Scuola
Scuola 4.0, somiglianze tra un articolo di Susanna Tamaro sul Corriere e uno di Elisabetta Frezza su Renovatio 21

Renovatio 21 ha ricevuto diverse segnalazioni in merito ad un articolo riguardante la cosiddetta «Scuola 4.0» a firma della bestsellerista Susanna Tamaro, uscito il 20 dicembre 2022 sul Corriere della Sera intitolato «Perché dico no alla Scuola 4.0», messo a confronto con l’articolo di Elisabetta Frezza pubblicato su Renovatio 21 il 14 dicembre con il titolo «L’abisso del Piano Scuola 4.0».
Ambo gli articoli conterrebbero una disamina del documento governativo «Piano Scuola 4.0».
Le segnalazioni riguardo alla somiglianza dei due articoli si rincorrono da giorni su Telegram.
Alcuni lettori sono rimasti colpiti dall’ordine seguito nella esposizione degli argomenti.
L’articolo della Frezza era una densa e molto personale analisi del documento Piano Scuola 4.0. Quest’ultimo è un testo istituzionale di per sé lungo, caotico e farraginoso, un ammasso piuttosto informe di parole, di stilemi e di inglesismi, lungo 39 pagine.
Alcuni lettori ci hanno detto di trovare singolare la coincidenza che due diversi recensori rimettano i pezzi sparsi in un ordine affine.
Per esempio, ci segnalano, come prima cosa, la Tamaro osserva l’«abbondanza di termini inglesi, il pomposo fraseggio atto a mascherare la fumosità degli intenti», che corrisponde al concetto espresso dalla Frezza.
Nelle stesse prime righe, la Tamaro scrive di «un programma di riforma della scuola italiana che riguarda l’intero ciclo di studi, dagli asili all’università, secondo le linee di investimento previste dal Pnrr».
Nelle stesse prime righe, la Frezza precedentemente scriveva «processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana – dagli asili nido alle università – secondo le linee di investimento previste da PNRR».
Sorprendente come subito dopo sia riportata la classifica dei docenti in base alle loro competenze digitali (Novizio, Esploratore, Sperimentatore, Esperto, Leader, Pioniere). Una classifica che la Frezza aveva portata in cima alla sua trattazione, ma che nel documento è nascosta nelle ultime righe della pag. 10.
Con riguardo proprio a questa classifica, riposizionata anche dalla Tamaro in cima all’articolo, colpisce poi il richiamo preciso alle «Giovani Marmotte», citate ironicamente anche dalla Frezza, e non solo stavolta: scandagliando l’archivio di Renovatio 21, alcuni hanno trovato nel nostro sito l’articolo «Scuola, cosa ci aspetta a settembre», del 13 luglio 2020, dove si parlava della Costituzione come «la Costituzione è un simpatico manualetto delle Giovani Marmotte, buono per tutte le età e per tutte le stagioni». Ebbene, anche alla Tamaro viene la stessa identica idea dell’immaginario gruppo scout transnazionale con sede a Paperopoli. Vi è poi una analoga osservazione sulla dignità degli insegnanti sulla estraneità degli scolari alla realtà fisica che li circonda.
In un ulteriore esempio segnalatoci, la Tamaro scrive: «L’obiettivo del Next Generation Classrooms è quello di adattare centomila aule di primo e secondo grado alla progettazione di nuovi “ecosistemi di apprendimento” che dovranno avvalersi “delle pedagogie innovative quali apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification”».
Scriveva giorni prima la Frezza su Renovatio 21: «In concreto, l’obiettivo dell’azione “Next Generation Classrooms” è quello di trasformare, grazie ai finanziamenti del PNRR, almeno 100.000 aule delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado» continuando più sotto, citando anche qui il documento governativo, la pluralità delle pedagogie innovative (ad esempio, apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.)».
Ci dicono di aver notato anche la ricorrenza del concetto della forma rettangolare delle aule più volte richiamato, anche ironicamente, nell’articolo della Frezza. La Tamaro sul Corriere scrive:
«Il programma prevede di “ridisegnare i sistemi di apprendimento, al fine di rendere sostenibile il processo di transizione digitale” attraverso l’abolizione delle aule rettangolari in quanto, secondo «studi scientifici internazionali, nocive all’apprendimento. Con il rettangolo se ne vanno via anche i banchi e le sedie e le cattedre».
La Frezza sei giorni prima scriveva:
«Ecco quindi che – secondo le menti del Piano – è necessario ridisegnare gli “ecosistemi di apprendimento” con “arredi e tecnologie a un livello più avanzato rispetto a quelli oggi in uso, al fine di rendere sostenibile il processo di transizione digitale”» continuando più sotto «fondamentale, come abbiamo visto sopra, che esse non siano più uno spazio quadrato o rettangolare (quindi? rotondo? ovale? ottagonale?) e non abbiano più sedie, banchi e cattedra».
La parola «ridisegnare», di fatto, non ricorre nel documento, e nemmeno l’espressione «sistemi di apprendimento», al fine di rendere sostenibile il processo di transizione digitale» ci pare compaia nel testo originale.
È curiosa qui la posizione dell’inizio delle virgolette nel testo della Tamaro: come hanno notato alcuni, e potete vedere sopra, la parola «ridisegnare» è inclusa nelle virgolette, mentre nel testo della Frezza le virgolette partono dopo, con gli ecosistemi di apprendimento.
Ad ogni modo, la famosa scrittrice nel suo pezzo scrive diverse cose che la Frezza non scrive (e crediamo, non scriverebbe mai), per esempio sulle «scuole parentali», tra virgolette («ce n’è una persino nel piccolo paese in cui vivo»), sull’archistar «in un bel palazzo ottocentesco nel centro di una capitale europea», su quelli della Silicon Valley che «si premurano di mandare i loro figli rigorosamente a scuole steineriane o montessoriane».
Tuttavia, ricorrono nei due articoli parole e concetti del documento «Scuola 4.0» che devono essere saltate agli occhi sia della Frezza (autrice del saggio MalaScuola) che successivamente della Tamaro (autrice del romanzo Va dove ti porta il Cuore): «eduverso», «ecosistemi di apprendimento», sono parole chiave che ricorrono in ambo gli articoli, pubblicati a distanza di giorni l’uno dall’altro.
Elisabetta Frezza, sentita da Renovatio 21, ci dice di ritenere la cosa «curiosa»: «pare che abbiamo trovato gli stessi aghi nello stesso pagliaio».
Renovatio 21 ha scritto alla segreteria Corriere della Sera, dando informazione di queste segnalazioni e chiedendo un commento, che avremmo voluto accludere a queste righe. Non ci è pervenuta alcuna risposta.
Nel frattempo, la Tamaro è stata lungamente intervistata, con richiamo in prima pagina, da Francesco Borgonovo, vicedirettore del quotidiano La Verità, sul suo ruolo di voce contraria alla Scuola 4.0.
Il lettore può fare un raffronto sui due articoli di Frezza e Tamaro e farsi la sua idea rispetto a questa questione.
Si può trattare di somiglianze e di coincidenze, nessuno lo mette in dubbio. Ci limitiamo a scrivere qui le segnalazioni pervenuteci.
Renovatio 21 rimane aperta a segnalazioni e commenti.
Scuola
Del bruco e della farfalla. La scuola verso algoritmi mostruosi

Mentre i membri dell’equipaggio cercano di distrarre il pubblico con proclami ad effetto – tipo il gran ritorno del latino alle medie, delle poesie a memoria, dell’epica classica – l’astronave scuola viaggia a velocità supersonica verso il compimento della missione spaziale 4 del PNRR: «garantire un’istruzione sempre più adeguata alle necessità della società contemporanea» nelle forme e nei modi – si intende – stabiliti dal pilota automatico (al quale del latino, delle poesie e dell’epica importa il giusto).
I passeggeri, abituati ai voli acrobatici, stanno seduti buoni al loro posto a eseguire le consegne. Non guardano fuori dal finestrino.
Siccome però a bordo di quel missile impazzito ci sono anche i nostri figli, forse vale la pena di capire quale sia la rotta segnata. Vedremo come sia il caso di suonare l’allarme e di darsi da fare per salvare il salvabile.
Non torneremo qui a illustrare il lussureggiante corredo di trovate tossiche di varia natura – ma teleologicamente convergenti – che, diluite nel tempo, sono state rilasciate nel circuito scolastico, fino a diventarne componente essenziale, invadente e cancerosa. Sono oggetti ormai familiari, quasi suppellettili domestiche a cui abbiamo assuefatto la vista e tutti gli altri sensi: le prove INVALSI; l’orientamento, in entrata, in uscita e in tutte le salse; la didattica personalizzata e l’armamentario di certificazioni annesse (BES, DSA, ADHD, e PEI e PDP eccetera eccetera); il registro elettronico; il PCTO (ex alternanza scuola-lavoro); il CLIL (Content and Language Integrated Learning); e si potrebbe continuare a lungo a elencare pezzi di paccottiglia assortita.
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Di essi abbiamo detto abbastanza. Ma è necessario ribadire un dato di fatto che a quanto pare sfugge a troppi addetti ai lavori che guardano il dito anziché la luna: ovvero come tutti questi corpi estranei – a parte la loro intrinseca scemenza, a parte la comune funzione a catturare un’infinità di tempo e di risorse per sottrarli alla scuola vera, e stravolgerne il senso – concorrano a formare una capillare rete di sensori già stesa, e già perfettamente integrata nel sistema, sulla quale far aderire a ventosa l’ombrello informatico, oggi straordinariamente potenziato dalla valanga di denaro (del contribuente) gabellato come elargizione del PNRR.
Dunque, attraverso l’infrastruttura allestita in decenni di riforme, tutte le informazioni – di vita, di morte e di miracoli – relative a ciascuno studente, dall’asilo in poi, vengono carpite, risucchiate e immortalate nel buco nero delle banche dati, che ne fanno – soprattutto, ne faranno – uso libero e discrezionale, siano i rispettivi titolari volenti o nolenti. Quelli ai quali è stata fatta una testa così sulla tutela della privacy.
È in atto una mastodontica operazione di spionaggio e di condizionamento a cui nessuno deve sfuggire. E a cui quasi nessuno, incredibilmente, pare obiettare.
Segnala il sempre attento professor Marco Cosentino, dalla sua vedetta universitaria, l’enfasi che ultimamente giornaletti e giornaloni pongono sulla presunta piaga sociale del cosiddetto «abbandono scolastico» e sulle soluzioni escogitate dal manovratore – quello che crea il problema e allo stesso tempo, graziosamente, fornisce il rimedio che gli conviene. L’agitazione intorno al tema è tale da far sorgere il legittimo sospetto che si tratti di un ulteriore tormentone strumentale a portare acqua al solito mulino della sorveglianza e del credito sociale studentesco. E infatti.
Per la causa si scomoda nientemeno che Ferruccio de Bortoli, il quale sul Corriere incensa il Politecnico di Milano per il successo conseguito nel contenere l’abbandono (detto anche drop out in italiano letterario) «utilizzando modelli statistici e algoritmi di machine learning» volti a «capire in profondità le ragioni delle difficoltà, anche psicologiche, degli studenti, facendo in modo di poterli seguire ed eventualmente assisterli meglio» così da salvare «tante carriere professionali».
Il decantato programma di «learning analytics» sperimentato nell’ateneo milanese viene compiutamente descritto in una tesi di dottorato pubblicata per l’occasione nel medesimo ateneo, nelle cui conclusioni – lo riporta sempre il prof. Cosentino – si può leggere:
«In senso più ampio, il futuro ha il potenziale per accedere a dati che abbracciano l’intera vita di uno studente, dalla nascita al momento presente, in tempo reale. Ciò implicherebbe l’integrazione non solo delle prestazioni tradizionali e delle informazioni raccolte da tutte le istituzioni educative e gli ambienti precedenti con cui ogni studente si è impegnato, ma anche di informazioni sfaccettate relative alle circostanze personali di ogni studente, che comprendono aspetti quali quelli medici, familiari, economici, religiosi, sessuali, relazionali, emotivi, psicologici e altro ancora. Queste diverse fonti di dati potrebbero essere raccolte e sintetizzate per migliorare e adattare il processo di apprendimento a ogni singolo studente in vari momenti della sua vita con un livello di precisione senza precedenti».
Come sempre, il veleno viene (grossolanamente) camuffato da medicina. E infatti de Bortoli chiude il suo pezzo apologetico così: «Prevedere precocemente il rischio di lasciare l’università consente di avviare interventi mirati. C’è un salvagente in più. E non è poco».
No, non è affatto poco, siamo d’accordo con lui. È letteralmente mostruoso.
La tesi di dottorato da cui è tratto lo stralcio qui sopra ha il merito di rendere esplicito il disegno che, comunque, era perfettamente intelligibile a un osservatore non del tutto accecato dall’euforia tecnologica.
L’E-Portfolio, per esempio, una delle conquiste della scuola 4.0, non è altro che una scatola nera che ogni studente si trova compilata d’ufficio e d’ufficio appiccicata addosso, e che contiene le specifiche di tutta la sua carriera, scolastica e non.
Lì dentro finiscono voti, giudizi, esiti di prove a crocette e altre prestazioni estemporanee; finiscono «capolavori» stancamente assemblati perché un genio ha deciso che sennò non puoi fare l’esame; finiscono sentenze di orientamento pronunciate da uno che passa di là e che, siccome ha vinto alla lotteria il patentino di orientatore, ha il potere di decidere della vita altrui umiliando chi quella vita la vive (vogliamo parlare di quanti disastri fa l’orientamento? Di quanto disorienta? Di quante esistenze rovina? Forse bisognerebbe fare un bilancio interrogando l’«utenza» che lo ha subìto).
Ogni fase dell’esistenza viene scansionata e ogni file allegato al curricolo alimenta un avatar insindacabile e inemendabile che segue l’alunno come un’ombra incombente. Altro che salvagente.
Ora, a parte che è lampante la carica discriminatoria di queste calamite di dati che influenzeranno piccole e grandi scelte di vita sottraendole al motore umano dell’intuito e della spontaneità, e che verranno rimpinzate di tacche luccicanti da chi abbia i mezzi per collezionarle – a prescindere peraltro dal loro effettivo valore: viaggi, corsi, vacanze-studio, certificazioni linguistiche, esperienze globish. I figli di papà avranno portafogli gonfi e portfoli stellari. E quelli che studiano, leggono libri, giocano a pallone nella squadra di quartiere, aiutano il fratellino a fare i compiti, faranno punteggio? Sono forse, le loro, attività meno formative?
Ma questo, della sperequazione classista, è solo uno dei frutti avariati della malapianta, e nemmeno il più grave.
Ci si chiede come sia possibile non vedere il mostro che stiamo nutrendo con tanto zelo per consentirgli di mangiarci meglio, e di espropriare meglio la nostra libertà naturale e la sovranità intoccabile che appartiene a ogni essere umano e alla sua famiglia. Come può passare sotto silenzio un condizionamento così penetrante e una sorveglianza così totale, diacronica e ubiquitaria, sull’individuo e su tutto quello che fa durante il lungo, articolato, tortuoso, ma soprattutto imprevedibile processo di crescita? Perché (quasi) nessuno si indigna?
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Non c’è chi non sappia, per esperienza diretta o indiretta, quanto sia frequente che un somaro si riscatti, che un fannullone si trasfiguri, che un presunto incapace sbocci e fiorisca. Chiunque abbia avuto a che fare con un soggetto in crescita sa bene come cambi taglia d’improvviso, come basti un niente per accendere una scintilla, suscitare una passione e provocare una svolta. Come ogni caduta sia una medaglia al valore e possa aprire la strada a conquiste preziose. Come il tempo lungo della maturazione non sia mai lineare, mai prevedibile né replicabile, e in questo risieda la sua infinita ricchezza.
Sa bene che uno che da piccolo vuole fare il cow boy si ritrova pompiere e chi sogna di fare il pompiere diventa medico, elettricista, ingegnere. Le vocazioni si disvelano a contatto con gli imprevisti della vita, intercettando eventi incrociatori che nessun orientatore per caso può immaginare e nessun algoritmo potrà mai calcolare.
Ed è folle chi pretenda di interferire con questo flusso meraviglioso, di prevedere algoritmicamente e manipolare programmaticamente la sorte delle persone. È folle chi lo consente.
Ognuno ha diritto di fallire una stupida batteria di test INVALSI, ha diritto di essere bocciato, di scivolare e di rimettersi in piedi. Ha il diritto all’oblio dei propri errori di gioventù, perché sono proprio quegli errori che servono a svegliarlo e a farlo diventare grande. Ha diritto che il mondo non scruti nelle pieghe del suo passato che è rodaggio alla vita, perché il mestiere del giovane è proprio quello di imparare.
Ognuno ha diritto a essere bruco prima di diventare farfalla.
Qualcuno, invece, ha l’interesse a coltivare bruchi per sempre, nel suo bravo allevamento di bruchi, e a sistemarli in fila per due nella società huxleyana gerarchicamente ordinata in cui è lui l’unico ente accentratore abilitato a scrutare, programmare, decidere arbitrariamente cosa premiare e come premiarlo, cosa punire e come punirlo. E dice ai bruchi che tutto questo è per il loro bene. E la più parte dei bruchi ci crede, e consegna felice le chiavi della propria casa, della propria vita e del proprio cuore.
Che il padreterno ci dia la capacità di insegnare ai nostri figli il valore della libertà. A loro, dia la forza di non fare della comodità la propria stella polare e, a costo di dover pagare un prezzo per le proprie idee e per i propri sogni, dia la volontà tetragona di diventare farfalle, perché è questo l’unico modo per onorare la vita, l’unico per poter volare sopra i reticolati e vedere dall’alto che sono fatti di nulla.
Elisabetta Frezza
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Intelligenza Artificiale
AI e le nuove tecnologie a Singapore alimentano un analfabetismo di ritorno

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Gender
Educazione sessuale: la farsa e la vergogna

Questo non è un articolo, questo è uno sfogo. Perché non se ne può più.
Negli ultimi giorni impazza la polemica (una gigantomachia) sull’impiego del fondo da mezzo milione di euro che la legge di bilancio – accogliendo un emendamento proposto dal segretario di Più Europa Luca Magi ed evidentemente votato anche da più di qualcuno nella maggioranza – avrebbe stanziato per promuovere nelle scuole corsi di educazione sessuale e affettiva e salute sessuale.
Da qualche lustro a questa parte, con furia crescente, l’argomento sesso è diventato l’ossessione di tutti i benpensanti: radicali e clericali, estremisti e moderati.
Insomma, non sei una bella persona se non sali sul carro degli educatori aggiornati per i quali il sesso sta sopra ogni cosa e, soprattutto, rappresenta la prospettiva principe da inculcare il prima possibile a incolpevoli scolaretti in erba e poi, con virtuosismi all’altezza delle bassezze con cui già si stordiscono in rete, a ragazzini per lo più incapaci di intendere e di volere perché ignoranti di tutto il resto.
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È tragicamente esilarante osservare lo scontro in atto tra squadre di titani che manco si accorgono di portare acqua allo stesso identico mulino, ma strillano e si insolentiscono a vicenda. Come i proverbiali cecàti che fanno a pietrate.
Quelli del governo tuonano: «nessuno spazio nella scuola, né oggi né mai, per chi vorrebbe propagandare l’ideologia gender», e si premurano persino di rassicurare le mamme e i papà che l’educazione sessuale è nelle loro mani e non in quelle «di docenti politicizzati ed esperti esterni». Sorge spontanea la domanda: ma costoro dove vivono?
Qualcuno infatti dovrebbe spiegare al roboante onorevole incaricato di arringare il Parlamento come le scuole, tutte, siano invase da invasati che vi trovano praterie indifese da colonizzare perché nessuno ha più il coraggio di mettersi di traverso se non sussurrando piano piano all’orecchio del dirigente che, forse, sarebbe più adeguato evitare la promozione del sadomaso e fermarsi al capitolo precedente del prontuario.
Qualcuno dovrebbe anche riferire al gagliardo onorevole che il contagio della carriera alias corre ovunque indisturbato, dal momento che se non l’abbracci hai l’anello al naso o sei rimasto nel Medioevo, e invece oggi ogni virgulto deve decidere in libertà di cambiarsi il nome se per caso si sente altro da sé, perché il sesso è un’opinione.
Qualcuno dovrebbe far sapere inoltre, all’onorevole tonitruante, che i genitori e i docenti che hanno ancora la forza di guardare in faccia lo sfacelo sono completamente disarmati davanti all’onda di piena che ormai travolge ogni singola scuola con lezioncine desolanti di desolanti esperti certificati, reclutati a occupare fette sempre più estese dell’orario curricolare.
Qualcuno, se può, avvisi l’onorevole. Anche se basterebbe perlustrasse lui stesso la vetrina di qualche scuola a caso, per vedere a chi sono appaltati questi benedetti corsi, generalmente a scatola chiusa perché l’appaltatore si chiama «esperto» e degli esperti ci si deve fidare. Si accorgerebbe che il circo è gestito dalle associazioni più improbabili, come quelle composte «da professionist3 (non è un errore di battitura, ndr) della salute» che si autoqualificano come «queer, trans, neurodivergenti, non monogame, kinky», e chi non sa cosa significhi kinky è caldamente invitato ad andarlo a vedere.
In ogni caso, sappia l’onorevole che nel nostro piccolo possiamo fornirgli tonnellate di materiale degradante spacciato per programma educativo.
Ma torniamo alla gigantomachia.
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Sempre la maggioranza di governo, fingendo di non conoscere la realtà delle cose (o non conoscendola proprio: non si sa delle due quale sia l’ipotesi peggiore) cerca di tenere insieme la capra con i cavoli e decide che quei fondi, già approvati su iniziativa di Più Europa, saranno destinati a formare i docenti «in via prioritaria sulle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione dell’infertilità»; e solo in via subordinata serviranno alla salute sessuale e alla educazione sessuale.
Pensano in tal modo, e probabilmente a ragione, di tacitare gli strilloni in servizio permanente dalla galassia sedicente pro-life e clericale, i quali esulteranno perché finalmente abbiamo un governo che incentiva le nascite e non saranno sfiorati dall’idea che l’unico business pro vita che tira, nell’ora presente, è quello della vita sintetica: vale a dire provette per tutti (compresi i diversamente praticanti di cui sopra), commercio di gameti, selezioni e manipolazioni genetiche – ossia l’industria della riproduzione artificiale. Che è esattamente il traguardo auspicato dai tifosi del sesso alternativo a quello fertile secondo le insuperabili leggi della biologia; è esattamente agli antipodi del miracolo della vita.
Intanto l’opposizione, anch’essa fingendo di non capire un tubo (o davvero non capendolo), si strappa i capelli e grida all’operazione sporca della maggioranza, alla sconcertante retromarcia frutto di una «politica manipolatrice votata a soddisfare la fissazione sessuofobica di certa destra».
Insomma una sceneggiata, un manicomio a cielo aperto conteso tra (stando alle accuse incrociate) maniaci sessuali da una parte e sessuofobi dall’altra.
E non è finita. Infatti, nel mentre che quelli litigano (o fingono di litigare), il titolare del dicastero dell’istruzione firma nientemeno che un protocollo di intesa coll’intraprendente genitore – originale interprete del lutto – della povera Giulia, diventato d’improvviso fondazione.
Il fine dell’accordo tra il ministero della pubblica (si ribadisca: pubblica) istruzione e la neonata fondazione privata in sfolgorante carriera sarebbe quello di avviare una collaborazione «per la definizione di progettualità» volte ad «affermare la cultura del rispetto verso ogni persona e in particolare verso le donne» tra studentesse e studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Il che, come abbiamo visto, significa una cosa tanto semplice e chiara, quanto demenziale: convincere i maschi a sentirsi colpevoli di essere maschi, cioè ad essere fatti sbagliati.
Non che si tratti di una trovata nuova. Ricordiamo che, a ridosso del tragico fatto di cronaca e sulla spinta dell’inusitato clamore mediatico montatoci intorno, lo stesso titolare dello stesso ministero si era lanciato – sempre in applicazione (bisogna riconoscere, creativa) della logica della capra e dei cavoli, ovvero del diavolo e dell’acqua santa – nell’impresa surreale di piazzare una suora e una lesbica a capo dei programmi di educazione al rispetto e affettiva nelle scuole italiane. Ma siccome fu linciato da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso, si rimangiò subito l’ideona.
Ancora, ben prima, ricordo anni fa quel mio figlio allora liceale che, dopo una delle istruttive psicolezioni della psicoesperta arruolata dalla scuola, tornò a casa comunicando la fine dell’epoca in cui uno nato maschio poteva provare a corteggiare una fanciulla (tipo regalandole un fiore, o dicendole che è bellissima, letteralmente) perché, nel nuovo orizzonte rispettoso di tutte di tutti e di tutt*, i gesti classici del corteggiamento sono inclusi d’ufficio nell’elenco delle offese capaci di integrare forme di implicita violenza nei confronti della destinataria, addestrata fin dalla culla e fino alla nausea a rivendicare la parità e l’uguaglianza, con le conseguenze del caso.
Non era un’iperbole, i maschi lo sanno. E in effetti, stando così le cose, si sentiva davvero la mancanza del nuovo protocollo Cecchettin.
Ma in democrazia, si sa, decidono i sondaggi e, come ci informano i giornaletti di regime, «il 78% dei giovani vorrebbe una maggiore presenza dell’educazione sessuale a scuola, che è considerata troppo ingessata sui programmi». Ma guarda tu che sorpresa. L’argomento è decisivo quasi quanto la preghiera di Lilli Gruber dal pulpito televisivo: «Per favore, politici, date l’educazione sessuale come materia obbligatoria nelle scuole italiane». Amen.
Come che sia, risultato della gigantesca operazione è che a scuola entrano esemplari di ogni genere a pontificare senza alcun controllo di sesso e dintorni, e di mille altre scemenze assortite, al riparo del loro patentino di esperti. Qualcuno nei palazzi, a buoi scappati, ricordandosi di aver vinto le elezioni con la promessa – tra le altre – di arginare la follia genderista, cerca tardivamente di metterci una pezza con la storia buffa del contrasto all’infertilità, ben sapendo che in ogni caso i rinforzi arrivano dalle retrovie col protocollo Cecchettin.
Ma ci chiediamo: tra tutti questi signori che, berciando e straparlando, decidono le sorti dei figli altrui, davvero a nessuno passa per la testa l’ovvia considerazione – peraltro dimostrata sia empiricamente sia scientificamente – che l’overdose di sesso ammannito in tutte le salse sortisca l’effetto paradosso di uccidere il desiderio e, in abbinata alla criminalizzazione dell’universo maschile, finisca per castrare in via definitiva una generazione intera? Si può dire vergognatevi tutti?
Anche perché in questo miserando teatrino fanno tutti finta di non sapere (o davvero non sanno?) che la scuola italiana – dove ormai si fa tutto fuorché scuola – versa in uno stato comatoso. E i poveri scolari arrivano alla maggiore età senza saper impugnare la penna, senza essere in grado di articolare una frase minima grammaticalmente corretta e munita di senso compiuto; di comprendere il significato di parole eccedenti un repertorio sempre più scarno (e sempre più squallido); di afferrare periodi complessi; di usare più di un modo verbale diverso dall’indicativo e di un tempo diverso dal presente; di distinguere un soggetto da un predicato, un aggettivo da un pronome. L’italiano letterario è diventato di fatto una lingua straniera, la geografia e la storia sono state abolite, la matematica non va oltre i test a crocette.
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La devastazione è sotto gli occhi di chiunque, eppure non si trova nulla di meglio da fare che incrementarla con carichi sempre nuovi di stronzate scolastiche vestite in ghingheri e accompagnate dalla colonna sonora di slogan precotti e irriflessi, quegli stessi che girano in TV e nei social che rintronano là fuori.
Il pretesto truffaldino di tenere la scuola al passo con i tempi – barbarie incluse – rimpinzandola di paccottiglia balorda e svuotandola del sapere, delle discipline e del ragionamento, serve a privare irreparabilmente le nuove generazioni delle chiavi di accesso a uno sterminato patrimonio culturale e spirituale sedimentato lungo un passato grande e maestro; un tesoro che per questa via viene correlativamente e fatalmente lasciato morire.
Invece è proprio entrando lì dentro che si impara il rispetto per le cose umane, levigato dal lungo flusso della vita e di un’esperienza tramandata, e immortalato in opere eterne; ed è precisamente questo il servizio fondamentale, e insostituibile, che una scuola degna del suo nome è chiamata a onorare.
Impedire a chi ci succede l’accesso a queste stanze è un crimine di portata epocale della cui responsabilità in molti porteranno il peso.
Elisabetta Frezza
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