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Scuola

L’abisso del Piano Scuola 4.0

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Il «Piano Scuola 4.0» è la tabella di marcia che segna le progressive tappe da spuntare, da qui al 2025, nel processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana – dagli asili nido alle università – secondo le linee di investimento previste da PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

 

Si suddivide in quattro sezioni, denominate rispettivamente: la prima «Background»; la seconda e la terza «Framework»; la quarta «Roadmap». Uno poco avvezzo alle produzioni letterarie dei nostri apparati burocratici si potrebbe chiedere se davvero si parli di scuola italiana: ebbene sì, siamo in Italia, e lo scempio linguistico rientra nell’ordinario sfoggio di compiuta colonizzazione «culturale» di cui troppi vanno fieri come fosse una medaglia al valore. 

 

Il documento offre la puntuale descrizione della palingenesi tecnologica che deve investire in modo assorbente le nuove generazioni attraverso la formazione scolastica; e che implica, com’è ovvio, il previo addestramento dei docenti chiamati ad assisterle in questa incalzante fase di transizione – in attesa della sostituzione del personale umano con una adeguata dotazione di più efficienti e resistenti robot. 

 

In base alle proprie «competenze digitali», i docenti sono suddivisi in sei livelli: A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere. Proprio così. Una classifica da far invidia alle Giovani Marmotte e che, insieme a tutto il degradante malloppo nel quale si trova inscritta, dovrebbe quantomeno accendere nella categoria interessata una scintilla di orgoglio e suscitare un moto di ribellione. In chi poi abbia presente l’epilogo della operazione – che poggia sul presupposto della fungibilità della manovalanza umana – dovrebbe muovere pure il più elementare istinto di sopravvivenza. Ma chissà.

 

In prima battuta, la lettura del prontuario può produrre nel lettore ignaro un effetto esilarante, perché la veste formale e lessicale del testo – l’italiano, questo sconosciuto – si spinge oltre la parodia, arriva dritta all’insulto del senso estetico e del senso comune, ammesso che, in barlume, esistano ancora. Ma si tratta di una reazione effimera, che non può non tramutarsi ben presto in sdegno, incredulità, preoccupazione.

 

Vero è, infatti, che tutto quanto vi si legge si trovava già scritto in agenda, da tempo. Tuttavia, dentro queste trentanove cartelle si tocca con mano lo iato che passa tra l’esposizione di un generico programma politico-ideologico e la sua reale applicazione forzata secondo una scansione temporale precisa quanto stringente. Il ricatto economico – il cappio brandito da Bruxelles – funge da garanzia dell’adempimento, del quale si percepisce tutta l’incombente prossimità. Ed è una sensazione raccapricciante.

 

A partire dalle pagine introduttive, è spiegato come il primo fondamentale passaggio sulla strada della innovazione integrale della scuola riguardi l’ambiente dell’apprendimento. Si legge che, mentre «fin dalla nascita della scuola, lo spazio di apprendimento tradizionale è stato configurato secondo il rigido modello di un’aula di forma quadrata o rettangolare, con le file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente», oggi questo modello va urgentemente smantellato.

 

Infatti, «la ricerca nazionale e internazionale» (!!!) avrebbe mostrato come esso, tuttora prevalente, «non sia più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo».

 

Ecco quindi che – secondo le menti del Piano – è necessario ridisegnare gli «ecosistemi di apprendimento» con «arredi e tecnologie a un livello più avanzato rispetto a quelli oggi in uso, al fine di rendere sostenibile il processo di transizione digitale». 

 

Vale qui la pena di riportare testualmente qualche altro pezzo del Piano, per farsi un’idea di dove andremo a parare.

 

Tipo: «Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife» (i grassetti sono originali). Sottolineiamo l’orwelliana novità del lemma onlife, evidente calco di online, assurto quest’ultimo a entità primaria da cui derivare il resto della esperienza umana.

 

La cosa bella è che, subito dopo l’esibizione di tanto estremismo cibernetico, funzionale allo straniamento e alla alienazione assoluti, si precisa come, beninteso, debbano essere garantiti «i requisiti comuni di sicurezza, di benessere, di privacy…anche con la previsione di specifiche azioni didattiche circa i rischi connessi all’utilizzo improprio delle tecnologie». Al che, davvero, non si sa se ridere o se piangere: a questi scolari mettono in testa un casco che li estrania dalla realtà, li «immergono» e annegano nel nulla, nel frattempo fanno finta di munirli di un boccaglio di gomma per prendere un refolo d’aria che non c’è. Nella bisca delle parole truccate, vale tutto.

 

In concreto, l’obiettivo dell’azione «Next Generation Classrooms» è quello di trasformare, grazie ai finanziamenti del PNRR, almeno 100.000 aule delle scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. Deve avvenire insomma una totale metamorfosi delle aule: fondamentale, come abbiamo visto sopra, che esse non siano più uno spazio quadrato o rettangolare (quindi? rotondo? ovale? ottagonale?) e non abbiano più sedie, banchi e cattedra, tutti attrezzi pedagogicamente obsoleti (il pavimento può starci? e il soffitto?).

 

Sicché, «sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR», ciascuna istituzione scolastica dovrà adottare un documento chiamato «Strategia Scuola 4.0» dove vengano declinati «il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, la innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento DigComp 2.2, l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola per la gestione della transizione digitale, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale».

 

Dovrà farlo ciascuna istituzione scolastica. Affinché l’imperativo categorico sia chiaro, si ribadisce: «È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (ad esempio, apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.)».

 

E ancora. «Le nuove classi, oltre ad avere uno schermo digitale, dispositivi per la fruizione delle lezioni anche in videoconferenza e dispositivi digitali individuali o di gruppo (notebook, tablet, etc.), dovranno avere a disposizione, anche in rete tra più aule, dispositivi per la comunicazione digitale, per la promozione della scrittura e della lettura con le tecnologie digitali, per lo studio delle STEM, per la creatività digitale, per l’apprendimento del pensiero computazionale, dell’intelligenza artificiale e della robotica, per la fruizione dei contenuti attraverso la realtà virtuale e aumentata». Eccetera eccetera.

 

Benvenuti dunque nel mondo che non c’è, ma in cui i nostri figli dovranno evaporare, fluttuare, intripparsi e rimbambirsi, per volere delle istituzioni. Sarà tutto bellissimo perché modernissimo e bisogna scrollarsi di dosso qualsiasi residua remora gretta e senile.

 

A beneficio dell’«utenza», chiamata a salutare festante l’avvento della propria schiavitù, della propria sostituzione e del proprio annientamento programmato, gli apparati di cui sopra hanno pure la delicatezza di fornire una pezza giustificativa alla operazione – così, per tacitare qualche resto di coscienza – e mettono lì un elenco di parole a caso, usate all’incontrario (tanto, si sa, basta il suono).

 

Gioite dunque, o genti, delle magnifiche sorti vostre e dei vostri figli, poiché: «Le Next Gen Classrooms favoriscono l’apprendimento attivo di studentesse e studenti con una pluralità di percorsi e di approcci, l’apprendimento collaborativo, l’interazione sociale fra studenti e docenti, la motivazione ad apprendere e il benessere emotivo, il peer learning, il problem solving, la co-progettazione, l’inclusione e la personalizzazione della didattica, il prendersi cura dello spazio della propria classe. Contribuiscono a consolidare le abilità cognitive e metacognitive (pensiero critico, pensiero creativo, imparare a imparare e autoregolazione), le abilità sociali ed emotive (empatia, autoefficacia, responsabilità e collaborazione), le abilità pratiche e fisiche (uso di nuove informazioni e dispositivi di comunicazione digitale)». 

 

Straordinario. Straordinario tutto, ma in particolare laddove si dice che il vuoto pneumatico, lo spazio ormai totalmente sterilizzato, smaterializzato e devitalizzato, favorirebbe «l’interazione sociale tra studenti e docenti». Capolavoro di bipensiero.

 

Quanto ai Next Generation Labs, da istituire con urgenza presso gli istituti superiori, essi mirano «allo svolgimento di attività autentiche e di effettiva simulazione dei contesti, degli strumenti e dei processi legati alle professioni digitali, di esperienze di job shadowing… di azioni secondo l’approccio work based learning, e possono consistere in un unico grande spazio aperto, articolato in zone e strutturato per fasi di lavoro, oppure in spazi comunicanti e integrati, che valorizzano il lavoro di gruppo all’interno del ciclo di vita del progetto (project based learning)… Essi si caratterizzano per essere coperti da una connettività diffusa in banda ultra larga, e sono aperti alla sperimentazione della tecnologia 5G». 

 

Praticamente, occorre allestire delle basi spaziali.

 

E non pensi, qualche preside antiquato di qualche scuola antiquata, di poterla fare franca, perché «la Roadmap del Piano Scuola 4.0 prevede una procedura di assegnazione delle risorse sulla base di un piano di riparto nazionale dei fondi a tutte le istituzioni scolastiche italiane e di un sistema informativo di monitoraggio e di rendicontazione online. Le scuole gestiranno le azioni di progettazione, allestimento e utilizzo dei nuovi ambienti e dei laboratori secondo un cronoprogramma nazionale». Ripetiamo: un cronoprogramma nazionale. Da lustri ci martellano in testa la cosiddetta autonomia scolastica, strumento effettivamente servito per polverizzare e deprimere il sistema italiano di istruzione; ma, quando si tratta di applicare l’agenda, l’autonomia puf, si azzera, per cedere il passo al controllo più penetrante e più invasivo che c’è.  

 

A margine, sorge spontanea una constatazione: in questo fantasmagorico panorama, è evidente che il liceo classico è un morto che cammina, una dead school walking. Si blatera solo di STEM (acronimo per: Science, Technology, Engineering, Mathematics). Per lorsignori, la formazione umanistica è una spina nel fianco, una la piccola brace ancora viva da soffocare definitivamente, inghiottendola nel silenzio senza nemmeno nominarla, perché capace di emettere qua e là qualche segnale di fumo. Fine della constatazione.

 

Ora, i virgolettati qui sopra sono solo dei piccoli stralci, presi a campione, per capire qual è la musica. Lo spartito è lungo 39 cartelle e verrà suonato nelle scuole italiane a partire da oggi. Anzi, da ieri. Perché nel documento si dice espressamente che questi lavori di demolizione di tutto ciò che di reale, umano, materiale e insieme spirituale (ché le due cose viaggiano inseparate) resiste nella scuola – quel che insomma ne costituisce l’essenza, e il perché – hanno subito un significativo impulso grazie alla pandemia. 

 

«La pandemia – ci informa infatti il nostro documento – ha avuto un rilevante impatto nell’accelerazione dell’utilizzo di tecnologie basate sulla intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione, e-commerce e blockchain, la realtà virtuale e aumentata, la stampa 3D/4D, cloud computing, internet delle cose, etc.». Acquisire competenze digitali specialistiche – secondo gli innovatori – è il prerequisito inderogabile per «ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti». Lo hanno deciso loro. Studiosi, contemplativi, poeti, artisti, artigiani, contadini, manovali, si attacchino: sono per definizione una manica di falliti.

 

Del resto, a chi non si fosse ancora convinto della strumentalità della «emergenza» ai fini di un cambio epocale di paradigma, andrebbe una volta di più ricordato che si era ancora agli albori dell’era pandemica – primavera del 2020 – quando l’UNESCO annunciava in gran pompa l’avvio dell’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»; ovvero, un esperimento nell’esperimento, pensato ad hoc per il luogo privilegiato in cui si forgiano le generazioni future.

 

Ed eccoci qui. Esperimento riuscitissimo.

 

Dopo aver disintegrato i più giovani, nel fisico e nella psiche; dopo averli portati a forza al condizionamento interiorizzato; dopo aver depresso il grado di istruzione fino all’analfabetismo manifesto; dopo avere inibito sul nascere ogni potenzialità logica e creativa; insomma, dopo questo trattamento d’urto inflitto a coronamento di un lungo logorio pregresso, era maturo il tempo di organizzare finalmente la transumanza nel metaverso: vale a dire l’immersione in apnea in un universo onirico funzionale al controllo totale sui corpi e sulle menti.

 

La Scuola 4.0 è la metascuola. Il 4 non si sa bene da dove venga, ma evoca la cifra ricorrente della rivoluzione progettata da noti consessi filantropici, tipo per esempio quello del signor Schwab e dei suoi compagni di merende, coronati e no. L’edizione italiana del manuale di istruzioni scritto da Schwab per il bene dell’umanità è casualmente prefatto da John Elkann. Sempre casualmente, la Fondazione Agnelli, col suo osservatorio Eduscopio e tutti i satelliti intorno, da decenni ospita la cabina di regia del sistema scolastico italiano. Come si legge nel suo sito, la fondazione «ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione…» eccetera eccetera.

 

Il titolo del nuovo manifesto rivoluzionario sulla nostra scuola parrebbe quindi, ma potremmo sbagliarci, un omaggio allo Schwab e al suo illuminato programma di Quarta Rivoluzione Industriale. Un salto quantico verso la coltivazione differenziata della popolazione: da una parte i piani alti, che si istruiscono alla maniera di sempre (probabilmente persino in aule quadrate o rettangolari); dall’altra le masse subalterne, piazzate davanti agli schermi a galleggiare nella fiction, a premere tastini ed emettere suoni disarticolati, come tante scimmie ammaestrate, preda di automatismi indotti da stimoli diramati dalla centrale, sottratte all’esperienza, al contatto con le cose, alla vista, all’udito, al gusto, al tatto e all’olfatto. Destinate alla atrofia cerebrale. 

 

Sguardi, suoni, movimento, tutta quella fisicità e sensorialità che è parte integrante del processo di apprendimento, e che lo nutre, lo sostanzia e lo vivifica, nel disegno dei manovratori devono sparire.

 

Deve sparire il «corpo a corpo» della lezione, deve sparire la palestra di vita che ogni classe rappresenta, e ha rappresentato per ognuno di noi.

 

Deve sparire la penna, così come la carta, il libro e tutte le operazioni, a partire dalla calligrafia che, si sa, non si esauriscono nell’esercizio della manualità fine, che è già parecchio, ma sono collegate allo sviluppo di una serie infinita di attitudini superiori.

 

Soprattutto, deve sparire l’umanità, fatta di carne e spirito, di pensiero e di creatività.

 

Gli adulti sedotti dall’avanguardia digitale non ne comprendono appieno il grado di distruttività, perché nella loro esistenza hanno beneficiato del confronto con la realtà vera, nel suo bene e nel suo male, anche se ne sono dimentichi. In qualche modo, nella loro inconsapevole memoria immunitaria, possiedono ancora gli ultimi strumenti per padroneggiare i meccanismi della macchina. Non sarà così per quei figli che si vorrebbero far crescere nella landa gelida e desolata del nulla. 

 

A chiunque senta il rumore dell’onda di piena che sta travolgendo tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che ci fa ancora da sfondo lontano, spetta il compito non procrastinabile di mettere in salvo il seme.

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

Scuola

Dal ricatto del vaccino genico alla scuola digitalizzata: intervento di Elisabetta Frezza al convegno su Guareschi

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Renovatio 21 pubblica un brano dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Guareschi l’attualità di un genio multiforme» tenutasi sabato 6 aprile presso Palazzo Gambacorti a Pisa.

 

Mille cose si potrebbero dire sull’argomento. Ma conviene partire dalle quattro paginette intitolate «La rivoluzione d’ottobre» inserite del Corrierino delle Famiglie.

 

Da padre di famiglia, Guareschi si era fatto una idea ben precisa della scuola di Stato. E se vogliamo fare un tuffo nell’attualità – intendo proprio nel qui e ora – dobbiamo rileggere quel racconto. 

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La Pasionaria era già pronta per uscire: si sedette con molta serietà sull’angolo del divano.

 

– Me aspetto – disse.

 

Mi alzai e, agguantata la giacchetta, me la infilai.

 

– Sono pronto anche io – risposi avviandomi verso la porta. Ma la Pasionaria non si alzò e, quando fui sul pianerottolo e non la vidi arrivare, tornai sui miei passi e trovai la Pasionaria ancora seduta dignitosamente sull’angolo del divano.

– E allora? – domandai.

 

– La barba – rispose la Pasionaria senza scomporsi.

 

Ora bisogna considerare che io, nato nel cuore dell’Emilia, terra di grandi passioni, sono un impulsivo e così, spesso mi accorgo di aver detto cose che non ho avuto il tempo di pensare. Davanti a quella assurda pretesa, mi ribellai con irruenza. 

 

– Tua madre mi ha conosciuto che avevo la barba lunga, mi ha sposato che avevo la barba lunga e non si è mai sognata neppure che io, per uscire con lei, dovessi farmi la barba. Chi sei tu che avanzi simili pretese?

 

– Io sono me – rispose calma, quasi gelida, la Pasionaria.

 

Andai a farmi la barba. Poi dovetti cambiarmi anche la giacca e i calzoni e spolverarmi le scarpe: ma feci tutto ciò con tale aria di superiorità e di disgusto che, se non ha la pelle di rinoceronte, la Pasionaria deve averlo capito perfettamente.

 

Camminammo in silenzio per le strade del dolce autunno milanese e ben presto arrivammo dove dovevamo arrivare. Nel piazzale davanti alla scuola c’era gente: mamme, babbi, bambini, bambine e bidelli come nelle prime pagine di Cuore: e io ripensai all’altra volta, quando avevo portato nello stesso piazzale Albertino e poi lo avevo abbandonato ed egli era scomparso nella mandria, come un mattone nel muro. 

 

Io sentivo nella mia mano la piccola mano tiepida della Pasionaria e vedevo le mamme ed i bimbi ed i babbi, ma non respiravo l’aria di Cuore e non pensavo alle paroline zuccherate di Edmondo De Amicis. 


Avevo la bocca piena di parole amare e le masticavo a bocca chiusa e le mandavo giù, una per una, e molte mi si fermavano in gola. Ancora una volta dunque sta per avvenire il sopruso e io dovrò lasciare la tua mano, Pasionaria, e tu andrai ad incunearti nel buchino rimasto aperto nel muro. 
Dunque addio anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita dello Stato. 


Ti insegneranno l’ipocrisia statale e i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero
Adios, Pasionaria.

 

Anche questa volta, come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro dello Stato.

 

Adios, Pasionaria!

 

Io, un tempo, quando sfogliavo le vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la spiegazione de Le nostre pagine a colori, e mi facevano pena le donnette dei lontani paesi del mezzogiorno che si mettevano in rivoluzione per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i medici governativi emissari di chi sa mai quale paurosa centrale di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano dal sopruso dello Stato.

 

È un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge, inocula il benefico vaccino nel braccino di vostro figlio, è una zanna del gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima.

 

Adios, Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti sacrificherò al dio crudele creato dalla gente che non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue Eterne Leggi.

 

Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci avvince nella matassa ormai inestricabile delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria

 

E io che mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì governativo.

 

Quale tempesta nel tenero cranio di un povero borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso ha contribuito a creare e che egli stesso alimenta, togliendosi il pane di bocca.

 

Adios, Pasionaria.

 

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Ormai le squadre si erano composte e le mamme e i padri si erano ritirati in mezzo al piazzale e i bambini erano rimasti tutti soli, addossati al muro della scuola.

 

Mancava soltanto la Pasionaria ed io allentai le dita. 

 

In quel momento le porte si aprirono ed i bambini cominciarono ad entrare.

 

Un tassì era fermo all’angolo: lo raggiunsi di corsa e, spalancato lo sportello, mi buttai dentro come un sacco di patate. 

 

La macchina partì di gran carriera e navigò per le strade di Milano e puntò verso la periferia. E, quando fu davanti all’acqua azzurra dell’Idroscalo, la macchina si fermò e noi scendemmo.

 

Dico “scendemmo” perché la Pasionaria era con me.

 

La Pasionaria era col ribelle. I viali attorno al laghetto erano pieni di sole e deserti e ci divertimmo parecchio. 

 

Ma io pensavo che a casa ci aspettava lo Stato: Margherita. 

 

E questo mi amareggiò il divertimento. E quando a mezzogiorno tornammo, Margherita domandò alla Pasionaria com’era andata e la Pasionaria rispose che era andato tutto bene, che la signora maestra era buona, eccetera eccetera.

 

Poi mi guardò strizzandomi l’occhio perché si era stabilito che lei avrebbe dovuto dire questo e quest’altro, e così, con una strizzatina d’occhio, finì la mia rivoluzione d’ottobre.

 

La scuola è il luogo in cui chi, pro tempore, pilota l’imbarcazione (il kybernètes, il timoniere) e pensa per questo di essere onnipotente, può mettere le mani sul futuro, materialmente. Può plasmare un materiale umano sterminato e metterlo in forma secondo le proprie esigenze e secondo la propria idea di come debba girare il mondo.

 

E così può sfornare, pronta per l’uso, manovalanza uguale e obbediente riducendo all’osso gli errori di sistema (cioè, i «ribelli» dell’idroscalo che si ostinano a pensare propri pensieri). «Ti insegneranno l’ipocrisia statale e anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero…sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria». 

 

Materialmente, dicevamo. Abbiamo fresco il ricordo del biennio pandemico in cui la scuola è stata un laboratorio nel laboratorio (l’UNESCO lo ha definito «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»). Sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità e di morbosa creatività rimasto ineguagliato nel panorama internazionale.

 

Ricordiamo i rituali delle abluzioni col disinfettante; i sensi unici alternati nei corridoi; le misurazioni col metro tra le rime buccali; la quarantena dei fogli e la disinfestazione del materiale scolastico; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; ricordiamo le stanze di isolamento se uno starnutiva.

 

Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario, tra l’altro in fase di sperimentazione, puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, puoi frequentare l’università e la biblioteca. 

 

Tutto questo ha consentito, sempre non a caso, di raggiungere in tempi compressi, in unica soluzione, traguardi insperati. 

 

Quell’esperimento ha sortito cioè, come da programma, un effetto catapulta: certamente sulla strada della digitalizzazione secondo i desiderata di Big Tech («se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas»), ma anche sulla strada della medicalizzazione e psichiatrizzazione pervasive. 

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Ora, questa è la scuola del mondo grande, quello, per dire, in scala 1 a 1. Qualitativamente, non è cambiata di una virgola. 

 

Conversando di giovani e vecchi, con Gio’ (al secolo Gioconda Cicòn, la domestica di casa, «che ragiona a modo suo e non si sa mai dove può arrivare») Margherita dice: «Giovannino, non mi pare una novità: È la lotta che dura da quando è nato il mondo. È la dura legge umana: i giovani sentono come loro primo dovere quello di seppellire i vecchi». «Sì Margherita» risponde Giovannino «Ma ora la faccenda è degenerata perché i giovani cercano di seppellirci mentre siamo ancora vivi». «Giovannino, la colpa non è dei giovaniQuesta è l’era della forza nucleare, dei cervelli elettronici, della missilistica e del cosmo. Il tempo, adesso, lo si misura a millesimi di secondo e c’è in tutto una fretta maledetta». Interviene Gio’: «Senza contareche la forza atomica, i missili, l’elettronica e via discorrendo li avete inventati voi vecchi. Mi fanno ridere, questi vecchi che danno a noi giovani uno schioppo carico e poi pretenderebbero che noi si andasse a caccia con la fionda. Che inventano la Tv e poi si lamentano se ci divertiamo a guardarla…». 

 

Dunque, c’erano già persino i cervelli elettronici, e non occorre aggiungere nulla. Nemmeno sulla drammatica irresponsabilità degli adulti, sempre più infantilizzati, di fronte allo scempio che si consuma davanti ai loro occhi a una velocità supersonica. La fretta, «la fretta maledetta», è una componente decisiva del disegno.

 

Bene, in quella scuola, in questa scuola, bisogna andarci ben attrezzati (e l’attrezzatura, evidentemente, va messa a punto altrove) per poter affrontare il Leviatano che vuole trasformarti in una macchinetta assemblata con componenti di serie, con tutti i pezzettini al posto giusto, come vuole l’impresario. 

 

La complicità che nel racconto corre tra padre e figlia, quel germe di disobbedienza interiore, va sì innaffiato, ma va allo stesso tempo anche domato, perché sennò si rischia davvero la rivoluzione e non si sa dove si va a finire. Non è facile bilanciare i due stimoli, è un sottile lavoro di precisione che spetta a chi sta a casa. 

 

Anche perché l’opera indefessa di questo mostro, che semina nella scuola secondo i suoi bisogni per raccogliere la sua messe, si incrocia con quello della grande macchina mediatica, un altro tentacolo della stessa piovra, anch’essa descritta da Guareschi con la consueta efficacia. «Si sa: la gente ha fretta e non vuole complicazioni. Ogni giorno di più si disabitua a pensare, a ragionare, a leggere. Vuole che tutto sia semplificato, ridotto in pillole. Chiede cose già pensate, ridotte a slogan, facili da fissare nella memoria. Vuole soprattutto cose ridotte a immagini». 

 

E ancora: «La TV è il mezzo ideale per soddisfare le esigenze di questa gente frettolosa e superficiale e qui si annida il tremendo pericolo…può diventare un vero flagello…falsando la storia e la realtà, crea dei falsi eroi, dei falsi modelli di vita e determina nella massa sprovveduta quella confusione di valori e di idee che la trasformano in una vera “fabbrica dei cretini”».

 

La fabbrica funziona a pieno regime e a ciclo continuo, genera senza tregua il copione della fiction, della menzogna che ci viene propinata come verità non discutibile; alla quale la scuola si allinea fornendo idee prepensate, pacchetti ideologici preconfezionati (invece della cassetta degli attrezzi per formarsi un pensiero autonomo), addirittura finte proteste preorganizzate, con il loro corredo di slogan e di messaggi pubblicitari e servite pronte per accarezzare il desiderio di trasgressione che fisiologicamente alberga nei più giovani. La protesta basta inscatolarla, infiocchettarla e, in questo modo, disinnescarla, renderla del tutto inoffensiva.

 

Anzi, funzionale al consolidamento del sistema che si fa forte del falso pluralismo inscenato per le giovani masse a trazione mediatica. Abbiamo visto addirittura gli scioperi promossi e persino premiati dal ministero con note di encomio (e di demerito a chi non aderisce), in un cortocircuito logico nel quale si sono messi tutti a girare, come i criceti nella ruota. Senza minimamente accorgersi di prestarsi come carne da cannone a favore di chi amministra il teatrino e si gode dall’alto l’obbedienza dei burattini. 

 

I «cervelli elettronici» di cui diceva Margherita oggi si sono paurosamente evoluti dal punto di vista tecnologico, e stanno conquistando un territorio sempre più esteso, con il correlativo ritiro delle funzioni cerebrali organiche, sempre più atrofiche. La scuola 4.0 in via di rapidissimo allestimento non è altro che una immensa sala giochi in cui la tempesta di immagini (di fantasmi), sostituisce lo studio delle leggi della realtà. E la scuola 4.0 sarà, come da programma, l’apoteosi della fabbrica dei cretini.

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Intanto i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini e vuoti di parole, e le poche parole, appunto, sono ridotte a slogan; ma senza la parola non c’è ragionamento e nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie, parziali, ideologiche, imposte dall’esterno, per imparare ad abbracciare il reale e a interpretarlo da sé. 

 

E a proposito di parole: le riforme scolastiche – e quindi gli atti amministrativi e, a pioggia, tutte le scartoffie che viaggiano nei labirinti della burocrazia scolastica – parlano inglese. Sono intrisi di formulette globish tratte dalla pedagogia anglosassone (infatti si ispirano a modelli pedagogici già sperimentati oltreoceano, e già lì rivelatisi fallimentari: un bizzarro paradosso), impastate insieme a uno pseudo italiano di rara bruttezza, fatto di stilemi stereotipati, tanto orecchiabili quanto tossici.

 

Il linguaggio, si sa, è uno strumento impareggiabile per fabbricare incantesimi e ricreare la realtà. Il mondo della scuola, sempre non a caso, batte una lingua parallela, una lingua barbara, coniata apposta per adulterare il senso stesso dell’istituzione. 

 

Questo la dice lunga sul degrado, prima ancora che culturale, estetico, che ha investito la scuola. E sulla colonizzazione culturale che, anche per questa via, ci stiamo gioiosamente autoinfliggendo. Diceva Elémire Zolla negli anni Sessanta del Novecento, con un adagio folgorante: «come macilenti gatti di periferia, gli italiani si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

Sull’aspetto della colonizzazione culturale, in quegli anni anche Guareschi ci aveva anticipato qualcosa. Egli parla del 1945 come della «seconda scoperta dell’America». E dice che «Prima della seconda scoperta dell’America era difficile vivere perché ci assillavano, in gran numero, dubbi e incertezze».

 

Adesso, tutto è diventato straordinariamente facile, avendo l’America posto generosamente a nostra disposizione, attraverso il famoso “piano Marshall”, una completa gamma di test che ci permette di trovare una risposta precisa a qualsiasi interrogativo. 

 

Ogni problema di qualche importanza è stato accuratamente studiato dagli americani. Tecnici di tutti i settori dell’industria, del commercio e della scienza, psichiatri, psicologi, psicanalisti, cardiologi, oculisti, otorinolaringoiatri, esperti di public relation e via discorrendo, hanno affrontato di petto i vari problemi, sezionandoli e analizzandone ogni possibile aspetto, sì da poter trasformare la massiccia questione in tante questioncelle parziali, di facile soluzione…Il concetto è chiaro: sezionando il problema in tanti piccoli, facili, elementari quesiti, per avere una risposta sicura a un qualsiasi] interrogativo, basterà rispondere alle varie domandine. 

 

In pratica la cosa è ancora più semplice perché l’interessato si limita a tracciare una crocetta a fianco della risposta già stampata nel test. Poi, tenendo presente che ogni risposta di serie A vale 1, ogni risposta di serie B vale 2 e ogni risposta di serie C vale 3, si passa a fare la somma…

 

Sono un guidatore d’automobile buono, mediocre o pessimo? Sono estroverso o introverso? Il mestiere che faccio è quello giusto? Ho fiducia in una giustizia superiore? Ecc. ecc.

 

Gli americani hanno pensato a tutto e, per ogni dubbio, per ogni incertezza, per ogni nobile desiderio d’approfondire la conoscenza di se stessi, c’è un test, risolto il quale non possono più sussistere dubbi e incertezze».

 

Oggi la docimologia della crocetta si è impadronita a pieno titolo della scuola e dell’università (che va a crocette) e così gli studenti vengono valutati, ma vengono anche schedati e incanalati sempre più precocemente nell’imbuto di una carriera decisa in base a ciò che stabiliscono i responsi degli oracoli algoritmici, quelli che leggono crocette e predicono futuri, e predicendoli li condizionano, li predeterminano: INVALSI è precisamente questa roba qua: è la nuova Pizia che, dal suo impenetrabile onfalòs, predice i destini e preimposta le vite, in modo incontrollabile e insindacabile da parte umana. E così ingabbia ciascuno, fin da piccolo, nella propria stia.

 

Eppure, in un mondo sensato, la scuola sarebbe una cosa così facile, persino banale, da realizzare, se solo ci fosse la volontà e non prevalessero interessi egemonici alieni. 

 

Alla scuola spetta l’esclusiva di un compito specifico e indispensabile in una compagine sociale, un compito che altrimenti nessun altro fa: quello di alfabetizzare (è infatti attraverso il segno che l’uomo lascia traccia, fissa il suo messaggio e lo tramanda), e di trasmettere la conoscenza (con particolare riguardo agli invarianti, alle conoscenze che hanno resistito alla prova del tempo); di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono strumenti di comprensione della realtà. 

 

E lo dovrebbe fare stando al riparo dai venti delle mode, dal magma della attualità e delle suggestioni mediatiche, dai flussi emotivi e dagli slogan corrivi della propaganda; ripartendo dalle radici del linguaggio e della scrittura (dal segno), ineludibili chiavi di accesso all’imponente deposito di scienza, arte, letteratura, che – attenzione! – non va ascritto alla categoria del passato sic et simpliciter, ma a quella del durevole, dell’eterno.

 

Il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare è appunto quello di coltivare il linguaggio affinché tutti siano in grado di esprimersi, di ascoltare e di comprendere gli altri e così uscire dal proprio guscio autoreferenziale, superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente attraverso la conoscenza delle leggi che la regolano.

 

È solo così che la scuola può essere davvero vivaio e palestra di libertà, e restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prenderne le misure – vale a dire l’altezza, la profondità, la distanza: dimensioni dimenticate, insieme alla memoria – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. 

 

In una scuola che tornasse a essere scuola, l’opera di Guareschi sarebbe una straordinaria antologia, perché vi si ritrova l’uso magistrale della parola vera, mai adulterata o corrotta: della parola nel suo nitore sorgivo. Che è il contrario esatto della barbarie degli slogan. 

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Giorgio Agamben, rara avis in una accademia agonizzante e gregaria, fin dalle primissime battute del fenomeno pandemico ha saputo leggere gli accadimenti in controluce con grande lucidità e rigore giuridico (e infatti è stato subito isolato come fosse un appestato). Ha scritto una serie di brevi commenti di rara bellezza. Tra gli altri, Virgole e fiamme (giugno 2023).

 

«A un amico che gli parlava del bombardamento di Shangay da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: “So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangay non sarebbe bruciata”. Come sempre, lo scherzo nasconde qui una verità che vale la pena di ricordare. Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, tutti i popoli, come Scholem diceva per Israele, camminano oggi ciechi e sordi sull’abisso della loro lingua ed è possibile che questa lingua tradita si stia in qualche modo vendicando e che la vendetta sia tanto più spietata quanto più gli uomini l’hanno guastata e negletta. Ci rendiamo tutti più o meno lucidamente conto che la nostra lingua, [impoverita e devastata] si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà, fino al punto di non rendersi più conto di star mentendo. La verità di cui qui parliamo non è solo la corrispondenza tra discorso e fatti, ma, ancor prima di questa, la memoria dell’apostrofe che il linguaggio rivolge al bambino che proferisce commosso le sue prime parole. Uomini che hanno smarrito ogni ricordo di questo sommesso, esigente, amoroso richiamo sono letteralmente capaci, come abbiamo visto in questi ultimi anni, di qualsiasi scelleratezza. Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo tra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci».

 

Mondopiccolo – inteso qui in senso lato, cioè non solo «quella fettaccia di terra che sta tra il fiume e il monte», ma un po’ tutto il mondo creato dalla penna di Guareschi, quel mondo nel quale le storie zampillano così, in natura (non sono altro – ci dice l’autore – che «fatti di cronaca inventati che alla fine riescono molto più verosimili di quelli veri» o, altrove, «gesta che sanno di omerico e di fanciullesco insieme»), è un piccolo mondo a misura di bambino, che però contiene in sé, e custodisce, il respiro dell’universale. Dove ogni cosa è messa al suo posto e, se non lo era, alla fine ci torna. 

 

Questo mondo è costruito con persone vere, animali veri, cose vere che un bambino è in grado di vedere coi suoi occhi fin dentro la loro anima: perché anche i cani (Amleto, Gringo, Ful), anche i fiumi e le campane in quel mondo hanno un’anima; ed è raccontato con parole che un bambino è in grado di capire al volo, senza bisogno di un traduttore.

 

Questo mondo un bambino, un ragazzino, lo manda giù dritto. E lo trattiene inciso nella sua memoria immunitaria. Anche quando commuove – e succede molto spesso proprio perché tocca le corde più profonde – mai induce alla tristezza, men che meno alla disperazione. Semmai, fa sentire più vicino il cielo, lo fa scendere alla nostra altezza. Persino la drammatica esperienza concentrazionaria, su cui tanti hanno scritto tante pagine cupe, viene resa in una chiave nuova perché piena di speranza.

 

In Diario Clandestino, dedicato «ai miei compagni che non tornarono», Guareschi racconta come, rimasto solo «con le cose che avevo dentro», ha scavato e scavato fino a che è riuscito a «ritrovare un prezioso amico: me stesso». Il traguardo di una vita.

 

Le opere di Guareschi hanno gli ingredienti giusti per essere un buon cibo per tutte le età, capace di rilasciare per ogni età i nutrienti più adatti. Ma se si ha la fortuna di entrare in contatto con lui da bambini, gli si diventa amici e poi vi si ritrova una casa per il resto della vita, quando si ha voglia o bisogno di respirare profumo di pulito. 

 

Rilascia ricordi, rilascia archetipi. Le battute penetrano nel lessico famigliare. Ma soprattutto, lì dentro si respira la fede, quella che cova dentro il cuore, per un Dio creatore e padre che governa le cose e alla fine in qualche modo le mette tutto al loro posto. Al tempo stesso, alla scuola di Guareschi, uno non può venire su bigotto o clericale, il che è una garanzia oggettivamente impagabile.

 

Il messaggio straordinario lasciato ai posteri da Guareschi sta infatti condensato in quel passo di «Don Camillo e don Chichì» in cui don Camillo, angustiato per il mondo che corre rapido verso la propria autodistruzione e per l’uomo che sta dissipando il patrimonio spirituale che in migliaia di anni aveva accumulato, chiede al Cristo cosa noi possiamo fare. E il Cristo, sorridendo (e anche quel sorriso ha il suo perché, perché conforta, e ci fa capire che non ha proprio senso agitarsi tanto, ma bisogna concentrarsi sull’essenziale e affidarsi a chi può buttare tutto all’aria muovendo «l’ultima falange del mignolo della mano sinistra»), gli spiega che ciò che dobbiamo fare è una cosa soltanto, ovvero «ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme».

 

Perché «quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza…». (…)

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Militaria

I bambini «devono essere preparati alla guerra»: parla il ministro dell’Istruzione tedesco

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I bambini tedeschi dovrebbero essere costretti a prepararsi alla guerra per aumentare la «resilienza», ha dichiarato sabato il ministro dell’Istruzione Bettina Stark-Watzinger.   In questo nuovo, incontrovertibile segno della rimilitarizzazione in corso nel grande Paese europeo, il ministro germanico, membro del Partito Liberale Democratico (FDP) che fa parte del governo ampel («semaforo») del cancelliere Olao Scholz, ha dichiarato che ai bambini dovrebbe essere insegnato cosa fare in caso di conflitto e ha suggerito di introdurre esercitazioni di «difesa civile» nelle scuole in modo che i giovani siano preparati per gli anni a venire.   «La società nel suo insieme deve prepararsi bene alle crisi, dalla pandemia ai disastri naturali fino alla guerra. La protezione civile è estremamente importante e appartiene anche alle scuole. L’obiettivo deve essere quello di rafforzare la nostra resilienza», ha dichiarato la Stark-Watzinger in un’intervista alla testata tedesca Funke.

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Il ministro scholziano ha quindi domandato che venga favorita una «relazione rilassata» tra gli scolari e le forze armate tedesche (Bundeswehr), suggerendo che gli ufficiali militari dovrebbero visitare le scuole per spiegare cosa «fa la Bundeswehr per la nostra sicurezza».   La settimana scorsa il presidente dell’Associazione degli insegnanti tedeschi, Stefan Dull, ha dichiarato alla Bild che la proposta del ministro «ha senso».   «Mi aspetto che il ministro federale cerchi ora un dialogo con i ministri dell’istruzione dei Länder federali», ha affermato, aggiungendo che «una dichiarazione di intenti non è sufficiente: ora le lezioni di politica devono insegnare sulla guerra in Ucraina e sullo scenario paneuropeo, anche una situazione di minaccia globale».   L’iniziativa di Stark-Watzinger riflette la politica del governo tedesco volta a rendere il Paese «pronto alla guerra» di fronte a un potenziale conflitto Russia-NATO, che potrebbe verificarsi entro pochi anni, secondo alti funzionari della difesa tedeschi.   A febbraio, il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha affermato in un’intervista a Bloomberg che la Russia potrebbe attaccare la NATO «tra cinque o otto anni». Anche il capo della difesa tedesco, generale Carsten Breuer, aveva sottolineato l’importanza «fondamentale» di preparare l’esercito del Paese entro i prossimi cinque anni. «Chiamiamo questo Kriegstuchtigkeit – essere pronti, capaci e disposti a combattere. Siamo sulla strada giusta», ha dichiarato.   Il progetto dello Stato tedesco non è dissimile da quanto visto in Ucraina, con bambini di tutte le età coinvolti a scuola in attività di preparazione militare. Le immagini, circolate qualche mese fa, suscitarono una piccola fiammata di inquietudine, per poi spegnersi subito – come ogni dissonanza cognitiva proveniente da Kiev.  

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Con la mossa di coinvolgere i bambini nella guerra in partenza la rimilitarizzazione della Germania – uno dei fattori per evitare il quale, in teoria, era stata creata la NATO – è oramai non solo un fatto certo, ma un qualcosa di impudico e parossistico.   Come riportato da Renovatio 21, l’euro deputata socialista tedesca Katarina Barley è arrivata a suggerire che l’UE potrebbe doversi dotare di armi atomiche.   I giornali tedeschi riportano sempre più spesso di scenari di guerra Russia-NATO che trapelano di vertici militari, con documenti che parlano di Terza Guerra Mondiale. Impressionante anche l’audio, pubblicato in Russia e non smentito dai tedeschi, dove generali germanici discutono della distruzione del ponte di Crimea.   Nel 2022 Germania ha cambiato la Grundgesetz, la Costituzione tedesca, per potere allocare più danaro alle forze armate.   Come riportato da Renovatio 21, la Germania sta tentando in modo evidente una materiale rimilitarizzazione (fenomeno per evitare il quale, si diceva, era stata creata la NATO) con espansione in Paesi chiave come la Lituania e investimenti in munizioni (22 miliardi entro il 2031), nonostante i problemi di reclutamento e i malumori delle truppe.   Nel frattempo, la popolazione non sembra affatto pronta per il conflitto con la Russia, che sarebbe il secondo in meno di un secolo, e quello precedente si è concluso per Berlino molto male. Un sondaggio a fine 2023 aveva indicato che solo il 17% dei tedeschi è pronto a difendere il proprio Paese; un sondaggio condotto da Civey per conto della popolare rivista Focus pochi giorni fa aveva mostrato l’imbarazzante dato per cui circa il 30% dei tedeschi non ha alcuna fiducia nella capacità dell’esercito di resistere ad un potenziale avversario, mentre un altro 45% ha «scarsa fiducia» nell’esercito, mentre il 15% è indeciso. Solo il 2% ha affermato che la propria fiducia è «molto alta», mentre l’8% ha affermato che è «piuttosto alta».   Registriamo, ad ogni modo, l’ulteriore evoluzione scolastica, forse in arrivo anche in Italia: nelle aule si è passati per direttissima dal gender alla guerra antirussa.

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Scuola

INVALSI e PNRR: a scuola nasce il mostro tecnocratico-predittivo che segnerà il futuro dei nostri figli

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Il PNRR, che vomita denaro a fiotti, ha inondato di dobloni anche l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione), il quale se ne esce in grande spolvero col trucco rifatto. Beninteso, è sempre il mostro di prima, ma tirato a lustro, e finalmente libero di esibire tutte le perverse potenzialità con cui era stato concepito nel lontano 1999. Perché i tempi, ora, sono maturi.

 

Come per gli altri mille tentacoli dell’apparato – una giungla di sigle cacofoniche che sbucano da ognidove – anche l’evoluzione dell’INVALSI serve l’obiettivo principe di completare il processo di smaterializzazione e disumanizzazione di tutto quanto su questa terra pulsi di vita. E il mondo della scuola è, per sua natura, un concentrato di vita: per questo è urgente intrappolarlo nella prigione ermetica del digitale, neutralizzando tutto il suo contenuto di carne e di spirito.

 

L’INVALSI è uno strumento di valutazione, che opera attraverso la somministrazione di test standardizzati composti da quesiti a risposta chiusa o a risposta aperta univoca.

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Inizialmente ce lo avevano venduto come strumento di valutazione delle scuole, e non degli studenti: l’analisi dei risultati su larga scala avrebbe permesso – ci era detto – di monitorare l’andamento generale del sistema scolastico. Ci avevano altresì venduto le prove come non obbligatorie, e infatti qualcuno le schivava, infastidito da tutte quelle richieste di informazioni su status familiare, titoli di studio e professione dei genitori, numero di locali in casa, numero di auto possedute, di libri, eccetera eccetera. Insomma, con la scusa di valutare le scuole, qualcuno intanto acquisiva una fotografia socio-economica delle famiglie, scattata dai figli.

 

Ci avevano assicurato che, comunque, tutto si svolgeva in regime di totale anonimato, non essendo possibile risalire in nessun modo dai codici alfanumerici all’identità dell’autore della prova.

 

Di fatto, l’INVALSI ha invaso le scuole e, grazie alla carica intimidatoria insita nella sua funzione, si è circondato di un’aura di sacralità, fino a convincere molti docenti a sperperare ore su ore di lezione ad allenare gli sventurati alunni con batterie di test a crocette, invece che insegnare la propria materia. Perché sì, accade anche questo: la didattica tarata sull’INVALSI.

 

Comunque, non tutti se l’erano bevuta. C’era qualcosa che non tornava nel libretto di istruzioni dello strambo marchingegno.

 

E infatti, un po’ alla volta, il mostro è sbocciato, secondo la sua natura. A un certo punto le prove Invalsi sono diventate propedeutiche agli esami di terza media e di maturità, cioè requisito necessario per l’ammissione, cioè obbligatorie. Ma non è finita là. Ora, il decreto legge PNRR stabilisce che i risultati delle prove Invalsi entreranno a fare parte del curriculum dello studente allegato al diploma finale di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio cui si accede tramite la piattaforma Unica. Il mostro si è finalmente trasfigurato.

 

Conviene aprire una breve parentesi per spiegare a grandi linee cos’è UNICA. A proposito di mostri. Ce la presentano come un sublime incrocio tra: una scatola nera (sic!), perché contiene e ricorda tutto ciò che uno studente ha fatto nel suo percorso scolastico; una piazza virtuale, a cui possono avere accesso docenti, famiglie, tutor, orientatori, e chi più ne ha più ne metta; e una bussola, che serve a capire dove andare. O meglio: dove altri vogliono farti andare.

 

UNICA è una piattaforma nella quale vengono raccolti tutti i dati di tutti gli studenti italiani, e che promette di far dialogare gli studenti con le famiglie, il territorio, le imprese, le università, nonché di realizzare i quattro obiettivi fondamentali della scuola 4.0, che sono: orientamento, personalizzazione, digitalizzazione, semplificazione (le quattro parole d’ordine del ministro che sintetizzano la devastazione in programma). INVALSI stesso suggerisce agli studenti di scaricare le certificazioni ottenute in italiano, matematica, inglese, «per arricchire il proprio curriculum o e-portfolio, evidenziare i livelli di competenze raggiunti sui social network o su altre piattaforme professionali, fornire una rappresentazione visiva delle proprie competenze su un sito web»; insomma, per farsi profilare al meglio, anche attraverso un Open Badge (ed ecco spuntare un altro mostro).

 

Dunque, come si diceva, con l’avvento del PNRR i risultati delle prove INVALSI, stabiliti insindacabilmente dagli algoritmi, entreranno a fare parte del curriculum dello studente contenuto nell’E-Portfolio che sta nella piattaforma Unica. Cioè, il curriculum si arricchirà di una specifica sezione dedicata ai livelli di apprendimento raggiunti nelle prove Invalsi per ciascuna disciplina.

 

L’inserimento dei risultati INVALSI nel curriculum dello studente consentirebbe – così ci è detto – oltre al riconoscimento delle competenze acquisite durante il percorso formativo, anche la valorizzazione delle eccellenze, ovvero di «premiare gli studenti che si sono distinti nelle diverse discipline, offrendo loro un vantaggio in vista di future attività formative e lavorative».

 

Dal che risulta evidente come, nella mens del legislatore, i dati raccolti e immortalati nel profilo virtuale dello studente lungo il corso della sua storia personale sono tali da condizionarne le opportunità future. Vale a dire che sono in grado di rappresentare, nel bene e nel male, uno stigma indelebile.

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Ciò significa che, all’esito di una specifica prestazione, localizzata nel tempo e nello spazio, viene ricondotta la etichettatura definitiva di un soggetto in via di formazione: l’etichetta scolpita nella memoria delle banche dati gli resterà appiccicata addosso, facendo strame del suo potenziale di crescita e di maturazione, delle metamorfosi imprevedibili, delle salite e delle discese, delle cadute e dei miracoli che costellano la vita di ogni essere umano, soprattutto se in fase di crescita.

 

Le sorti dell’umano, insomma, le decide in anticipo la macchina valutando delle crocette sulla base di automatismi imponderabili, senza che all’umano sia possibile financo verificare ex post la correttezza del procedimento usato e del risultato ottenuto dalla macchina, e quindi senza alcuna possibilità di ripeterlo e di correggerlo, e nemmeno di ottenerne l’oblio.

 

È evidente dunque che, attraverso il PNRR e la sovrastruttura tecnologica che ad esso è legata, è stato portato a compimento un mastodontico piano di raccolta dati (non solo relativi al rendimento scolastico, ma anche al contesto sociale e culturale di appartenenza) e di schedatura capillare degli studenti italiani affidata integralmente agli algoritmi e affrancata da qualsiasi interferenza umana.

 

Dal 2022, INVALSI ha introdotto un nuovo indicatore individuale per identificare gli studenti in condizione di fragilità, alla cui scuola di appartenenza saranno destinate risorse aggiuntive per attuare didattiche differenziate.

 

Si tratta di un bollino assegnato sempre algoritmicamente in base ai risultati dei test standardizzati, il quale, certificando il rischio di dispersione implicita o abbandono scolastico, permetterebbe di predisporre precocemente misure ad hoc, non si sa bene di che tipo. Ne ha scritto diffusamente Rossella Latempa su Roarsquiqui e qui, e a lei si rimanda per un’analisi più approfondita del tema.

 

È chiaro che INVALSI, in questo modo, assume una funzione non più solo valutativa, ma anche predittiva, intestandosi un’operazione di schedatura di massa degli studenti supposti fragili. Lo ha confermato il suo presidente Roberto Ricci, nel maldestro tentativo di negare tutto: «Nessuna certificazione, nessuna etichettatura. L’idea è proprio quella di fornire indicatori che probabilisticamente individuano dei fragili. Come dire: se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi, e mi controllerò per prevenirli. Un’altra lettura delle cose favorisce l’oscurantismo». Commento che si commenta da solo.

 

Egli poi, sempre tentando di negarlo, ammette anche che i codici identificativi consentono di associare il valore dell’indicatore di fragilità alla scheda personale di ogni studente; e che il bollino viene loro appiccicato a totale insaputa delle famiglie. Un capolavoro assoluto di trasparenza e di democrazia, non c’è che dire.

 

Tutta la procedura si dispiega al riparo da ogni controllo esterno; non è contestabile né riproducibile; sono ignoti i criteri utilizzati per segnare la soglia di fragilità, tutto è secretato. I risultati, come dice Latempa, vanno accettati come puro atto di fede. Ipse (dove ipse è INVALSI) dixit.

 

Le parole della stessa Autorità Garante per la protezione dei dati personali (in un recente dibattito dal titolo: «Intelligenza artificiale: come proteggere i dati e come utilizzarli per la dispersione scolastica?») rendono ragione della gravità di questo potenziamento dell’INVALSI con la ridefinizione dei test in senso predittivo. Di seguito alcuni stralci del suo discorso, riportati qui.

 

«Quando uniamo IA e dati la miscela diventa esplosiva. I dati sono di fatto proiezioni, frammenti dell’identità di una persona. Messi insieme rappresentano la persona. Il chi siamo nella dimensione digitale». E ancora: «In una stagione in cui il tecnologicamente impossibile non esiste più e il tecnologicamente possibile è tutto, se cedo all’idea che quello che è tecnologicamente possibile e legittimo è democraticamente sostenibile, il risultato finale (…) è che il governo diventa della tecnologia. La tecnocrazia travolge la democrazia perché la vera regola la fissa la soluzione tecnologica (…) Rischiamo di consegnarci mani e piedi agli algoritmi e alla tecnologia (…) che esce dai laboratori di ricerca ormai sempre più nelle mani dei privati e quindi è sviluppata nel loro legittimo interesse».

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Il Garante ha fatto anche un esempio delle aberrazioni cui questo sistema può condurre:

 

«Pensiamo all’accesso abusivo a quell’informazione con il dato di Paolo Rossi, che per colpa di un algoritmo che ha messo in fila in maniera non corretta dei fattori si ritrova classificato come a rischio dispersione, poi quando quello proverà ad entrare in un’Università X o Y che cerca solo quelli bravi resterà fuori dalla porta; o quando ci sarà qualcuno che dovrà selezionarlo per un lavoro e avrà accesso ai dati dirà ma era addirittura “a rischio dispersione”». È solo un esempio, e nemmeno il più grave, nel panopticon che ci aspetta.

 

Per concludere. Attraverso una valutazione standardizzata che fuoriesce completamente dal controllo umano si pretende non soltanto di fotografare il presente, in termini di livello di apprendimento dello studente, ma anche di prevedere statisticamente i futuri possibili e di intervenire per modificarli; si pretende, tecnicamente, di influenzare il futuro ingabbiando le vite in fiore dentro una prigione informatica dalla quale diventa impossibile evadere.

 

Come dice Rossella Latempa, «L’effetto immediato è quello di rendere presenti quei futuri selezionati come più probabili, non solo attraverso la classificazione individuale, la cui traccia sociale è imprevedibile, ma soprattutto per mezzo della catena di interventi attivati (progetti di potenziamento didattico, recupero…)». In sostanza, dice sempre Latempa: «la valutazione automatizzata è un processo performativo, cioè coinvolto nella creazione della realtà che pretende di rappresentare. Il potere auto-rappresentante di una classificazione come quella di fragilità emessa dall’INVALSI non è paragonabile al giudizio umano di un insegnante, negoziabile e revisionabile. Automatizzare le valutazioni significa naturalizzare le disuguaglianze e rafforzarle».

 

Nell’incommensurabilità tra il giudizio umano, che implica una relazione interpersonale in divenire, e la tassonomia computerizzata, che sigilla una prestazione in un dato indelebile, risiede il nucleo di questa perversione.

 

Insomma, la mole imponente di dati raccolti dall’INVALSI per ciascuno studente lungo tutto il corso della sua carriera scolastica alimenta un database da cui trarre informazioni personali e premonizioni oracolari. In pratica, un mostro cibernetico inafferrabile – programmato e reso onnipotente da frotte di poveri nerd inconsapevoli – traccia e pilota le biografie dei nostri figli, obbligati a viaggiare per la vita ciascuno con la propria scatola nera cucita addosso. Non per nulla li chiamano «capitale umano».

 

Non bisogna dimenticare, a margine, la contestuale stretta sul cosiddetto «orientamento», il quale – sempre grazie al decreto PNRR – si avvia a grandi passi a diventare vincolante, ovvero sottratto alla volontà della famiglia (nel sito del MIM si legge: «si valorizza il consiglio di orientamento, rilasciato dalle istituzioni scolastiche agli alunni della classe terza della Scuola secondaria di I grado, demandando a un decreto del Ministro l’adozione di un modello unico nazionale di consiglio di orientamento, da integrare nell’E-Portfolio». Se ne parla più diffusamente qui).

 

Ecco a voi le meraviglie del progresso. Chi in questi anni avvertiva qualche disagio nel prestare la prole ai rilevamenti statistici richiesti per il miglioramento della scuola, della specie, dell’ecosistema, del pianeta; chi magari pensava addirittura che l’INVALSI, in realtà, fosse una polpetta avvelenata a lento rilascio, beh, ora sa che aveva ragione.

 

Stavano preparando il pasto perpetuo per il gigantesco Minotauro tecnocratico. Aspettiamo Teseo.

 

Elisabetta Frezza

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