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La società del ricatto, della censura e della schedatura di massa. Renovatio 21 intervista Marcello Foa

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Renovatio 21 ha incontrato in margine ad una conferenza ad Assisi Marcello Foa, giornalista che ha mosso i primi passi della sua carriera professionale ne Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Foa è una figura che da anni opera nel mainstream massmediatico, già presidente della Rai Dal 26 settembre 2018 al 16 luglio 2021, quando fu nominato dall’allora governo gialloverde, per concludere il suo mandato con il governo tecnico di Mario Draghi.

 

Dottor Foa, partirei dal presente. La trasmissione in onda su Rai Radio Uno Giù la maschera, che la vedeva nella veste di conduttore insieme ad altri suoi colleghi, ha subìto uno stop improvviso. Questa chiusura l’ha colta di sorpresa o in un certo qual modo se lo aspettava?

È molto semplice. C’è stato un cambio alla direzione di Rai Radio Uno, il nuovo direttore è entrato in funzione e in Rai, essendo stato presidente, so cosa significa. Bisogna affrontare l’assalto dei partiti, ed è sempre così quando ci sono delle nomine. Davo quasi per certa una riconferma della mia trasmissione, perché aveva molta visibilità, avevamo molto equilibrio nell’approcciare gli argomenti e con me c’erano giornalisti e intellettuali di diverso orientamento politico che garantivano un pluralismo: Peter Gomez, Alessandra Ghisleri, Giorgio Gandola e all’inizio anche Luca Ricolfi.

 

Il nuovo direttore Nicola Rao, che conosco da tempo, mi telefona e mi dice: «Ti chiamo tra quindici giorni e poi facciamo il punto della situazione». Sparito [ride]! Nel frattempo ho capito che tirava una brutta aria e ho cercato di capire e sensibilizzare la questione, ma ho incontrato un muro di gomma. Nessuna interlocuzione costruttiva, nessun tipo di spiegazione. Finché arrivo a fine agosto quando iniziano ad arrivare segnali molto netti che non ero in palinsesto. Un po’, a quel punto, lo avevo intuito. Mi aspettavo però che perlomeno avessero la cortesia di giustificare la decisione. A quel punto ho deciso di uscire pubblicamente, rompendo gli schemi dell’establishment romano, perché di solito uno non esce così, ma ho ritenuto giusto farlo. 

 

Il «protocollo Rai» non prevede questo tipo di comunicazione?

No, ma diciamo così: può entrare nella logica dello scambio o del ricatto [ride], parafrasando il mio ultimo libro… ma io questa logica la rifiuto e sono uscito con un video nei miei social dove non mi sono messo a inveire, ma ho usato toni pacati, ma molto oggettivo perché ho descritto quello che accadeva. Il messaggio che viene mandato all’opinione pubblica è sbagliato per il centrodestra. Vengono premiate le voci di partito, mentre le voci libere, che interpretano altre sensibilità e che di certo non erano strumentalizzabili né dall’opposizione, né dal governo, anziché essere valorizzate a testimonianza del buon servizio pubblico, vengono punite.

 

Purtroppo questa è la morale di questa storia e mi auguro che qualcuno faccia delle opportune riflessioni, anche se non so se accadrà [ride]. 

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Questa decisione di chiudere il suo programma appare quantomeno strana per un governo di centro destra dove è presente una forza politica come la Lega che all’epoca di quel governo giallo verde, da tutti etichettato come sovranista e di certo apparentemente voltato verso destra, la portò a essere nominato Presidente della Rai.

Le spiego come andò. Fu molto semplice. A quel tempo io lavoravo in Svizzera, avevo un mio blog su Ilgiornale.it, continuavo a svolgere il mio ruolo di opinionista ed ero stimatissimo sia da Gianroberto Casaleggio del Movimento Cinque Stelle, sia da Matteo Salvini. A un certo punto erano in un empasse per trovare un nome per il nuovo presidente. A quell’epoca il M5S e Lega — sembra un tempo lontanissimo – erano entrambi intenzionati e desiderosi di dare una ventata di vero cambiamento. In questa misteriosa alchimia individuano in me la persona giusta per dare un segnale forte di cambiamento, benché il ruolo di presidente non sia quello di amministratore delegato.

 

La Rai la gestisce l’amministratore delegato. Il presidente ha un ruolo di rappresentanza molto forte, ma ha pochi poteri reali. Fatto sta che mi chiamarono, non perché ero l’espressione di una logica di partito, ma perché rappresentavo un intellettuale che era fuori dall’establishment. Oggi tutto si ricollega e sembra un ritorno alle origini [ride].

 

Quando lei venne nominato presidente, qualcuno lamenta che poco dopo il suo insediamento il suo nome sparì dalle cronache.

Questo lo spiegai alla fine. Il mio nome scomparve per una ragione che all’epoca io stesso non avendo avuto nessuna esperienza istituzionale, avevo sottovalutato. Retrospettivamente avrei dovuto spiegarla subito, cosa che poi ho fatto a fine mandato: quando tu sei presidente della Rai, parli sempre a nome della Rai, qualunque cosa tu dica. Ricoprire quel ruolo, per me sono stati tre anni di sofferenza e mi rendevo conto che qualsiasi cosa dicessi – a parte che veniva strumentalizzata in maniera incredibile – veniva interpretata che era la Rai a parlare e non Marcello Foa. Ruolo delicatissimo. Periodo complesso perché sono partito con il governo gialloverde, poi Salvini rompe e diventa un governo giallorosso e quindi Conte diventa un presidente di opposizione, tra virgolette

 

Con i Cinquestelle devo dire che ho avuto sempre rapporti discreti, il PD mi vedeva come fumo negli occhi. Poi alla fine del mio mandato c’è stato addirittura il governo di Mario Draghi. In tutto questo c’è stata anche la crisi del COVID.

 

È stato difficile?

Difficilissimo. Ho cercato di trincerarmi dietro al mio ruolo istituzionale. Vedendo da quella prospettiva il mondo politico, la mia fiducia nei confronti della politica si era molto raffreddata. Ero proprio stufo di farmi strumentalizzare per qualsiasi cosa dicessi o facessi. Finisco i tre anni e non mi dimetto come certe forze politiche avrebbero voluto che io facessi. Mi hanno fatto delle pressioni inimmaginabili. Alla fine ho spiegato il tutto, molti hanno capito, mentre alcuni ancora mi scrivono rimproverandomi che io non sono stato in grado di cambiare la Rai, ma di fatto non ne avevo il potere. Quello che è accaduto adesso dimostra che c’era una coerenza nel mio discorso. 

 

All’epoca del governo gialloverde i grillini si sono presentati come una forza antisistema, ma in un batter di ciglia sono diventati una forza funzionale al sistema.

C’è stata una metamorfosi, ma non mi riguarda. Dovrebbe chiederlo a Conte e a i suoi. 

 

Nel suo libro Gli stregoni della notizia atto II spiega bene il ruolo della comunicazione politica e dello spin doctor. Mi sovviene il caso di Rocco Casalino con Conte durante il COVID, che dirigeva le domande dei giornalisti per il presidente. Se dovesse scrivere l’atto III, come la descriverebbe nel suo libro?

Casalino ha avuto un ruolo molto importante e molto deciso e ha dimostrato quello che ho spiegato nel libro, ovvero che gli spin doctor hanno un ruolo decisivo nel rapporto con la stampa e anche nell’orientarla. Lui, pur non essendo un giornalista, da quel punto di vista ha fatto il suo dovere [ride]. Poi possiamo discuterne se oggi sia giusto comunicare in quel modo o no. Io dico di no, nel senso che, sempre se sia possibile ristabilire un senso di fiducia tra la politica e l’opinione pubblica, questo rapporto va ricostruito su basi di autenticità e non di orientamento.

 

Mi permetta un’osservazione: finché Conte era l’espressione del governo gialloverde era il nemico della stampa. Facevano le pulci al suo curriculum, sulla sua vita privata, eccetera. Quando è diventato presidente del governo giallorosso, quindi di una forza di establishment, graditissima al Quirinale tra le altre cose, ecco che di Conte, almeno nella grande stampa, non si è letto più un articolo critico.

 

A riprova del fatto che la stampa non è oggettiva, cioè la stampa è diventata sempre di più, a parte qualche lodevole eccezione, uno strumento di lotta politica o comunque di accompagnamento di una narrazione ufficiale.

 

In era pandemica la comunicazione e l’informazione, hanno prese delle «strettoie» impensabili fino a poco tempo prima. È stato un momento molto particolare.

È stato un momento terribile. Peraltro come sta emergendo adesso, le decisioni che furono prese – lo vediamo dalla desecretazione delle riunioni del CTS [Comitato Tecnico Scientifico, ndr] – i medici e gli scienziati sono stati del tutto superati dalla politica. Si sono uniformati a decisioni politiche prese da Speranza [ex ministro della salute, ndr] che non ha alcuna competenza medica. Gravissimo. La stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti o peggio, perché sappiamo che tra l’amministrazione Biden e Fauci c’è stata una vera e propria operazione di manipolazione dell’opinione pubblica.

 

Oltre a questo c’è stata una violazione sostanziale dei nostri diritti costituzionali. È stata una pagina molto, molto buia. Come già spiegavo nei miei saggi precedenti, oggi si tende a non aprire una vera riflessione, a parte qualche giornale. C’è un meccanismo psicologico ben noto anche agli spin doctor per cui quando tu commetti un grave errore e sei indotto a commetterlo dalla pressione delle istituzioni, è molto difficile che a livello collettivo ci sia una presa di coscienza e una rabbia che si instaura, perché uno tendenzialmente non vuole ammettere che sia stato ingannato in maniera così evidente.

 

Per cui la tendenza è quella di dire: «Si, ma va beh, ma c’era l’emergenza…». Con il passare degli anni la verità verrà fuori, ma quando verrà fuori tra dieci o quindici anni, non avrà più la stessa spinta emotiva. Poi scommetto che ci saranno i giornalisti ai convegni che diranno: «è vero che durante il covid noi siamo stati troppo asserviti… Ma questo non accadrà più!». Possiamo essere certi che al prossimo giro capiterà di nuovo. 

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Troppo spesso osserviamo il «ring» dei talk show più seguiti che legittima di fatto gli ospiti a esperti del tal argomento di attualità, lasciando però fuori le centinaia di altri esperti che non la pensano come loro e che potrebbero alimentare un sano dibattito. Inoltre sono sempre gli stessi personaggi che passano da un salotto televisivo ad un altro a pontificare. È un problema per la pluralità di informazione. 

È un classico. Il talk show equilibrato è un’altra cosa e l’ho dimostrato con Giù la maschera. Il talk show televisivo ha preso un’altra piega ed è quella che il moderatore è un finto equidistante, mentre in realtà ha la sua agenda, le sue convinzioni che lascia trapelare, perché il programma è impostato per avere un certo tipo di approccio ideologico e dunque attirare un certo tipo di pubblico, che lo segue in quanto sanno di trovare ciò che vogliono e desiderano.

 

Tendenzialmente la stampa è di sinistra e la maggior parte dei talk show sono di sinistra. Lo schema è quello classico: tu hai bisogno di qualcuno che faccia da contraltare per avere un dibattito, però non c’è equità nella ripartizione dei ruoli. Di solito hai quattro da una parte e uno dall’altra. Quattro contro uno di solito è difficile difendersi. Sono cose che le vediamo ogni giorno ed è anche una delle ragioni perché i talk show tendono un po’ a stufare il pubblico. 

 

Sul lungo il pubblico, o una parte di esso, potrebbe anche intuire che vi è uno squilibrio nel dibattito e di conseguenza non seguire più quel programma. 

Più che altro, secondo me, c’è una disaffezione molto forte tra il pubblico, i media e la politica, per cui questo approccio così strumentale, così prevedibile, interessa meno. 

 

Lei ha anche scritto che i nuovi guardiani dell’informazione sono i social network. Abbiamo avuto la prova provata di ciò in epoca Covid quando hanno dettato una linea di pensiero unidirezionale. Le voci in dissonanza venivano bannate.

C’è stato un cambiamento di paradigma – e la cosa è passato un po’ sottotraccia, perché non ho letto grandi analisi su questo – ma abbiamo assistito a una operazione vergognosa. Oggi, per certi versi, tutti criticano Trump per i suoi modi, però Biden, o meglio chi e per conto di, magari usurpando Biden, ha applicato una censura molto invasiva e non dichiarata sui social media, quindi doppiamente insidiosa. Oggi lo sappiamo e abbiamo visto che Zuckerberg è uscito pubblicamente ammettendo ciò, come Elon Musk quando ha acquisito X.

 

È gravissimo che in democrazia FBI, CIA, Dipartimento del governo americano andassero a convocare i responsabili dei vari social media dicendogli di cancellare certe opinioni, addirittura indicando le personalità da bannare direttamente o facendo lo shadow banning. Tutto questo è stato un vero e proprio attentato ai valori democratici e quelli che dovevano essere i valori imprescindibili della costituzione americana. Il fatto che su questo tema ci sia stato silenzio, a parte poche eccezioni, è gravissimo. Noi viviamo in un mondo virtuale in cui tutti parlano di democrazia, di valori liberaldemocratici e quant’altro, ma poi noi stessi, come occidente, li abbiamo violati questi valori.

 

Oggi i nostri dati più sensibili siamo noi stessi, che tramite le piattaforme social, li affidiamo a coloro che poi ci sorvegliano e ci controllano. Di fatto è il contrario di quello che effettuavano le agenzie di intelligence, come la Stasi ad esempio, nei decenni passati, che cercavano in ogni modo di entrare nella quotidianità dei cittadini per spiarli. Il famoso film Le vite degli altri è esplicativo. La massa pare sia inconsapevole di ciò.

Esatto. Da una parte c’è l’ego, che solleticandolo metti la foto con quel tizio, nel posto tal dei tali, le foto della famiglia, dei viaggi e via dicendo. Ma l’altra cosa che pochi sanno che in realtà, nonostante Snowden abbia rivelato la vicenda della sorveglianza di massa elettronica una decina di anni fa, suscitò un gran clamore, ma non è che poi, forti di quell’esperienza, siamo stati più tutelati.

 

Oggi ci sono le cosiddette back door – ne parlo nel mio libro La società del ricatto – che sono delle porticine di servizio che vengono usate dai servizi di intelligence o chi per loro, per leggere i nostri dati. Le cito una frase dell’ex capo dei servizi segreti svizzeri contenuta in un libro: «Fate attenzione quando voi mandate una mail, quella mail passa – simbolicamente – per Londra e Washington dove viene copiata e archiviata prima che arrivi a destinazione». Di fatto noi siamo scrutinati, archiviati, profilati. Tornando al film Le vite degli altri, praticamente con questo ecosistema digitale, così tanto esaltato ed elogiato, in realtà si sta realizzando il sogno dei servizi di sicurezza di tutti i regimi, ovvero la schedatura di massa.

 

I social network sono anche divulgatori di notizie estremamente sintetiche, si parla per slogan cosicché la gente legge un titolo per conoscere quel tal avvenimento senza un minimo di lettura dei fatti, tantomeno di approfondimento. Recentemente negli Stati Uniti stiamo osservando che molti podcaster stanno raccogliendo numeri di pubblico molto consistenti. È come se una fetta di popolazione nutrisse una sana curiosità di conoscenza dei fatti più strutturata e approfondita. Questo cambiamento lo si intravede anche in Italia secondo lei?

In Italia ci sono le potenzialità perché questo accada. In Italia c’è stata una frammentazione molto più marcata e ci sono siti che hanno avuto e stanno avendo buoni risultati, nonostante manchi il Tucker Carlson o il Joe Rogan della situazione. Io percepisco nettamente, e la mia esperienza me lo ha dimostrato, che c’è una parte importante del pubblico che non va più a votare, non compra più i giornali, guarda sempre meno la televisione e si interroga su ciò che sta accadendo in giro per il mondo e non ottiene più risposte concrete da parte dei media ufficiali. Per cui il fatto che emergano realtà autorevoli e credibili, che poi alcune scadono nel complottismo, che non significa che i complotti non esistano. Esistono e come, la storia è fatta di complotti, però non puoi vedere sempre tutto solo attraverso questo filtro sennò diventi maniacale. La necessità di un approccio davvero credibile, di gente che si interroga, è sempre più necessaria e secondo me sempre più ricercato.

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Ciò mi fa ben sperare per il futuro.

Ma sì.

 

La società del ricatto è il titolo del suo ultimo libro, che mi pare sia un unicum su questo tema. Come le è venuta l’idea di scrivere di questa argomentazione? 

Credo sia il primo saggio in assoluto che parla di questo problema. Mi sono reso conto, osservando la politica, osservando le relazioni internazionali, ma anche frequentemente parlando con amici, editori, manager, professionisti, osservando certe dinamiche della nostra società, che il ricorrere al ricatto è così diffuso che è diventato quasi un malcostume. Ho cominciato a riflettere su queste tematiche: «perché questo accade, c’è un filo comune?». La risposta è sì, c’è un filo comune. In questo libro si arriva fino alle relazioni personali e di come il ricatto emotivo è uno delle ragioni principali per cui le persone vanno in crisi e per cui così in tanti vanno dallo psicologo. Provo a lanciare un sasso nello stagno per dire: «attenzione, sotto questo fenomeno c’è una crisi valoriale molto forte e se vogliono, stiamo dando ragione a Machiavelli quando diceva il “fine giustifica i mezzi”».

 

Io invece trovo che alla fine non dobbiamo mai trascendere dai nostri fini che devono essere quelli valoriali più nobili, sapendo che ci sarà sempre un’imperfezione. Questo deve essere un anelito molto forte. La diffusione del ricatto come mezzo per raggiungere i propri scopi, in politica è devastante. In politica internazionale è stato obliquo e silenzioso per trent’anni e poi è diventato esplicito con Trump. Non può essere accettato passivamente.

 

Un ricatto politico importante fu quello all’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel 2011.

Terrificante. 

 

In quel periodo oltretutto Berlusconi si portava appresso una costruzione di odio contro la sua figura che nell’opinione pubblica ha giocato a favore di quel ricatto politico che subì. Silvio Berlusconi è stato il primo grande politico a subire ricatti sul piano personale. Prima di lui si cercava di screditare l’avversario più sui fatti e meno su ciò che era la vita privata.

Abbiamo due situazioni diverse. Una è l’uso della privacy per fare lotta politica e questo è molto diffuso e sistematico. Molti personaggi della vecchia classe politica avevano delle amanti e si sapeva, ma nessuno le usava come elemento per screditare la propria moralità. Secondo me era meglio così. Berlusconi, dal punto di vista dell’immagine, è caduto sul «bunga bunga». Però quello che è successo nel 2011 è molto più grave, perché lì c’è stata una manovra di establishment condotta dall’Unione europea con una lettera, oramai famosa, firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il presidente della BCE uscente e quello entrante. Questo tanto per sottolineare quanto sia patriota il signor Mario Draghi. 

 

Fu un fatto abbastanza grave.

Molto grave, con la complicità di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Lì vennero esercitate delle pressioni molto forti, palesemente ricattatorie, il cui fine era quello di estromettere Berlusconi dalla politica. Cosa che poi è avvenuta. Fu costretto a cedere.

 

Lo spread fu il grimaldello che fece cadere il governo Berlusconi.

Fu un’operazione vergognosa. Purtroppo oggi la politica si esercita molto attraverso questa forma di ricatto.

 

Sbaglio o una volta lei disse, sempre in quel frangente, che Berlusconi fu ricattato perché in una riunione di capi di Stato europei disse di volere far uscire l’Italia dall’Euro?

Questa fu una testimonianza di due giornalisti francesi che scrissero un libro bellissimo anni fa, descrivendo che cosa accadeva davvero durante i consigli europei. E Berlusconi era l’unico che, col fatto che le decisioni erano già tutte prese, ogni delegazione poteva dire qualcosa per pochi minuti, e Berlusconi non ci stava a questa situazione. Vediamo che poi fu fatto fuori.

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Lei parla anche di una perdita di valori che di fatto poi va poi a incrementare questa società del ricatto. Viviamo in una società che esalta la liberà scelta di ognuno di noi, ma osservandoci macro dimensionalmente risultiamo tutti omologati in molti aspetti della vita e financo nell’informazione. Mi consenta, ma vedo anche una scristianizzazione sempre maggiore, mentre la cristianità, al contrario, dovrebbe essere una tradizione quantomeno da tenerla più in considerazione.

Assolutamente sì! Noi siamo in una società sempre più edonistica in cui l’interesse personale è quello che prevale. Si perde il senso dell’interesse collettivo in cui si proietta l’immagine in cui si è felici se uno possiede solo beni materiali e se hai successo. Questo ha fatto sì che la coltivazione di valori religiosi, culturali e di tradizione venissero sempre più messi sotto il tacco e il risultato è quello di una società dove si percepisce una disperazione esistenziale molto marcata. E fondamentalmente tutto questo avviene e si materializza anche sotto la spinta di ricatti sociali. C’è sempre questo concetto che ritorna, anche solo nella gestione delle nostre vicende personali, economiche e nel mondo del lavoro. Qualsiasi cosa tu faccia, hai sempre paura di perdere qualcosa e di finire ai margini. Per cui quando questo diventa diffuso, il risultato è l’omologazione e la pavidità, pensare al tuo particolare e fregandotene della collettività. 

 

Il ricatto lo abbiamo visto e vissuto in era pandemica, dove molta gente è stata costretta a delle scelte obbligate. 

Se volevi conservare il posto di lavoro dovevi vaccinarti. Ciò è stato di una violenza morale incredibile.

 

Oggi sembra che questa cosa passi quasi in cavalleria, a parte qualche voce che tiene vivo questo dibattitto.

La stampa non ne parla, la politica, a parte qualche medico meritevole, va avanti, sul resto cala il silenzio. Fortunatamente negli Stati Uniti ora c’è Kennedy che sta facendo un lavoro enorme facendo uscire informazioni importanti. Come vede però, qui da noi arriva un eco molto affievolito. 

 

C’è una frase nel suo libro La società del ricatto, che le cito: «Solo una visione dall’alto permette di cogliere connessioni che da vicino, quando si è troppo immersi in un contesto, risulta impossibile notare». Credo sia un concetto che si riverbera anche nella cultura; più riusciamo a spaziare nelle nostre conoscenze, più avremo un quadro più ampio e uno spirito critico maggiore. Oggi nella società in cui viviamo c’è una scolarizzazione che determina se una persona è brava o meno, e dove si tende molto di più a specializzarsi. Forse, così facendo, mi pare manchi quella visione che possa portarci a un sano spirito critico. Molta gente rimane troppo spesso impassibile al ragionamento di fronte a importanti fatti di cronaca. 

Da un lato viviamo l’era della specializzazione, il che si perde una visione dall’alto. Vedi la medicina per esempio: un bravo medico è quello che se tu hai un problema a un ginocchio, tanto per fare un esempio, può essere lo specchio di qualcosa di più profondo. I buoni medici son quelli che vedono queste connessioni. La nostra società è questa.

 

D’altro canto, riguardo appunto il COVID, quando usi, attraverso la propaganda, l’arma della paura, che è letteralmente un’arma, puoi ottenere qualsiasi cosa anche dalle persone più intelligenti. Li spaventi dicendogli che c’è un virus e che se non ti vaccini può portarti alla morte, alimentando il tutto con le immagini di persone che muoiono.

 

Lì non è questione di intelligenza o meno: se tu agiti la paura attivi dei meccanismi istintivi e primordiali nell’uomo, per cui anche persone che nella normalità sono brillanti e intelligenti, possono diventare le più appiattite e terrorizzate nel recepire la propaganda, senza rendersi conto, senza nemmeno chiedersi se quella propaganda, se quel che loro credono è frutto di una analisi corretta o se è frutto di una manipolazione. Da qui il ruolo d’importanza della stampa. La stampa dovrebbe essere quella che tira la campanella e dice «Attenzione!» mentre invece nel novanta percento dei casi accompagna la narrativa. 

 

Come vede il giornalismo oggi e quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti più significativi negli ultimi decenni?

Il giornalismo si è appiattito sul potere, perché economicamente i giornali e i media hanno difficoltà a mantenersi, per cui se hai un grosso sponsor o un grosso editore, è lui che «suona la musica». Oppure, altra verità di cui non si parla abbastanza, se tu ricevi i fondi pubblici da un governo, dal USAID, tanto per citarne un cosiddetto ente di aiuto per lo sviluppo, o da mecenati che agiscono per conto terzi o ultramiliardari che usano fondazioni, tu suonerai quella musica.

 

Per cui oggi il giornalismo ufficiale ha questo dilemma: una redazione costa un sacco di soldi e se non hai uno che paga, è finita. È veramente un periodo difficile per la stampa. D’altro canto c’è sempre più bisogno di qualcuno che dica o cerchi la verità. Su questo sentimento si dimostra che nella nostra società c’è una parte importante che non si arrende e che si interroga, che cerca una rappresentanza non politica, ma proprio culturale ed editoriale. È un periodo in rapidissima evoluzione. 

 

Lei insegna da anni all’università. C’è vera libertà d’insegnamento negli atenei italiani?

In teoria sì, ma di fatto si verificano i meccanismi che descrivo ne La società del ricatto, cioè ti adegui alle logiche, agli interessi dominanti del tuo settore. Un professore che vuol far carriera, se il mondo accademico spinge verso certi valori più progressisti, il woke, la relativizzazione e la demonizzazione di certe idee, sarà spinto ad adeguarsi. In più, quel che trova conferma in quello che scrissi ne Il sistema (in)visibile, l’università negli Stati Uniti è finanziata in buona parte – in Europa è statale ed è meno marcato questo fatto – da finanziatori che mettono i soldi, per cui son persone che possono indicarti una cattedra, sponsorizzano programmi di ricerca e se uno dona cinquanta milioni di dollari, il rettore dell’università gli stende il tappeto rosso e naturalmente sarà molto sensibile ai suoi desiderata. Ecco perché le università sono diventate degli strumenti molto importanti di formazione di giovani élite e di lavaggio del cervello costante.

 

Negli Stati Uniti c’è stata una recente polemica che ha visto il presidente Trump scontrarsi con i principali atenei dello stato.

Ha avuto ragione Trump. Sappiamo che il governo americano ha finanziato lautamente molte università. A me fa sorridere quando la gente elogia l’America come la terra delle opportunità, della libera imprenditoria e quant’altro. C’è uno stato che dietro le quinte sponsorizza e sostiene anche le università. E Trump a un certo punto ha detto: «Se voi fate dei programmi a cui io non credo, questo governo non vi sostiene più». 

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Prima di volgere alla conclusione dell’intervista, vorrei rivolgere un’altra domanda. C’è un tremendo conflitto in corso in Medioriente. Lei che idea si è fatto? 

Io sono molto critico nei confronti di Israele.

 

Le chiedo scusa, non vorrei sbagliarmi, una parte della sua famiglia ha origini ebraiche, giusto?

Foa è un cognome di tradizione ebraica, ma io sono cattolico. Tornando al conflitto e premesso che io non ho alcuna simpatia per Hamas, il cui cinismo in questi giorni è allucinante. Trattenendo gli ostaggi stanno esponendo scientemente il popolo palestinese a un massacro. Però chi sta facendo questo massacro sono gli israeliani. Di fatto Netanyahu sta applicando i piani della Grande Israele. Netanyahu è figlio di un estremista e fanatico sionista, il cui obiettivo era quello di creare una grande Israele che ha sempre negato il riconoscimento dei palestinesi come popolo. Per lui era una popolazione, è diverso.

 

Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi e il prezzo non lo paga tanto Hamas, ma le decine di migliaia di persone uccise, tra cui molti bambini e molte donne, persone che sono in coda per il cibo e vengono bombardate. Alcuni medici americani che sono andati laggiù all’inizio della crisi, hanno fatto le autopsie e visto i cadaveri dei bambini; molti di questi c’avevano dei proiettili in testa. Vuol dire che dei cecchini gli hanno sparato. Ad uno può anche capitare, magari colpito disgraziatamente da una granata e muore, ma se molti hanno dei proiettili in testa, vuol dire che c’è qualcuno gli ha sparato scientemente a questi bambini. Medici che vengono uccisi, ospedali bombardati, giornalisti uccisi.

 

Il fatto che Israele decide, da sempre, quanto cibo e quanta acqua deve entrare a Gaza, e lo decide in maniera atroce adesso. Tutto questo non è moralmente accettabile da parte di uno stato che alle sue fondamenta voleva anche essere una ragione di riscatto per gli orrori subiti durante l’olocausto. Ciò a cui noi stiamo assistendo è un orrore inaccettabile e non ho dubbi da questo punto di vista, ma è anche un tradimento di quelli che dovevano essere i valori dello stato ebraico. Come dicevo prima, Hamas è l’integralismo islamico peggiore e Israele è governata dalle forze più estreme del suo schieramento politico e quel che sta facendo, a mio giudizio, è inaccettabile.

 

A un certo punto ho notato che c’è stata, a distanza di molti mesi dall’inizio delle ostilità israelo-palestinesi, nei media mainstream un’attenzione maggiore per Gaza. Vediamo tanti sedicenti movimenti politici di sinistra o di ONG schierarsi, anche giustamente se vogliamo, per la Palestina. Come la spiega questa questione d’interesse improvviso?

Glielo dico in maniera molto semplice. La sinistra era filopalestinese fino agli anni Novanta, poi è diventata filoisraeliana. Guardi anche come hanno fatto con la Segre erigendola a icona. Quando il 7 ottobre di due anni fa è iniziato tutto, la sinistra era pro-Israele e un po’ tutti lo eravamo, visto l’attacco che ha subito. Quando sono iniziati a uscire i report su quello che stava succedendo nella striscia di Gaza, la sinistra è rimasta silente. Fino a quando con una reazione della società civile, il popolo della sinistra ha visto cosa stava accadendo e ha iniziato a indignarsi.

 

Il cambiamento c’è stato quando i partiti di opposizione hanno capito che su questo terreno il governo Meloni poteva essere messo in difficoltà ed ecco che improvvisamente i vari Conte e Schlein hanno iniziato a schierarsi dalla parte dei palestinesi. È stato un atteggiamento strumentale perché dovevano capitalizzare le difficoltà del governo Meloni e non potevano staccarsi troppo da quello che è il sentimento della loro base. Han detto: «Tanto stiamo all’opposizione, chi se ne frega».

 

Io sono convinto che se loro fossero al governo si comporterebbero esattamente come il governo Meloni. Ci vedo una grande dose di ipocrisia

 

Dottor Foa, la ringrazio.

Grazie a voi!

 

Francesco Rondolini

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Immagine di Medija centar Beograd via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri

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Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.   Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.   Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.

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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.   Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.   Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).   Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.   Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.   Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.   Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.   Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.   Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.   Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»   Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.

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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.   Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».   Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.   E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.   Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.   Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.   Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.   È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.   Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.   Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.

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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.   Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?   È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.   Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.   Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.   Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.   La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.

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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.   La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.   Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.   Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.  
  Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.   Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.   Roberto Dal Bosco

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Foto di Silvano Pupella; modificata
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Pensiero

Trump e la potenza del tacchino espiatorio

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Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.

 

L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.

 

Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.

 


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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.

 

Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.

 

Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.

 

Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».

 

«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».

 

La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.

 

«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».

 

Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».

 

Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.

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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.

 

Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.

 

 

Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.

 

Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.

 

Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.

 

Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.

 

Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.

 

Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.

 

Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.

 

Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.

 

Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.

 

Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.

 

Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.

 

Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.

 

Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.

 

Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.

 

Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.

 

Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.

 

Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.

 

Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.

 

Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.

 

Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.

 

Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.

 

Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.

 

Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Civiltà

Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica

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Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.   Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.   Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.

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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.   Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.   Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.   Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.   Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.   O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.   Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.   Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.   Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».   Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.

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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.   Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.   Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.   Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.   Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.   Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.   la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.   La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.   Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.   Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.   Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.   Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.

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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.   Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.   Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.   Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».   E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.   Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.   Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.   Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.

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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.   Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.   Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.   Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.   Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.   Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.   Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.   Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.   Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.   Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.   Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.   Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».   Patrizia Fermani

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