Connettiti con Renovato 21

Arte

Sopravvivere come Clark Kent

Pubblicato

il

 

 

Scena 1: siete al parco con i bambini. Si avvicina una ragazza che conoscete, madre di una bambina che è sullo scivolo con i vostri figli. In effetti non la vedevate da tempo. La chiacchiera cade sul discorso scuole, e convenite che non vedete l’ora che tutto torni normale. La signora aggiunge un particolare spiazzante: in questo 2020-2021 non ha mandato la bambina a scuola. Radicale, pensate voi, grandissima: homeschooling duro e puro, no compromise. «Eh, questa cosa delle mascherine a scuola», abbozzate ancora cauti. «Sì, infatti – dice la ragazza – il fatto che esistano bambini che non le portano o le portino sotto il naso è intollerabile… In generale, io non la ho mandata a scuola perché si contagia certamente, non mi fido di nessun bambino, neanche con la mascherina». Voi, che avete lottato dai tempi della legge Lorenzin contro la deriva dittatoriale della Sanità, partecipando a manifestazioni, conferenze, leggendo articoli e libri, animando chat su ogni possibile app russa e americana, creando siti, voi, davvero, cosa volete rispondere? La signora non ne sa nulla ovviamente, non lo può immaginare, non sa chi siete veramente – e non sa cosa sta dicendo. Davvero: come reagire?

 

La nostra esistenza è diventata la risalita di un salmone nel fiume ghiacciato del consenso vaccinale (e nazisanitario, e biosecuritario) globale. Ogni altra forma di vita segue la corrente, e non vede l’ora di essere gettata nell’oceano – anche se non ha idea di cosa vi troverà

Scena 2: siete al telefono con un fornitore. L’argomento cade sui vaccini: «appena possono me lo faccio subito», dice il signore, «anche se fosse acqua fresca, anche se fosse qualsiasi cosa», perché «vojo torna’ alla vita de prima»… E giù, a dire del cinema, il ristorante, le vacanze, gli amici. Degluttite. Lo risentite mesi dopo, nel frattempo il vaccino è arrivato. Lui però non lo fa, lo fa la moglie, perché lavora in una di quelle considerate intelligentemente «categorie a rischio», un’insegnante che praticamente non vede nessuno perché in DAD dal 2020. Le capita l’AstraZeneca. Dopo qualche giorno, la signora avverte un dolore alla gamba, ad un certo punto non riesce più a muoverla. Il vostro fornitore è sconvolto «ma com’è possibile?». La moglie fa punture di eparina da giorni, ma i livelli non si abbassano abbastanza. Il rischio che si immaginano costantemente, vi dice il fornitore, è che un trombo le venga al cervello, magari mentre dorme, e «ciao ciao». Vi racconta del calvario personale: in realtà la gente comincia ad evitarla, nessuno dà solidarietà, nessuno se ne vuole occupare veramente, nemmeno, in certi ambienti ne vuole parlare: capisce perfino che il suo caso è diventato un’anomalia che il sistema non può tollerare se vuole continuare a propalare l’idea che «il vaccino è la strada maestra» per uscire dalla «pandemia». Il fornitore vi dice: io, a questo punto non lo farò – ma quale consenso informato. Voi, che avete studiato articoli sulle anomalieincongruenze di quel vaccino già ai tempi in cui i test uscivano sballati perfino sulle scimmie, come decidete di reagire? Cosa gli dite?

 

Scena 3: Avete degli zii eccezionali. Vivono vicino a casa. I vostri figli passano molto tempo da loro, che essendo in pensione non vedono loro di donare parte delle loro giornate a quella che è la parte più rilevante della loro discendenza. Voi amate i vostri zii, e i vostri zii vi amano. Avete condiviso tutto. Essi sanno che avete rifiutato i vaccini ai vostri figli, pagandone il prezzo, già anni fa. Essi sanno del vostro impegno in quest’idea non conforme che è l’antivaccinismo. Anzi, a volte si sono pure fatti convincere: guardando il TG, certe volte, spiegato loro qualche truccato, hanno convenuto: «sì, ci raccontano balle! Quante ce ne raccontano». Poi un bel giorno vi dicono: «ho prenotato il vaccino». Cosa? «Sì, Astrazeneca, me lo fanno il giorno X». Degluttite. Poche ore dopo, l’AstraZeneca viene ritirato. Per qualche ora però, perché poi lo rimettono in circolo. Voi sperate: adesso come possono non capire? Adesso annulleranno l’appuntamento, dai! «No, andiamo lo stesso, ma gli diciamo che l’AstraZenca non lo vogliamo, me ne diano un altro». Il giorno arriva, fanno il Pfizer. Voi che per anni avete segnalato i morti e i menomati da tutti i vaccini, mRNA o meno, COVID o meno, cosa fate? Come reagite? Vi pentite di non aver tirato fuori qualche tabella? Di non avergli inoltrato su Whatsapp qualche articolo in più? Di non averli iscritti al canale Telegram giusto?

Se siete  no-vax o semplicemente persone che sanno osservare la realtà – e magari da anni prima del virus di Wuhan – la vostra vita non può non essere diventata un occultamento continuo della vostra identità

 

Potremmo andare avanti con centinaia di altre scene così, perché capitano più volte al giorno: la somma di esse, in realtà, ora è diventata la nostra vita. L’esistenza è diventata la risalita di un salmone nel fiume ghiacciato del consenso vaccinale (e nazisanitario, e biosecuritario) globale. Ogni altra forma di vita segue la corrente, e non vede l’ora di essere gettata nell’oceano – anche se non ha idea di cosa vi troverà.

 

Se siete semplicemente persone che sanno osservare la realtà, se siete etichettabili come no-vax – e magari da anni prima del virus di Wuhan – la vostra vita non può non essere diventata un occultamento continuo della vostra identità. Volete, davvero, metterla giù dura al vostro datore di lavoro sui problemi dermatologici del continuo uso di amuchina gel? Volete, davvero, provare ad entrare in banca senza mascherina (sì, un tempo lì ci entravano mascherati solo i rapinatori)? Volete, davvero, perdere una grossa fette dei vostri clienti e fornitori? Volete, davvero, litigare con gli amici ad ogni piè sospinto? Volete, davvero, separarvi dalla famiglia più di quanto già non siete stati costretti a fare dalla biodittatura? Volete perdere i vostri affetti? Volete attirare su di voi i rancori e finanche le segnalazioni alle forze dell’ordine del vostro prossimo ora puntualmente stimolato a metamorfosarsi in delatore?

 

«Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana»

Molti risponderanno: sì. Non abbiamo obiezioni a chi risponde così. Il massimalismo non è peccato – praticamente mai, se è dalla parte del Bene.

 

Tuttavia, è dell’altro caso che vogliamo scrivere qui. Il caso in cui le persone come noi si ritrovano a vivere una sorta di doppia vita, di ospitare nella propria esistenza una sorta di doppia personalità obbligata. Come, effettivamente, i supereroi dei fumetti. Quelli che adesso sbancano al cinema con filmoni fracassoni. Ognuno di essi, con poche eccezioni, vive nel segreto la sua vera identità, la sua verità: i suoi stessi poteri, la sua stessa natura sono qualcosa che va celato ad un mondo che non capirebbe.

 

Il supereroe porta una maschera. Lo fa per proteggere se stesso e i suoi cari, e pure per proteggere la sua stessa missione.

 

Noi della resistenza contro il Nuovo Ordine Iatrocratico Mondiale siamo tutti Clark Kent ora. Il problema etico, nella sindrome di Clark Kent, è fino a che punto rimanere camuffati

È in questo momento che ci viene in mente l’immane genio di Quentin Tarantino. Il quale, in un film pazzesco e riuscitissimo – Kill Bill vol. II – metteva in bocca ad un personaggio questo discorso:

 

«L’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Wayne, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana»

 

 

Viviamo per il momento in cui potremo vivere apertamente la nostra natura e le nostre energie, con tutti – come peraltro prevedrebbero tutte quelle Costituzioni e diritti con i quali ci hanno tormentato per decenni

Noi della resistenza contro il Nuovo Ordine Iatrocratico Mondiale siamo tutti Clark Kent ora. Siamo costretti a nascondere la nostra vera natura, siamo coartati a divenire mansueti e persino vigliacchi nelle discussioni e al lavoro. Anche se vediamo attraverso la materia (a parte il piombo), non possiamo dirlo. Anche se conosciamo tanto più che i comuni mortali – per esempio i loschi piani di miliardari perversi come Bill Gates, pardon, Lex Luthor – dobbiamo tenercelo per noi. Anche se siamo orfani di un pianeta esploso, non possiamo raccontarlo a nessuno. E se siamo impenetrabili alle mitragliate (della propaganda massiva), non dobbiamo darlo troppo a vedere.

 

Il problema etico, nella sindrome di Clark Kent, è fino a che punto rimanere camuffati. Ci deve essere un momento in cui dobbiamo intervenire nell’ordine di salvare qualcuno dalla siringa di Lex Luthor. È allora che arriva la dolorosa questione delle cabine telefoniche: sono sparite. Era il luogo in cui Nembo Kid (nome con il quale per qualche ragione Superman arrivò nell’Italia dei nostri padri). Dove cambiarsi, se non nel parallelepipedo a gettoni? E poi, mica siamo fortunati come l’alieno con la mantellina rossa: ci riconoscono subito, non basta togliersi gli occhiali e pettinarsi con il gel, diventa qualcosa di molto specioso, a quel punto ammettiamo che viviamo una doppia vita, dentro di noi albergano due persone diverse, ed essere oppositori del sistema non necessariamente significa essere supereroi, anzi, per i telegiornali siamo i super-villani. Trasformarsi in seduta stante apre sul nostro prossimo ulteriori dissonanze cognitive – come se i cittadini non ne avessero abbastanza.

Viviamo per il momento in cui potremo, senza pensarci troppo, incenerire con lo sguardo le basi e gli eserciti dei cattivoni

 

Non abbiamo una soluzione a questo dilemma, anche noi stiamo volando a vista, senza dare tanto nell’occhio. Di certo, viviamo per il momento in cui potremo vivere apertamente la nostra natura e le nostre energie, con tutti – come peraltro prevedrebbero tutte quelle Costituzioni e diritti con i quali ci hanno tormentato per decenni.

 

Sì, viviamo per il momento in cui potremo, senza pensarci troppo, incenerire con lo sguardo le basi e gli eserciti dei cattivoni.

 

Per ora facciamo quello che possiamo, vivendo sottotraccia, operando in segreto dove bisogna farlo.

Per il momento, imparate a sopravvivere come Clark Kent. È la vostra silenziosa forma di critica di quel genere umano lasciatosi andare in quest’ora di follia

 

Per il momento, imparate a sopravvivere come Clark Kent. È la vostra silenziosa forma di critica di quel genere umano lasciatosi andare in quest’ora di follia.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine di Siri Kaur via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)

 

 

 

 

 

 

Continua a leggere

Arte

La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

Pubblicato

il

Da

Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

Sostieni Renovatio 21

Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

Aiuta Renovatio 21

Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

Continua a leggere

Arte

Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

Pubblicato

il

Da

Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.   Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.   La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.   Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.   «Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

Sostieni Renovatio 21

I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.   Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.       Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.   In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.     L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.   Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
     
Continua a leggere

Arte

No al Jazz. Sì al Dark Jazz

Pubblicato

il

Da

In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.

 

Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.

 

A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.

 

I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

Sostieni Renovatio 21

A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.

 

Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.

 

Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.

 

A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.

 

 

Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».

 

Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.

 

Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.

 

 

Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.

 

O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?

 

Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.

 

Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

Aiuta Renovatio 21

Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.

 

Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.

 

 

Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.

 

Sostieni Renovatio 21

Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.

 

 

 

Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.

 

Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.

 

C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.

 

No?

 

Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

 

Continua a leggere

Più popolari