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Ambiente

Il terrorismo climatico e ambientale come nuova tappa della strategia della tensione emergenziale. Intervista al prof. Luca Marini

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Il clima e l’ambiente stanno diventando il pretesto per giustificare nuove crisi e nuovi «whatever it takes», secondo la famosa espressione di Mario Draghi, quello che stampava miliardi di euro BCE con il quantitative easing e poco dopo metteva la popolazione nazionale sotto la sorveglianza della piattaforma bioelettronica del green pass.

 

Uno Stato in continua emergenza può permettere di infliggere alla popolazione cambiamenti radicali di tipo economico, politico, sociale, psicologico. Lo Stato moderno pare aver scoperto l’emergenza come forma di governo, di controllo della cittadinanza, e quindi di esistenza dello Stato stesso.

 

Di questa deriva emergenziale, nella peculiare prospettiva costituita dalla riflessione bioetica, torniamo a parlare con il professor Luca Marini, docente di diritto internazionale alla Sapienza di Roma, già vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica.

 

Il professor Marini ha recentemente curato il volume Ecotruffa. Le mani sul clima (Edizioni La Vela, Lucca) con il contributo di climatologici, chimici, ingegneri, economisti e politologi. Il volume, ampiamente recensito in questi giorni anche dalla grande stampa, è già destinato a sollevare polemiche proprio nel momento in cui taluni, abbiamo visto, arrivano a invocare il reato di «negazionismo climatico».

 

Allora, prof. Marini, cosa c’entra la bioetica con l’ambiente?

Pochi sanno che il termine «bioetica», già presente nel dibattito teologico tedesco degli anni Venti, ha acquisito l’attuale notorietà solo dopo la pubblicazione del libro Bioethics: a bridge to the future, pubblicato nel 1971 da un noto oncologo americano. E quasi nessuno ricorda che l’oncologo in questione, Van Rensselaer Potter II [1911-2001, ndr], utilizzò il termine «bioetica» nel contesto peculiare della salvaguardia dell’ambiente in un momento storico di forte sensibilità per le sorti del pianeta e dell’habitat umano, che di lì a breve avrebbe condotto alla prima conferenza internazionale sull’ambiente: la celebre conferenza di Stoccolma del 1972. In seguito, come invece tutti sanno, il termine «bioetica» è stato utilizzato quasi esclusivamente in ambito medico-sanitario e anche i successivi sviluppi della riflessione bioetica, che hanno portato alla nascita del biodiritto, non sono andati al di là del peculiare ambito della biomedicina.

Col tempo la bioetica avrebbe quindi subito una vera e propria reductio ad unum?

Personalmente ritengo che si sia trattato di una riduzione epistemologica pianificata a tavolino allo scopo precipuo di concentrare e pilotare il dibattito bioetico verso l’esaltazione acritica delle rutilanti prospettive della biomedicina, evitando così che l’opinione pubblica si ponesse troppi dubbi in merito ai rischi e ai limiti delle biotecnologie e delle altre tecnologie biomedicali. È prova di ciò l’esperienza italiana, dove il dibattito bioetico, biopolitico e biogiuridico si è di fatto esaurito nelle contrapposizioni ideologiche, culturali e confessionali sui temi di inizio-vita (clonazione, cellule staminali, statuto dell’embrione) e di fine-vita (accertamento della morte, stato vegetativo, testamento biologico), senza peraltro produrre alcun risultato concreto: basti pensare, tra i tanti, al problema degli embrioni soprannumerari.

Né sembra che la bioetica, almeno in Italia, sia andata molto più lontano dei temi che lei ha appena ricordato.

Dirò di più. Oggi, dopo la grande truffa del COVID, la bioetica medica deve considerarsi clinicamente morta: azzerati i principi di beneficenza, non maleficenza e giustizia, calpestato il principio di precauzione, stuprato il principio del consenso informato, della cosiddetta riflessione bioetica non restano che gli escamotages verbali di quanti, ossequiando il feticcio costituito dal preteso primato della scienza e della medicina, si sforzano di legittimare la deriva totalitaristica di governi tecnocratici espressi dalle élites finanziarie internazionali.

La scomparsa della bioetica medica, purtroppo, non ha comportato la rivalutazione della bioetica ambientale. 

Direi proprio di no. Anzi, il terrorismo climatico e ambientale, orchestrato dalle élites poc’anzi citate con la complicità dei soliti circuiti accademici, politici e mediatici, costituisce la nuova tappa di quella strategia della tensione avviata dal COVID e intesa a strumentalizzare situazioni di crisi – reali o fittizie – per giustificare e legittimare, sul piano etico-giuridico, l’introduzione di meccanismi di soggiogamento di intere popolazioni, in tutto simili al green pass vaccinale.

Può farci un esempio di quanto sostiene?

Basti pensare alla normativa europea sul cosiddetto «efficientamento» energetico delle abitazioni o degli autoveicoli che, ponendo limiti severi rispettivamente alla vendita degli immobili o all’acquisto di automobili difformi dagli standard introdotti, viene di fatto a svuotare di contenuti il diritto di proprietà. Oppure alla cronaca italiana delle scorse settimane, dove gli allagamenti e le inondazioni hanno rapidamente scalzato, nella comunicazione mainstream, la pretesa crisi idrica di cui tanto si è parlato in precedenza. Oppure al caldo di questi giorni, tipico di una calda estate mediterranea, subito spacciato dai soliti galantuomini come sintomo evidente di una «situazione fuori controllo». O una volta per tutte, a quanto sta emergendo, e probabilmente emergerà in modo ancora più eclatante in futuro, sulla manipolazione dei dati climatici da parte dei cosiddetti esperti dell’ONU sul climate change.

Cosa fare, quindi?

Personalmente, ritengo che per arrestare la deriva in atto sia necessario, oggi più che mai, promuovere e sollecitare una adeguata riflessione pubblica sul grado di controllo che le élites finanziarie internazionali esercitano sui circuiti scientifici, accademici, produttivi, comunicativi, politici e decisionali nella società contemporanea, mettendo in guardia i cittadini in merito ai rischi per i diritti e le libertà fondamentali derivanti da questo controllo e dalla manipolazione dell’informazione da esso derivante.

E in questo quadro come vede la costellazione di movimenti del dissenso politico che si è sviluppata negli ultimi due anni?

Male. L’impegno politico, anche in funzione dissidente, è davvero relativo, perché la politica – esattamente come la violenza – è solo una scorciatoia rispetto alla conoscenza e all’approfondimento dei problemi. Ciò che occorre non è politica, almeno per come funziona in Italia, né tantomeno violenza, ma formazione, cultura e senso critico: proprio ciò che non vogliono le élites finanziarie, i governi liberisti e i media transumanisti. Ognuno tragga le sue conclusioni.

 

 

 

Ambiente

Gli scienziati chiedono la geoingegneria dei ghiacciai per affrontare il cambiamento climatico

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Secondo un nuovo white paper scientifico, la comunità scientifica dovrebbe avviare con urgenza la ricerca sulla geoingegneria dei ghiacciai.

 

Secondo lo scritto, la ricerca sulla geoingegneria delle calotte glaciali dell’Artico e dell’Antartico deve essere intrapresa ora, prima che l’umanità si trovi ad affrontare un innalzamento catastrofico del livello del mare, che potrebbe indurre a prendere decisioni affrettate per fermarlo.

 

«Tutti gli scienziati sperano che non sia necessario fare questa ricerca», ha affermato Douglas MacAyeal, professore di scienze geofisiche e coautore dello studio. «Tuttavia sappiamo anche che se non ci pensiamo, potremmo perdere un’opportunità di aiutare il mondo in futuro».

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Il white paper è emerso da due conferenze tenute sulla geoingegneria, interventi deliberati per alterare il clima del pianeta, a Chicago e alla Stanford University in California. Le conferenze sono state organizzate dalla neonata Climate Systems Engineering initiative presso l’UChicago, che «cerca di comprendere i benefici, i rischi e la governance delle tecnologie che potrebbero ridurre gli impatti dei gas serra accumulati», secondo un comunicato stampa.

 

Gli scienziati presenti alle conferenze hanno sostenuto che due tipi principali di geoingegneria devono essere studiati. Il primo tipo consiste in «tende» ancorate sul fondale marino per impedire all’acqua calda di indebolire le piattaforme di ghiaccio. La minaccia più grande per le calotte glaciali non è l’aria calda, ma l’acqua calda, scrivono.

 

Il secondo tipo riguarda i tentativi di ridurre il flusso di flussi di acqua di fusione che scorrono dalle calotte glaciali. Ciò potrebbe essere ottenuto, ad esempio, perforando in profondità i ghiacciai, sia per drenare l’acqua dal letto del ghiacciaio e impedire che influenzi il ghiacciaio, sia per provare a congelare artificialmente il letto del ghiacciaio.

 

Il testo sottolinea che entrambi gli approcci non sono stati ancora testati e che i loro vantaggi e svantaggi, tra cui il potenziale impatto ambientale, non sono chiari.

 

Il rapporto chiede che qualsiasi indagine sulle soluzioni di geoingegneria venga condotta in modo equo, con il contributo di tutte le nazioni del mondo. Ciò implicherebbe «una solida partecipazione di sociologi, umanisti, ecologi, leader della comunità, organi di governo scientifici e ingegneristici, organizzazioni di trattati internazionali e altri stakeholder rilevanti nel guidare la ricerca».

 

La geoingegneria è oramai tema discusso apertamente dal mondo scientifico e dai media.

 

A febbraio, il Wall Street Journal ha pubblicato un rapporto dettagliato su tre progetti di geoingegneria in corso in tutto il mondo, finanziati sia dal governo che da privati.

 

In Australia, i ricercatori della Southern Cross University stanno rilasciando una miscela di salamoia nel cielo per creare nubi più grandi e luminose che riflettano più luce solare così da ridurre le temperature locali. Il progetto è finanziato dal governo australiano, dalle università e dalle organizzazioni per la conservazione.

 

In Israele, un’azienda di nome Stardust Solutions sta testando un sistema di distribuzione per disperdere particelle riflettenti ad altitudini elevate, sempre per ridurre la radiazione solare. La startup sta attualmente testando il sistema al chiuso, ma passerà ai test all’aperto nei «prossimi mesi».

 

Negli Stati Uniti, il Woods Hole Oceanographic Institute ha in programma di aggiungere 22.000 litri di idrossido di sodio all’oceano al largo di Martha’s Vineyard così da produrre un «pozzo di carbonio» che risucchi l’anidride carbonica dall’atmosfera e la conservi nel mare. Il progetto è finanziato dal governo degli Stati Uniti e da fonti private. Il rilascio della sostanza chimica richiederà un’ulteriore approvazione da parte dell’Environmental Protection Agency, l’ente di protezione ambientale americano.

 

Ancora più preoccupante è il fatto che aziende e privati ​​​​stiano sperimentando la geoingegneria, senza il supporto o l’approvazione del governo.

 

Come riportato da Renovatio 21, a gennaio 2023, una startup californiana chiamata Make Sunsets ha ammesso di aver lanciato in Messico palloni di prova contenenti anidride solforosa, una sostanza chimica di grande interesse per i geoingegneri per la sua capacità di riflettere la radiazione solare nell’atmosfera.

 

Sebbene i lanci di prova siano stati accolti con rabbia dalla comunità scientifica e dal governo messicano, il CEO di Make Sunsets, Luke Eisen, non si è pentito e ha affermato che presto la sua azienda avrebbe iniziato a rilasciare nell’atmosfera tanto zolfo «quanto riusciamo a farci pagare dai clienti».

 

La startup offre un sistema di «credito di raffreddamento» sul suo sito web in cui i clienti possono pagare 10 dollari per un grammo di anidride solforosa nel carico utile di un pallone.

 

Come riportato da Renovatio 21, uno dei disastri più recenti della geoingegneria sembra essere stato il diluvio che ha investito Dubai, città sita nel deserto della Penisola Arabica. La catastrofe potrebbe essere stata provocata, è stato perfino ipotizzato su giornali mainstream da metereologi esperti, dall’uso che l’Emirato fa del cloud seeding, cioè la tecnologia geoingegneristica che mira a migliorare e accelerare il processo di precipitazione.

 

Contrariamente a quanto si può pensare, tecnologia di controllo del meteo è in realtà vecchia di decenni. Da anni la Cina e gli USA stanno lavorando a tecnologie di controllo del clima che si sospetta abbiano la chiara possibilità di essere utilizzate come armi nei conflitti del futuro.

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Come riportato da Renovatio 21, anche la UE ha lanciato un avvertimento sull’uso della geoingegneria. Il mese scorso il senato dello Stato americano del Tennesee ha approvato un disegno di legge vieta la geoingegneria delle scie chimiche.

 

Nel 2021 circa 400 scienziati hanno invitato la comunità globale a emanare un «accordo internazionale di non utilizzo» per la geoingegneria solare, ponendo fine all’ulteriore sviluppo della tecnologia «prima che sia troppo tardi». Vi sono stati tuttavia scienziati che hanno spinto pubblicamente per l’implementazione della tecnologia chimico-metereologica in conferenze internazionali, trovando però alcuni colleghi nettamente contrari.

 

George Soros in un recente intervento ha parlato concretamente di geoingegneria solare contro il Climate Change da effettuarsi con grandi aerei che spruzzano l’aerosol sui cieli dell’Artico. La proposta di ricongelamento dei poli terrestri tramite sostanze rilasciate in aria è stata espressa anche altrove.

 

Come riportato da Renovatio 21è stato con i danari di Bill Gates che pochi anni fa si preparò un esperimento di oscuramento chimico del sole in Svezia. L’operazione fu alla fine fermata, anche per le proteste delle minoranze lapponi.

 

Tuttavia, il principale scienziato fautore della cosiddetta geoingegneria solare, l’harvardiano David Keith, ha rivendicato la tecnologia di controllo del clima planetario in un lungo editoriale sul New York Times, che esprimeva concetti allucinanti, come l’accettazione della morte di quantità massive di esseri umani a causa delle ricadute delle sostanze chimiche, un male minore rispetto all’apocalisse climatica da egli prospettata.

 

Lo Stato USA del Tennessee a marzo ha bandito la geoingegneria delle scie chimiche.

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Ambiente

I furgoni elettrici di Amazon continuano a prendere misteriosamente fuoco

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I furgoni per le consegne in USA di Amazon, prodotti da Rivian – un concorrente di Tesla – continuano a prendere fuoco. Lo riporta il sito Quartz.com.   L’articolo che ha evidenziato come i furgoni blu Prime visti in tutti gli USA continuino a prendere fuoco nei centri di distribuzione di Amazon.   «Ci si comincia a chiedere il perché», si chiede QZ.com. Il pezzo sottolinea che le riprese di Third Coast Drone mostrano furgoni Rivian in fiamme all’esterno di una struttura Amazon a Houston.   Sebbene il video non mostri come è iniziato l’incendio, mostra i pompieri al lavoro per domare le fiamme. È importante notare che il filmato rivela anche che ogni furgone era parcheggiato presso una stazione di ricarica.  

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Secondo Quartz, non è la prima volta che i furgoni Rivian prendono fuoco in una sede Amazon.   Lo scorso agosto, un incidente simile si è verificato a Salt Lake City, dove i furgoni hanno preso fuoco nel parcheggio di un centro di distribuzione. I post nei subreddit dei lavoratori di Amazon hanno rivelato che gli autisti hanno segnalato problemi con i furgoni che si ricaricavano a causa del calore elevato e hanno sospettato che i caricabatterie fossero la causa dell’incendio.   In passato i caricabatterie sono stati ritenuti responsabili di incendi, a causa di un cablaggio domestico non idoneo o di un raffreddamento inadeguato.   Ciò che non è ancora chiaro è se i caricabatterie installati professionalmente, come queste unità Rivian, siano soggetti agli stessi problemi dei caricabatterie di Livello 2 collegati alle prese delle asciugatrici domestiche.   Secondo QZ, il passaggio ai veicoli elettrici continua a valere la pena: forse sarebbe meglio ricaricare la propria auto all’ombra finché questi problemi non saranno risolti.

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La Danimarca tassa i peti bovini

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La Danimarca imporrà agli agricoltori una nuova tassa sui gas serra prodotti dal loro bestiame, ha annunciato il ministro delle Finanze Jeppe Bruus. Secondo il ministro, il pedaggio sulle emissioni di mucche, suini e pecore verrà implementato a partire dal 2030.

 

Si prevede che la nuova tassa contribuirà notevolmente all’obiettivo del paese di ridurre le emissioni del 70% rispetto ai livelli del 1990 entro la fine del decennio, oltre a raggiungere in definitiva la neutralità del carbonio, ha spiegato Bruus.

 

«Faremo un grande passo avanti verso la neutralità climatica nel 2045», ha affermato il ministro, elogiando la misura come un modo per consentire alla Danimarca di diventare «il primo Paese al mondo a introdurre una vera tassa sulla CO2 in agricoltura».

 

Copenhagen, insomma, rivendica come primato l’ingresso del fisco nelle scoregge vaccine.

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Gli allevatori saranno tassati 300 corone (40,2 euro) per tonnellata di anidride carbonica equivalente prodotta dai loro animali. Tuttavia, inizialmente sarà soggetto a una detrazione dell’imposta sul reddito del 60%.

 

Si prevede che la misura colpirà maggiormente i produttori di latte, dato che una mucca danese media produce circa sei tonnellate di CO2 equivalente ogni anno, mentre suini e pecore emettono significativamente meno gas.

 

La Danimarca è un importante produttore di bestiame, con la sua attuale popolazione bovina di quasi 1,5 milioni, secondo Statistic Denmark. Ciò frutterebbe più di 374 milioni di euro all’anno in tasse sul carbonio.

 

La nuova tassa è destinata ad aumentare ancora di più, raggiungendo l’obiettivo di 750 corone per tonnellata entro il 2035.

 

Secondo le stime del Programma ambientale delle Nazioni Unite, il bestiame rappresenta circa il 32% delle emissioni di metano causate dalle attività umane.

 

La questione dei peti in ambito ambientale è più seria di quel che si pensa: il cambiamento climatico, ritengono gli appassionati scienziati da decenni, è dovuto in ampia parte dagli allevamenti bovini, o meglio dai gas emessi impunemente dai ruminanti, che vanno a danneggiare l’atmosfera rendendo la Terra più esposta ai raggi solari e quindi più calda.

 

La cosa è presa sul serio da nazioni in tutto il mondo il governo irlandese vuole sterminare, per questo motivo, 200.000 mucche.

 

Di contro, ecco l’immancabile Bill Gates, che investe in milioni per mascherine elettroniche per bovidi. Nel mentre, avanzano implacabili progetti per mettere alle vacche pannoloni anti-climate change.

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Le ventosità vaccine, insomma, sono al centro della catastrofe climatica che potrebbe spazzare via l’uomo: lo credono davvero, anzi, ne impongono la fede alla scuola dell’obbligo. La tragedia globale delle mucche scoreggione è un vero dogma del mondo moderno, senza il quale l’intera impalcatura della società a venire – controllata sotto la minaccia del disastro climatico di cui siamo colpevoli, come un «peccato originale» della nuova religione di Gaia – casca in mille pezzi.

 

E non si tratta solo di parole, ma di questioni materiali, alimentari: tutta la storia della carne sintetica parte da lì: dal pericolo apocalittico dei flati bovini, che le bestie emettono mentre pascolano felici forse inconsapevoli di quanto ciò possa cagionare la distruzione del pianeta.

 

Non è priva di rilevanza, a questo punto, la notizia secondo il un premier europeo che più di ogni altro aveva operato per distruggere gli allevamenti del suo Paese, l’olandese Mark Rutte, sia stato ora messo al vertice della NATO.

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