione del tutto simile a quella de Il Processo di Franz Kafka: si viene processati e condannati ma non si sa nemmeno per quale accusa. Appellarsi è impossibile, e non vi è – a meno di non passare per gli avvocati, anche lì con tanta fatica, nessun volto umano con cui parlare, talvolta nemmeno una email generica a cui rivolgersi.

 

Come abbiamo tante volte ripetuto su queste pagine, i social in questo modo altro non fanno che fungere da grande prefigurazione della società totalitaria del futuro prossimo, dove il cittadino diviene «utente» che non ha più diritti, ma gode di «accessi» revocabili a comando dall’alto, con lo Stato a divenire piattaforma in una società controllata e regolata in modo macchinale.

 

Il fenomeno di rimuginare riguardo alla censura inflitta può arrivare a livelli di paranoia – tante volte lo abbiamo visto anche con grandi figure americane, sparite improvvisamente da YouTube (un’altra mega-piattaforma di Google) o perfino da Amazon, dove abbiamo visto sparire negli anni – cioè essere cancellati, come non fossero mai esistiti – i libri dello psicanalista della terapia riparativa per omosessuali Joseph Nicolosi, i testi di E. Michael Jones o, più di recente, i libri del pensatore russo Alessandro Dugin.

 

L’unica realtà possibile, è il consiglio spassionato di Renovatio 21 a MiL e a tutti, è quella di andare avanti comunque, tenendo a mente una serie di cose.

 

In primis, il modello hub and spoke: immaginate che la vostra operazione sia una ruota, ebbene non dovete concentrarvi sui raggi, ma sul mozzo, sul centro della ruota, e da lì procedere verso i raggi (i social, etc.). Il sito, quindi, non può appoggiarsi su una piattaforma straniera, soprattutto se del giro della Silicon Valley compromessa non solo con la cultura wokista, ma soprattutto con lo Stato Profondo USA. È necessario farsi un sito proprio, con un hosting provider fuori dal giro – nemmeno quello, sappiamo, è abbastanza, ma con i backup (in teoria, anche qui: sempre in teoria) in caso di chiusura si può riaprire rapidamente da un’altra parte. Basarsi sul sito, e non sui social o su piattaforme che rendono tutto più facile, non solo è arduo, ma garantisce meno traffico: eppure, la via più corta ti espone alla devastazione che conosciamo.

 

In secundis, cercare di solidificare la propria posizione, mettendo di mezzo corpi intermedi: come sapete, qui abbiamo penato non poco, e da poco ottenuto, lo status di testata registrata in tribunale – e guai a chi gli scappa di chiamare ancora «blog» Renovatio 21 (Sua Eccellenza, la perdoniamo). Chiaramente, nemmeno questo mette a riparo dalla censura – lo abbiamo visto in pandemia, dove venivano oscurate testate tradizionali antiche e pure dell’establishment, e lo vedremo ancora grazie all’Unione Europea – tuttavia mettere di mezzo corpi intermedi dello Stato e delle sue corporazioni potrebbe, in qualche modo, aiutare.

 

Farla finita con i blog, i profili Instagram, le pagine Facebook, i canali Telegram e Youtube. E aprire testate giornalistiche sic et simpliciter: sfruttiamo a possibile schermatura la pletora di Stato (leggi, sindacati, ordini, ministeri, tribunali) che esse comportano. No alla bloggheria; sì alla burocrazia.

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Sono solo le nostre indicazioni, basate sulla realtà vissuta nel travaglio di questi lustri. Non è escluso che la cosa si risolva al volo: è successo così anche a Chiesaepostconcilio, altra realtà molto conosciuta sparita dai radar qualche settimana fa, per poi ricomparire d’improvviso. Anche quello è un sito, anzi proprio un sedicente blog, che è rimasto appoggiato per decenni, senza evoluzione di sorta, ad una piattaforma aliena. Comodo, perfino gratuito: ma esiziale.

 

È facile che in questi casi, la censura sia scattata, più che per contenuti, per segnalazioni a ripetizione: tenete a mente che vi sono orde, specie di certuni orientamenti, fortemente organizzate, e pagate per esserlo, e per agire nella delazione online e pure IRL, cioè nella vita reale. A volte la segnalazione genera la censura, ma infine non attacca del tutto, perché l’argomento è considerato di importanza secondaria (la religione, per essi, lo è: «oppio dei popoli» diceva uno dei loro maestri di ingegneria sociale materialista) e non c’è volontà di rischiarsela in Paesi con leggi dove sopravvivono, malomodo, barlumi di libertà di parola con copertura costituzionale. Non è stato il nostro caso

 

Non abbiamo una ricetta magica per evitare il bavaglio, ma possiamo dire che ci siamo, purtroppo, passati. Ai ragazzi di MiL possiamo dire che capiamo il senso di sgomento abissale nel vedere tutto il proprio lavoro – che coincide, in alcuni pensieri, con la propria vita, e forse pure, visto il significato storico, sociale e morale di quel che si fa, qualcosa di più – disintegrato con un click da un’autorità invisibile ed oscura.

 

Lo ribadiamo: si tratta solo di un’antemprima della società futura, dove saremo valutati, premiati e puniti per i nostri pensieri, e nemmeno quelli scritti o detti, ma quelli del nostro foro interiore, come nei progetti di interfaccia cervello-macchina di Klaus Schwab e compagni.

 

Forza, avanti. Mica ci si può fermare quando ti distruggono tutto. No?

 

«Si Deus pro nobis, quis contra nos?» (Rm 8, 31)

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Andrewgardner1 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0). Immagine modificata

 

 

 

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L’UE potrebbe multare Meta-Facebook di 22 milioni di dollari al giorno

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Meta, la società madre di Facebook, si troverebbe ad affrontare nuove accuse antitrust da parte dell’UE e multe giornaliere multimilionarie dopo essersi rifiutata di modificare ulteriormente il suo controverso modello «paga o acconsenti».   Il modello di Meta, introdotto nell’UE nel novembre 2023, prevede che gli utenti paghino un abbonamento per utilizzare Facebook e Instagram senza che i loro dati vengano tracciati o vengano bombardati da annunci pubblicitari personalizzati. L’abbonamento mobile iniziale costa 12,99 euro al mese.   Le autorità di regolamentazione dell’UE affermano che il modello viola le norme del Digital Markets Act (DMA), che impone alle grandi aziende tecnologiche, note come «gatekeeper», di offrire versioni alternative dei loro servizi che utilizzano meno dati personali ma che funzionano altrettanto bene. Ad aprile, il gigante tecnologico statunitense è stato multato di 200 milioni di euro per non aver rispettato questa norma.

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Nel 2024, l’azienda, proprietaria anche di WhatsApp, ha ridotto l’utilizzo dei dati personali e dimezzato il canone di abbonamento, ma la Commissione Europea ha ritenuto che le modifiche siano insufficienti. Il mese scorso, ha avvertito l’azienda che, in caso di mancata adozione di ulteriori misure, avrebbe potuto incorrere in sanzioni giornaliere fino al 5% del suo fatturato globale. Considerando il fatturato del 2024 di 164,5 miliardi di dollari, l’azienda potrebbe incorrere in sanzioni giornaliere fino a 22,5 milioni di dollari.   Tuttavia, il colosso tecnologico statunitense insiste sul fatto che «non proporrà ulteriori modifiche a meno che non cambino le circostanze», ha scritto venerdì Reuters, citando persone a conoscenza diretta della questione.   Meta ha rifiutato di commentare, ma ha precedentemente dichiarato di ritenere di essere conforme al DMA, ha osservato Reuters. L’azienda ha anche difeso il suo modello come un approccio commerciale legittimo e ha accusato la Commissione Europea di aver preso di mira ingiustamente le sue pratiche commerciali.   La controversia riflette un più ampio scontro tra le autorità di regolamentazione dell’UE e le piattaforme Big Tech sulla concorrenza digitale. Il DMA, entrato in vigore nel 2023, mira a limitare i comportamenti anticoncorrenziali e a promuovere l’equità nei mercati online.   Come riportato da Renovatio 21, Facebook sta affrontando in Kenya un’azione legale da 2,4 miliardi di dollari per contenuti di guerra diffusi sulla piattaforma.

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Come riportato da Renovatio 21, già due anni fa Amnesty International aveva accusato Facebook di diffondere l’odio in Etiopia.   Durante la campagna elettorale, il presidente della Cambogia, che correva per la rielezione, aveva temporaneamente lasciato la piattaforma dopo che un osservatorio di Facebook aveva criticato il linguaggio in uno dei suoi video e ha raccomandato di sospendere l’account del primo ministro per sei mesi.   I famigerati «standard della comunità di Facebook» non sembrano avere troppi problemi con il battaglione Azov, con lo Zelens’kyj che ringrazia per il prezioso aiuto nello «spazio informativo».   Negli anni si sono accumulate accuse e rivelazioni su Facebook, tra cui accuse di uso della piattaforma da parte del traffico sessuale, fatte sui giornali ma anche nelle audizioni della Camera USA.   Un bizzarro, goffo spot di Facebook di qualche anno fa rivelava forse cosa la piattaforma pensa davvero dei suoi utenti, visti come vecchi pupazzi destinati al macero.  

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Immagine di Tony Webster via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
 
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