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Epidemie

Chi è guarito dal COVID è automaticamente immune? La risposta è NO

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Non sono pochi coloro i quali ci vorrebbero far credere che parlare di pazienti guariti dal COVID-19 significhi automaticamente parlare di pazienti che non riprenderanno mai più il COVIDo che non potranno essere soggetti a recidive.

 

Questa considerazione, oltre che priva di alcun fondamento scientifico, risulta altresì insensata. Ad oggi non esistono, infatti, studi in grado di rivelare se chi è guarito da SARS-CoV-2 non possa riprenderlo, perché la conoscenza sul livello di anticorpi necessari — che è diverso dall’aver semplicemente sviluppato anticorpi — per essere protetti dal virus e sulla durata dell’immunità stessa è ancora molto scarsa. 

 

Chi è guarito dovrebbe essere potenzialmente protetto per un periodo, ma questo non può essere certo per tutti — non tutti, infatti, sviluppano anticorpi; non tutti ne sviluppano a sufficienza per essere considerati immuni. Questo perché il sistema immunitario è qualcosa di complesso e soggettivo — né tantomeno si possono conoscere con esattezza i tempi della durata di questa protezione.

Chi è guarito dovrebbe essere potenzialmente protetto per un periodo, ma questo non può essere certo per tutti — non tutti, infatti, sviluppano anticorpi; non tutti ne sviluppano a sufficienza per essere considerati immuni. Questo perché il sistema immunitario è qualcosa di complesso e soggettivo — né tantomeno si possono conoscere con esattezza i tempi della durata di questa protezione.

 

Ma andiamo con ordine. 

 

Cosa si intendere per «paziente guarito», di cui spesso si sente parlare, la maggior parte delle volte a sproposito?

 

Il 19 marzo scorso il Ministero della Salute ha pubblicato la definizione ufficiale espressa dal Comitato Tecnico Scientifico, e dalla quale si può prendere sicuramente spunto: 

 

«Il paziente guarito è colui il quale risolve i sintomi dell’infezione da Covid-19 e che risulta negativo in due test consecutivi, effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca di SARS-CoV-2»

 

Puntualizzato questo, va ribadito che essere guariti dal COVID non vuole affatto dire esserne automaticamente immuni per sempre. È una cosa che non si può affermare con sicurezza, checché alcune linee guida ne dicano.

Va ribadito che essere guariti dal COVID non vuole affatto dire esserne automaticamente immuni per sempre

 

Nei mesi scorsi non poche persone a cui è stato diagnosticato il virus e poi dichiarate guarite alla fine del periodo di quarantena con esito di doppio tampone negativo, sono nuovamente risultate positive nei giorni successivi: è successo particolarmente in Cina e in Giappone. 

 

In alcuni casi potrebbe sicuramente trattarsi di una ricaduta, certo, ma resta il fatto che i coronavirus «normali», cioè quelli portatori delle classiche influenze conosciute, non immunizzano chi si è ammalato e poi è guarito. Ecco perché al momento gli esperti sono propensi a credere che il fatto di essere guariti non sia sinonimo di immunità automatica. 

 

In Giappone, una donna di quarant’anni residente a Osaka risultò positiva mercoledì 26 febbraio dopo aver presentato mal di gola e dolori al petto. La volta precedente il suo tampone era risultato positivo il 29 gennaio, quindi circa un mese prima. Il 1 ° febbraio era stata dimessa dall’ospedale e il suo test si era negativizzato il 6 febbraio.

 

Nei mesi scorsi non poche persone a cui è stato diagnosticato il virus e poi dichiarate guarite alla fine del periodo di quarantena con esito di doppio tampone negativo, sono nuovamente risultate positive nei giorni successivi: è successo particolarmente in Cina e in Giappone 

«Per il caso della signora — spiegava in tempi non sospetti al Corriere Salute Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società Italiana di Malattie Infettive — possiamo parlare di ricaduta: sono passate poche settimane dal primo episodio, quindi la donna probabilmente aveva il virus ancora in corpo, in misura non sufficiente a risultare dal tampone e dopo qualche settimana la malattia si è ripresentata. Si tratta di una ricaduta: è un evento frequente in infezioni di questo tipo».

 

Una notizia simile venne dalla Cina: nel Guangdong un totale di 13 pazienti dimessi sono risultati di nuovo positivi senza mostrare nuovi sintomi. Altri casi di pazienti risultati positivi al virus dopo essere stati dimessi sarebbero stati trovati anche nella città cinesi di Chengdu e nella provincia di Hainan. 

 

Qui, i soggetti risultati nuovamente positivi  furono messi in quarantena. 

 

«Per quei pazienti che sono stati curati, c’è una probabilità di una ricaduta», aveva dichiarato già il 31 gennaio scorso Zhan Qingyuan, un medico del China-Japan Friendship Hospital che considera prematuro il poter parlare di immunità persistente, cioè la sicura impossibilità di episodi di malattia successivi al primo.

 

«Esistono prove del fatto che le persone possono contrarre nuovamente l’infezione con i quattro coronavirus e che non esiste un’immunità di lunga durata. Come i rinovirus: sviluppano una risposta anticorpale che in seguito diminuisce, quindi alla successiva esposizione, la protezione non c’è più. Le infezioni successive spesso producono malattie più lievi»

Resta il fatto che, in attesa di più tempo e soprattutto di più dati utili a far capire se i guariti saranno immuni dal virus, non si può far altro che basarsi sul comportamento degli altri coronavirus che ancora circolano tra di noi: è dimostrato che l’esposizione ai quattro coronavirus endemici già esistenti produce un’immunità che dura sicuramente più a lungo di quella contro l’influenza, ma non è un’immunità permanente. 

 

«Esistono prove del fatto che le persone possono contrarre nuovamente l’infezione con i quattro coronavirus e che non esiste un’immunità di lunga durata. Come i rinovirus: sviluppano una risposta anticorpale che in seguito diminuisce, quindi alla successiva esposizione, la protezione non c’è più. Le infezioni successive spesso producono malattie più lievi» — afferma Susan Kline, specialista in malattie infettive dell’Università del Minnesota. 

 

Possiamo essere certi del fatto che, in ogni caso, chiunque avesse una ricaduta o ricontraesse il virus, lo svilupperebbe in forma certamente più lieve e l’infezione si presenterebbe in forma meno aggressiva.

 

Possiamo essere certi del fatto che, in ogni caso, chiunque avesse una ricaduta o ricontraesse il virus, lo svilupperebbe in forma certamente più lieve e l’infezione si presenterebbe in forma meno aggressiva

Difficile però stabilire, anche in tal caso, se la contagiosità di chi risulta nuovamente positivo a SARS-CoV-2 dopo essere guarito e sviluppando nuovamente sintomi possa essere bassa oppure no.

 

Sappiamo che ci sono soggetti cosiddetti «superspreaders», cioè che disseminano tanto virus specie se sintomatici, e altre che invece ne diffondono poco, risultando meno infettivi. Impossibile risalire con facilità a questi soggetti, che se nuovamente positivi e sintomatici possono costituire un pericolo nella  diffusione del contagio in ambienti a rischio, come ospedali e/o RSA per anziani piuttosto che centri per disabili.  

 

Un documento pubblicato sul National Center for Biotechnology Information (NCBI), interessandosi di due particolari casi di riattivazione del virus in Corea del Sud, nella discussione finale invita alla prudenza qualora il rischio di riattivazione del virus potesse presentarsi in ambienti particolarmente a rischio:

 

«Questi casi  [di recidiva, ndr] sottolineano che è necessario prestare attenzione soprattutto nelle popolazioni di pazienti vulnerabili anche dopo che sembrano aver superato l’infezione»

«Questi casi  [di recidiva, ndr] sottolineano che è necessario prestare attenzione soprattutto nelle popolazioni di pazienti vulnerabili anche dopo che sembrano aver superato l’infezione»

 

Infatti, se un possibile rischio di riattivazione del virus o di ripositivizzazione sintomatica non deve in alcun modo spaventare un soggetto sano, lo stesso ragionamento non può valere per i soggetti a rischio e, soprattutto, per quei luoghi ove l’assembramento di pazienti fragili è inevitabile.

 

Prendere alla leggera o addirittura non prendere in considerazione questa pericolosa possibilità, non ancora esclusa in alcun modo, come già osservato, vuol dire non aver capito niente di tutto ciò che è passato e che non si è evitato.

 

Con la differenza, però, che questa volta non ci saranno più scusanti capaci di reggere il gioco degli incompetenti e dei negligenti che avrebbero dovuto prendersi cura di quella parte di popolazione debole ed indifesa.

 

Cristiano Lugli 

 

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Epidemie

Uomo muore di peste bubbonica: piaghe antiche stanno tornando?

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Funzionari dello Stato americano del Nuovo Messico hanno confermato che un cittadino è morto di peste. Si tratterebbe del primo caso di decesso da peste da diversi anni. Lo riporta la testata americano Epoch Times.

 

Il Dipartimento della Salute del Nuovo Messico, in una dichiarazione, ha affermato che un uomo nella contea di Lincoln «ha ceduto alla peste» L’uomo, che non è stato identificato, era stato ricoverato in ospedale prima della sua morte, hanno detto i funzionari.

 

Hanno inoltre notato che si tratta del primo caso umano di peste nel Nuovo Messico dal 2021 e anche della prima morte dal 2020, secondo la dichiarazione. Non sono stati forniti altri dettagli, compreso il modo in cui la malattia si è diffusa all’uomo.

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L’agenzia sta ora svolgendo attività di sensibilizzazione nella contea di Lincoln, mentre «nella comunità verrà condotta anche una valutazione ambientale per individuare i rischi in corso», continua la dichiarazione. «Questo tragico incidente serve a ricordare chiaramente la minaccia rappresentata da questa antica malattia e sottolinea la necessità di una maggiore consapevolezza della comunità e di misure proattive per prevenirne la diffusione», ha affermato l’agenzia.

 

La peste, conosciuta come morte nera o peste bubbonica, è una malattia batterica che può diffondersi attraverso il contatto con animali infetti come roditori, animali domestici o animali selvatici.

 

La dichiarazione del Dipartimento della Salute del Nuovo Mexico afferma che gli animali domestici come cani e gatti che vagano e cacciano possono riportare pulci infette nelle case e mettere a rischio i residenti.

 

I funzionari hanno avvertito le persone della zona di «evitare roditori e conigli malati o morti, i loro nidi e tane» e di «impedire agli animali domestici di vagare e cacciare».

 

«Parlate con il vostro veterinario dell’utilizzo di un prodotto appropriato per il controllo delle pulci sui vostri animali domestici poiché non tutti i prodotti sono sicuri per gatti, cani o bambini» e «fate esaminare prontamente gli animali malati da un veterinario», ha aggiunto.

 

«Consulta il tuo medico per qualsiasi malattia inspiegabile che comporti una febbre improvvisa e grave, continua la dichiarazione, aggiungendo che la gente del posto dovrebbe pulire le aree intorno alla loro casa che potrebbero ospitare roditori come cataste di legna, mucchi di spazzatura, vecchi veicoli e mucchi di cespugli.

 

La peste, diffusa dal batterio Yersinia pestis, ha causato la morte di circa centinaia di milioni di europei nei secoli XIV e XV in seguito alle invasioni mongole. In quella pandemia, i batteri si diffusero tramite le pulci sui ratti neri, che secondo gli storici non erano conosciuti dalla gente dell’epoca.

 

Si ritiene che anche altre epidemie di peste, come la peste di Giustiniano nel VI secolo, abbiano ucciso circa un quinto della popolazione dell’Impero bizantino, secondo documenti e resoconti storici. Nel 2013, i ricercatori hanno affermato che anche la peste di Giustiniano era stata causata dal batterio Yersinia pestis.

 

Casi recenti si sono verificati principalmente in Africa, Asia e America Latina. I paesi con frequenti casi di peste includono il Madagascar, la Repubblica Democratica del Congo e il Perù, afferma la clinica. Negli ultimi anni sono stati segnalati numerosi casi di peste anche nella Mongolia interna, in Cina.

 

I sintomi di un’infezione da peste bubbonica comprendono mal di testa, brividi, febbre e debolezza. I funzionari sanitari affermano che di solito può causare un doloroso gonfiore dei linfonodi nella zona dell’inguine, dell’ascella o del collo. Il gonfiore di solito si verifica entro circa due-otto giorni.

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La malattia può generalmente essere trattata con antibiotici, ma di solito è mortale se non trattata, dice il sito web della Mayo Clinic. «La peste è considerata una potenziale arma biologica. Il governo degli Stati Uniti ha piani e trattamenti in atto nel caso in cui la malattia venga utilizzata come arma», afferma anche il sito web.

 

Secondo i dati dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, l’ultima volta che sono stati segnalati decessi per peste negli Stati Uniti è stato nel 2020, quando sono morte due persone.

 

Come riportato da Renovatio 21, un altro caso di peste bubbonica si era avuto pochi giorni fa in Oregon.

 

Come riportato da Renovatio 21, altre malattie antiche si sono riaffacciate sulla scena mondiale. La lebbra, ad esempio, è riapparsa in USA, India, Gran Bretagna, con esperti che ipotizzano una possibile correlazione con la vaccinazione mRNA.

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Immagine: Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro (c. 1609-1610–c. 1675), Largo Mercatello durante la peste a Napoli (1656), Museo nazionale di San Martino, Napoli.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
 

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Epidemie

Cambiamento del comportamento sessuale post-pandemia: le malattia veneree aumentano nella UE

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L’Europa ha assistito a un aumento «preoccupante» del numero di casi di infezioni a trasmissione sessuale, ha avvertito Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia epidemiologica dell’UE.   Il rapporto epidemiologico annuale pubblicato giovedì dal l’ECDC ha rivelato i risultati per il 2022 per gli Stati membri dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia).   Secondo il documento, in tutta l’UE/SEE, i casi di infezioni batteriche come sifilide, gonorrea e clamidia hanno registrato un aumento «preoccupante» e «significativo» rispetto al 2021. I casi di gonorrea sono aumentati del 48%, i casi di sifilide del 34%, e casi di clamidia del 16%, afferma il documento. Il rapporto non ha fornito dati sulle malattie sessualmente trasmissibili virali come l’HIV e l’epatite.

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L’educazione alla salute sessuale, l’accesso ampliato ai servizi di test e trattamento, nonché la lotta allo stigma associato alle malattie sessualmente trasmissibili sono stati indicati come modi per affrontare la questione dal direttore dell’ECDC Andrea Ammon.   «Sfortunatamente, i numeri dipingono un quadro drammatico, che richiede la nostra attenzione e azione immediate», ha detto giovedì in una conferenza stampa.   «Questi numeri – per quanto grandi – molto probabilmente rappresentano solo la punta dell’iceberg, perché i dati di sorveglianza potrebbero sottostimare il vero peso della sifilide, della gonorrea e della clamidia a causa delle differenze nelle pratiche di test, nell’accesso ai servizi di salute sessuale e nelle pratiche di segnalazione nei vari paesi», ha aggiunto, riporta Euractiv.   Sebbene le infezioni trasmesse sessualmente come la clamidia, la gonorrea e la sifilide siano curabili, se non trattate possono comunque portare a gravi complicazioni tra cui dolore cronico e infertilità, osserva il rapporto.   Le malattie sessualmente trasmissibili sono in aumento da anni nell’UE/SEE, anche se questo fenomeno ha subito una battuta d’arresto durante la pandemia di COVID-19 del 2020-2021, quando i governi hanno imposto misure di isolamento sociale costringendo le persone a rimanere a casa ed evitare il contatto sociale.   Un aumento dei comportamenti sessuali più rischiosi, insieme a una migliore sorveglianza e all’aumento dei test domiciliari, sono stati indicati dall’ECDC come ragioni alla base di questo aumento sostenuto.

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Secondo gli ultimi dati, un aumento dei contagi tra i giovani eterosessuali, e in particolare tra le giovani donne, potrebbe essere attribuito a un cambiamento nel comportamento sessuale post-pandemia, ha affermato l’agenzia UE.   Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), prima della pandemia, nel 2019, il numero di casi di infezioni sessualmente trasmissibili batteriche ha raggiunto il massimo storico in Europa.   Come noto, a fine pandemia apparve sulla scena – annunciato da una bizzarra esercitazione simulativa organizzata dai soliti Gates più enti annessi – un’epidemia internazionale di vaiolo delle scimmie, che sembrava colpire per lo più gli uomini omosessuali, con picchi attorno ai gay pride di tutto il mondo.   In Italia il vaccino – approvato senza studi clinici – fu quindi offerto in precedenza a «persone gay, transgender, bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM) che rientrano nei seguenti criteri di rischio: storia recente (ultimi 3 mesi) con più partner sessuali; partecipazione a eventi di sesso di gruppo; partecipazione a incontri sessuali in locali/club/cruising/saune; recente infezione sessualmente trasmessa (almeno un episodio nell’ultimo anno); abitudine alla pratica di associare gli atti sessuali al consumo di droghe chimiche (Chemsex)» scriveva testualmente la circolare diramata dal ministero della Salute della Repubblica Italiana.   L’OMS – che aveva comunque raccomandato ai maschi gay di «limitare i partner sessuali» – dieci mesi fa aveva dichiarato finita l’emergenza, tuttavia l’ente epidemiologico americano CDC l’anno scorso aveva avvertito che il vaiolo delle scimmie sarebbe potuto tornare con i festival LGBT estivi.

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Epidemie

«Alaskapox»: una nuova epidemia colpisce il Nord America

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Funzionari sanitari dell’Alaska hanno documentato il primo caso mortale di virus Alaskapox (noto anche come «AKPV») in un signore anziano della penisola di Kenai, situata appena a sud della capitale dello Stato, Anchorage.

 

L’uomo è morto alla fine di gennaio, suscitando la preoccupazione tra i funzionari che la trasmissione del virus potesse essere più estesa di quanto si pensasse in precedenza.

 

Secondo il bollettino della Sezione di Epidemiologia dell’Alaska pubblicato la scorsa settimana, l’uomo immunocompromesso ha notato per la prima volta una tenera protuberanza rossa sotto l’ascella destra a metà settembre. Nelle settimane successive, si è consultato con i professionisti medici poiché la lesione è peggiorata, portando al ricovero in ospedale a novembre a causa di un’estesa infezione che ha inibito la mobilità del braccio.

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Il bollettino spiegava che la salute dell’uomo era migliorata alla fine dell’anno dopo il trattamento con farmaci per via endovenosa, ma che era morto improvvisamente alla fine di gennaio a causa di un’insufficienza renale.

 

«Finora sono state segnalate sette infezioni da AKPV alla Sezione di Epidemiologia dell’Alaska (SOE). Fino a dicembre 2023, tutte le infezioni segnalate si sono verificate in residenti dell’area di Fairbanks e riguardavano malattie autolimitanti costituite da eruzione cutanea localizzata e linfoadenopatia», si legge nel bollettino. notato.

 

«Le persone non dovrebbero essere necessariamente preoccupate ma più consapevoli», ha affermato Julia Rogers, epidemiologa statale e coautrice del bollettino. «Quindi speriamo di rendere i medici più consapevoli di cosa sia il virus dell’Alaskapox, in modo che possano identificare segni e sintomi».

 

Il bollettino include raccomandazioni: «i medici dovrebbero acquisire familiarità con le caratteristiche cliniche dell’Alaskapox e prendere in considerazione l’esecuzione di test per l’infezione da orthopoxvirus in pazienti con una malattia clinicamente compatibile».

 

Come riportato da Renovatio 21, funzionari sanitari dell’Oregon hanno confermato un caso di peste bubbonica, con un cittadino probabilmente infettato dal suo gatto domestico.

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Immagine di Beeblebrox via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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