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Gender

La marcia Drag canta: «stiamo a venendo a prendere i vostri figli»

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A New York, capitale dell’orgoglio LGBT – la città dove è partita la rivendicazione omosessualista dopo la rivolta violenta dello Stonewall Inn – stanno andando in scena gli ultimi eventi del giugno del Pride, 30 giorni di festa LGBT: perché non si sono accontentati di una festività di un giorno, ma si sono presi un intero mese.

 

I partecipanti di un evento dello scorso sabato hanno sfilato attraverso il Tompkins Square Park nell’East Village.

 

Qui, secondo il New York Post e alcuni video circolanti online, l’usuale folla variopinta (tra cui, una donna, non bellissima, in topless) ha scandito un canto piuttosto inquietante: «We’re here, we’re queer, we’re coming for your children».
«Siamo qui, siamo queer, stiamo venendo a prendere i vostri figli».

 

 

«Queer» è un termine ombrello caro agli LGBT con cui in inglese si può tradurre, secondo il dizionario online Wordreference, «omosessuale», «frocio», «finocchio», «culattone», «gay», «non eterosessuale». È un termine offensivo, pare di capire, o forse no.

 

Di fatto, al di là dell’autodefinizione che dà di se stessa, l’orda arcobaleno ha irritato varie figure conservatrici per questa cosa dell’andare a prendere i figli della gente.

 

«Questo movimento spinge i minori a sottoporsi a mastectomie e castrazione e alimenta un’industria di abusi sui minori medici da molti miliardi di dollari», ha twittato l’indomita deputata ultratrumpiana della Georgia Marjorie Taylor Greene.

 

 

«Ricordate quella cosa che hanno detto che non stanno assolutamente facendo?» ha twittato Jenna Ellis, che per breve tempo è stata membro del team legale dell’ex presidente Donald Trump.

 

«Questo è l’aspetto del MALE…» ha scritto il podcaster conservatore Graham Allen.

 

 

Tra la folla dei partecipanti, era poi visibile un cartello: «Groom Cissies».

 

«Groom» è un verbo difficile da tradurre in italiano: significa «preparare», «curare» qualcuno per qualcosa, o anche «adescare». È un termine usato dalle persone critiche della deriva LGBT, che accusano i grandi media e la cultura moderna di essere «child groomer», «preparatori di bambini».

 

«Cissies» sta invece per cisgender, è la parola che definisce, forse un po’ spregiativamente, gli eterosessuali (Elon Musk la vuole bandire da Twitter).

 

Avete quindi capito cosa può voler dire: «Groom cissies». Così come il cartello a fianco: «Drag is’t for Cissies», «il drag non è per gli etero»

 

 

Non si trattava di un evento qualsiasi, ma di una ricorrenza che va avanti da diversi anni, che riguarda la comunità «drag», termine che nel gergo LGBT si riferisce all’esibizione di esagerata femminilità, mascolinità o altre forme di espressione di genere, solitamente per scopi di intrattenimento. Una drag queen è un uomo che si esibisce fingendo di essere femmina fino al parossismo; un drag king è una donna che si esibisce fingendo di essere una figura mascolina.

 

Come noto, le drag queen sono al centro di battaglie scolastiche negli USA, in quanto i loro show, spesso di volgarità immane, sono impartiti a bambini, perfino piccoli, perfino a scuola.

 

L’evento in questione è chiamato «New York City Drag March», una marcia annuale di protesta e visibilità per il drag che si svolge a giugno, il tradizionale mese dell’orgoglio LGBTQ nella Grande Mela. L’evento prevede «musica ad alto volume, tanti balli, canti sfacciati… e centinaia di abiti fantastici» scrive l’enciclopedia online, che ha già aggiornato la sua voce ai fatti dell’altro giorno, mettendo un’ultima riga secondo cui «alcuni canti sfacciati durante la marcia del 2023 hanno suscitato critiche da parte dei conservatori».

«Molti utenti online hanno sottolineato che il canto era molto probabilmente uno scherzo in risposta alle accuse di pedofilia che da destra arrivano alla comunità drag» scrive il New York Post.

 

Sarà, ma non è la prima volta che succede – nel senso, è un concetto messo in musica e in versi varie altre volte.

 

Qualcuno ricorderà, due anni fa – e sempre a giugno – lo scandalo intorno al San Francisco Gay Men’s Chorus, un coro di omosessuali della città californiana capitale morale dell’universo LGBT.

 

Il pezzo, che è uscito come un video-mosaico con decine di persone che si aggiungevano nel canto, si intitolava «Message From the Gay Community» («messaggio dalla comunità gay»).

 

Il video inizia con un cantante che introduce la melodia dicendo: «Mentre celebriamo l’orgoglio [«pride», ndr] e i progressi che abbiamo fatto negli ultimi anni, c’è ancora del lavoro da fare. Quindi a quelli di voi là fuori che stanno ancora lavorando contro la parità di diritti, abbiamo un messaggio per voi».

 

Il testo:

 

Per quelli di voi là fuori che ancora si oppongono a uguali diritti, abbiamo un messaggio per voi:

 

Pensate che spariremo presto, lottate contro i nostri diritti

Dite che tutti conduciamo vite che non potete rispettare, ma siete solo spaventati.

Pensi che corromperemo i tuoi figli se la nostra agenda non viene controllata.

 

Buffo, solo per questa volta, hai ragione.

 

Convertiremo i tuoi figli,

Succede a poco a poco,

In modo silenzioso e sottile e te ne accorgerai appena.

 

Stiamo venendo a prenderli.

Veniamo per i tuoi figli.

Stiamo venendo a prenderli.

Veniamo per i tuoi figli.

 

 

 

Il paroliere della canzone – oramai conosciuta universalmente come «We’ll convert your children, we’re coming for them» («Convertiremo i vostri figli, stiamo venendo a prenderli») – ha assicurato su Twitter che si trattava di una parodia, di satira.

 

Lo scandalo si aggravò quando il sito Western Journal scrisse che «alcuni dei membri di un coro di uomini gay che hanno pubblicato il  controverso video virale in cui i cantanti hanno promesso di “corrompere i tuoi figli” e “convertire i tuoi figli” sembrerebbero essere dei condannati per pedofilia».

 

«Usando la  Wayback Machine , il Western Journal ha ottenuto l’elenco apparentemente cancellato dei membri del coro e ha incrociato quei nomi con un database di autori di reati sessuali registrati in California».

 

«Mentre alcuni nomi potrebbero essere una coincidenza – alcuni trasgressori potrebbero essere omonimi dei membri del coro – il Western Journal ha portato alla luce almeno quattro partite credibili».

 

Uno di essi potrebbe essere stato condannato per «atti osceni o lascivi con un bambino di età inferiore ai 14 anni» nel 1985, sostiene il sito. Un altro nome ha ricevuto una identica condanna per «atti osceni o lascivi con un bambino di età inferiore ai 14 anni» nel 2001.

 

«L’elenco dei cori e il consiglio di amministrazione del San Francisco Gay Men’s Chorus sono stati apparentemente rimossi dal sito web del gruppo nel periodo in cui queste rivelazioni sono diventate pubbliche» scrive il Western Journal.

 

Tuttavia nemmeno questo episodio è il primo di questo genere.

 

Nel febbraio 1987, comparve sulla testata americana Gay Community News un testo (che non sarebbe sbagliato etichettare come un vero hate speech eterofobo, ma per quello la legge non c’è e non ci sarà mai) intitolato Gay ManifestoLo firmava un certo Michael Swift, che alcuni credono fosse solo uno pseudonimo.

 

L’incipit di tale «Manifesto omosessuale» recitava:

 

«Sodomizzeremo i vostri figli, emblema della vostra debole mascolinità, dei vostri sogni superficiali e delle bugie volgari. Li sedurremo nelle vostre scuole, nei vostri dormitori, nelle vostre palestre, nei vostri spogliatoi, nei vostri palazzetti dello sport, nei vostri seminari, nei vostri gruppi giovanili, nei bagni dei vostri cinema, nei vostri dormitori dell’esercito, nelle vostre fermate dei camion, nei vostri club per soli machi, nelle vostre Camere dei Deputati, ovunque gli uomini stiano assieme agli uomini. I vostri figli diventeranno i nostri servi e obbediranno ai nostri ordini. Saranno riplasmati a nostra immagine. Verranno a desiderarci e ad adorarci».

 

Anche qui, qualcuno ha subito detto che si trattava solo di uno scherzo, una parodia, non c’era da credere a quelle parole. Satira. Eccerto. Epperò, chissà perché, non ci viene molto da ridere.

 

Scherzi o non scherzi, è ora qualcuno che lo spieghi: si è passati dalla Cirinnà con le unioni civili omofile – cioè, il matrimonio gay: catto-conservatori, mettetevela via, è quello – dove l’argomento era «chette frega se sposo chi voglio io? Lasciami libero e fatti gli affari tuoi» alle proteste anche violente per castrare, mutilare e riempire di steroidi (trattamento di cui, come peraltro medicamenti popolari in questi anni, non si ha alcuna idea del lungo termine) e di ormoni che bloccano lo sviluppo sessuale naturale (gli stessi farmaci che danno a pedofili e stupratori per la castrazione chimica), mentre gli studenti delle elementari vanno a scuola dalle drag queen e nelle marce si canta «stiamo venendo a prendere i nostri figli», e i transgender cominciano ad armarsi e sparare pure ai bambini in classe – oltre che, chissà perché, fucilare alle vetrate delle chiese che raffigurano Adamo.

 

Già. Come si è passati da «Love is Love» a queste storie allucinanti?

 

Adesso non abbiamo voglia di scriverne. Epperò una vocina, maliziosa ed inaccettabile – ma qui come lì, è satira, è detto per ischerzo – ci sussurra che bisognerebbe unire certi puntini, ad esempio nell’Africa di questi giorni.

 

A poche ore dal varo della legge anti-LGBT in Uganda, 54 soldati ugandesi di una forza di pace di stanza in Somalia vengono trucidati dai terroristi jihadisti al Shabaab.

 

Passa forse una settimana, e in Uganda si fa vivo un gruppo terrorista, l’ADF, che non aveva mosso attacchi dal 1998. Ora l’ADF spunta dal niente e, sedicente affiliato all’ISIS, massacra un’altra quarantina di persone, con il dormitorio di una scuola che viene dato alle fiamme.

 

Sono curiose coincidenze, che ci colpiscono solo perché in questi giorni, per la storia dell’omosessualità illegalizzata definitivamente, tanto si è parlato dell’Uganda.

 

Nel frattempo, gli USA avevano già fatto sapere che la posizione dell’Uganda era da condannare, perché, dice il portavoce del Pentagono ammiraglio Kirby in un briefing alla Casa Bianca i diritti LGBT sono «una parte fondamentale della politica estera americana».

 

Si tratta di quello stesso Pentagono, quella stessa Casa Bianca che una diecina di anni fa già aveva in qualche modo collegato il terrorismo islamico con l’imposizione agli africani delle leggi omosessualiste.

 

Nel 2015 l’amministrazione Obama ritirò aiuti finanziari e militari alla Nigeria quando questa si rifiutò di legalizzare contraccezione e omosessualità. Lo riportarono una serie di testate del giro cattolico americano.

 

La Nigeria, all’epoca, si trovava a combattere i terroristi di Boko Haram, che avevano rapito e ammazzato decine di migliaia di persone. Si disse che gli USA obamiani disponessero di immagini satellitari con gli accampamenti di Boko Haram, ma non le condivisero con i nigeriani restii a implementare la deregulation sessuale nella società africana.

 

È una faccenda globale, diciamo. In Africa, come a Nuova York o San Francisco, risuona un unico grande canto: «stiamo venendo a prendere i vostri figli».

 

 

 

 

Immagine screenshot da Twitter

 

 

 

Gender

Stoltenberg promette che la NATO difenderà i «diritti LGBT»

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La NATO difenderà i diritti delle persone LGBTQ, ha dichiarato venerdì il Segretario generale Jens Stoltenberg.

 

È stato tra centinaia di funzionari pubblici, istituzioni e organizzazioni occidentali a rilasciare una dichiarazione a favore della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia (IDAHOBIT).

 

«La NATO esiste per difendere 32 nazioni e il diritto dei nostri popoli a vivere liberamente e in pace», ha scritto lo Stoltenberg su X. «Nella Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, e ogni giorno: tutto l’amore è uguale. Le persone LGBTQ+ meritano rispetto e dignità e sono orgoglioso di definirmi tuo alleato».

 

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La stragrande maggioranza delle risposte ai post di Stoltenberg, riporta RT, è stata tuttavia negativa.

 

«E il rapporto tra un’alleanza militare di mutua difesa e i diritti di alcune minoranze è…?» si è chiesto un utente X. Altri hanno parlato delle guerre offensive del blocco contro la Jugoslavia (1999) e la Libia (2011), e del fatto che ha trascorso 20 anni in Afghanistan aiutando gli Stati Uniti a «sostituire i talebani con i talebani».

«Mi avete semplicemente fatto sostenere un po’ di più la Russia», si legge in un’altra risposta, mentre qualcun altro si chiedeva se i russi fossero riusciti in qualche modo ad hackerare l’account di Stoltenberg.

 

Un altro utente di social media lo ha accusato di «dipingere in modo rosa i crimini di guerra e il guerrafondaio», usando un termine che descrive individui o organizzazioni che abbracciano l’agenda LGBTQ per distogliere l’attenzione dal loro cattivo comportamento.

 

IDAHOBIT è stato concepito nel 2004 da un attivista gay francese. Organizzazioni come l’Associazione Internazionale Lesbiche, Gay, Bisessuali, Trans e Intersessuali (ILGA), la Commissione Internazionale per i Diritti Umani di Gay e Lesbiche (IGLHRC), il Congresso Mondiale degli Ebrei LGBT e la Coalizione delle Lesbiche Africane hanno approvato il progetto, portando a la prima celebrazione nel 2005.

 

Come data è stata scelta il 17 maggio, per commemorare la rimozione dell’omosessualità dalla classificazione internazionale delle malattie da parte dell’OMS nel 1990.

 

Al nome è stato aggiunto «transfobia» nel 2009, seguito da «bifobia» – che dovrebbe significare la repulsione per i bisessuali, fenomeno che, un po’ come la bisessualità organizzata in genere, non sapevamo esistere – nel 2015, dando vita all’acronimo nella sua forma attuale.

 

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Gender

Il Perù classifica i transgender come «malati di mente»

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Il governo peruviano ha ufficialmente classificato le persone transgender e intersessuali come «malate di mente», cosa che secondo il ministero della sanità è l’unico modo in cui i servizi sanitari pubblici del Perù possono garantire «la copertura completa delle cure mediche per la salute mentale». Lo riporta il giornale britannico Telegraph.   Le condizioni ora riconosciute come disturbi di salute mentale includono il transessualismo, il travestitismo a doppio ruolo, il disturbo dell’identità di genere nell’infanzia, altri disturbi dell’identità di genere, il travestitismo feticista e l’orientamento sessuale egodistonico.   La classificazione è teoricamente in linea con il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), che classifica la «disforia di genere» come un disturbo mentale.   Il decreto del Perù fa seguito alla pubblicazione della decima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD) da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.   «Dall’esame delle diagnosi ICD-10 incluse nel Piano di assicurazione sanitaria essenziale, relative alla condizione di persona con un problema di salute mentale, è stata identificata l’omissione di sette (07) diagnosi ICD-10», hanno scritto i funzionari. «In questo senso, è necessario modificare il Piano di assicurazione sanitaria essenziale incorporando sette (07) diagnosi ICD-10».

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Il Ministero della Sanità (MINSA) ha successivamente rilasciato una dichiarazione in cui afferma che questi individui non dovrebbero necessariamente sottoporsi a «terapie di riconversione».   L’influencer transgender Dylan Mulvaney, noto per una serie di pubblicità per marchi come Nike e Bud Light – con quest’ultima a subire come conseguenza un collasso delle vendite – era fuggito in Perù «per sentirsi al sicuro» sulla scia del boicottaggio nazionale della birra. Finora non ha rilasciato dichiarazioni.   L’Associazione degli Psichiatri Americana (APA) che pubblica il prestigioso DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nel 1973 aveva, dietro pressioni enormi da parte di attivisti e lobby, rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Prima di allora l’omosessualità era considerata una deviazione sessuale, cioè una patologia.   Nel 1973 fu quindi introdotta la distinzione tra omosessualità ego-distonica e omosessualità ego-sintonica – a seconda di come la propria inclinazione sia percepita dal soggetto, se con disagio o meno – e soltanto la prima rimane catalogata come devianza, per essere poi nell’80 derubricata a «disturbo dell’orientamento sessuale», e infine nell’87 diventare anch’essa una mera «forma del comportamento sessuale», cioè una normale variante della sessualità umana.   Il transessualismo sta seguendo, anche in termini medici, il medesimo tracciato di normalizzazione: con la differenza che l’affermazione della medicina transessuale comporta giocoforza trattamenti con ormoni sintetici ed operazioni chirurgiche di castrazione, mutilazione, etc.

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Immagine di Yssa Olivencia via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International 
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Arte

Attrici giapponesi che si vestono da uomini bullizzano collega fino a spingerla al suicidio

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Dal Giappone arriva l’eco di un episodio di bullismo e violenza sistematica sfociati in un suicidio all’interno di una struttura esclusivamente femminile. Una sorta di suicidio femminicida, ma ad opera di femmine.

 

Teatro della vicenda è per il corpo teatrale Takarazuka, un’istituzione più che secolare nel mondo dello spettacolo giapponese. Il concetto alla base del corpo teatrale è che sono soltanto attrici a salire in scena, interpretando anche i ruoli maschili. Tale idea, di per sé spiazzante, inverte completamente la tradizione del teatro tradizionale Kabuki, dove sono gli attori maschi a ricoprire tutti i ruoli.

 

Gli spettacoli del Takarazuka sono tuttavia distanti anni luce dal rigido formalismo del Kabuki: qui si tratta di musical che attingono dalle fonti più disparate, da West Side Story all’Evgenij Onegin, spesso spingendo a tavoletta su elementi che qualche anno fa si definivano camp o kitsch, in italiano lo si potrebbe semplicemente chiamare «pacchianeria», benché estremamente professionale e ben fatta.

 

 

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Il seguito che hanno questi spettacoli nel contesto nipponico è impressionante, ancora di più perché per la grandissima maggioranza femminile: lo scrivente ricorda di essersi imbattuto in una lunghissima coda in attesa di entrare nel teatro di Tokyo – in zona centralissima, vicino al palazzo imperiale – dove si esibisce la compagnia. Si poteva constatare che gli uomini tra la folla erano appena una manciata.

 

Un ambiente quindi quasi completamente femminile, al sicuro da patriarcato e maschilismo tossico.

 

E allora, come si spiegano allora vessazioni di gruppo, ustioni procurate con le piastre per i capelli, carichi di lavoro insostenibili assegnati al solo scopo di umiliare e di lasciare soltanto tre ore di sonno al giorno? È questa l’ordalia che ha portato la 25enne Aria Kii a gettarsi nel vuoto per porre fine alla sua vita nel settembre del 2023.

 

La vicenda era stata prontamente insabbiata dall’azienda che gestisce la compagnia teatrale ma è stata riportata a galla dall’ineffabile Shuukan Bunshun, testata con una lunga e gloriosa tradizione di caccia agli scheletri negli armadi. Nella primavera di quest’anno i dirigenti dell’azienda in questione hanno pubblicamente ammesso la loro responsabilità nel non essere stati in grado di vigilare adeguatamente l’ambiente lavorativo delle attrici.

 

Duole dire che per la società giapponese uno scenario così è tutto fuorché inconsueto: il proverbio «il chiodo che sporge verrà martellato» illustra ancora con una certa fedeltà le dinamiche sociali che si formano all’interno delle istituzioni giapponesi – siano esse scuole, aziende, partiti.

 

Negli ultimi tempi c’è un evidente cambiamento in atto soprattutto per quanto riguarda il mondo del lavoro, ma il bullismo allo scopo di creare coesione all’interno di un gruppo è una pratica a cui i giapponesi ricorrono abitualmente e che non sembra soffrire di particolare disapprovazione sociale.

 

Dal Giappone ci chiediamo con sincerità come un giornalista italiano – di area woke, ma anche solo attento a seguire i dettami del politicamente corretto elargiti ai corsi di deontologia dell’Ordine – potrebbe riportare la notizia della triste morte di Aria, con lo stuolo di angherie subite in un contesto esclusivamente femminile.

 

Taro Negishi

Corrispondente di Renovatio 21 da Tokyo

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