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Geopolitica

Europei e statunitensi non hanno «valori comuni»

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Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire

 

 

 

Il summit virtuale per la democrazia organizzato da Washington è un gigantesco malinteso. Molti commentatori hanno rilevato come lo scopo non sia promuovere un regime politico, ma consolidare l’alleanza militare al seguito degli Stati Uniti; un mutamento foriero di nuove guerre. Thierry Meyssan dimostra che, lungi dall’essere ipocrita, Washington è stata viceversa molto chiara sugli obiettivi. L’errore è dei partner, che fingono d’ignorare che le parole usate da Biden non hanno per lui lo stesso significato che per loro.

 

 

Il 9 e 10 dicembre 2021 il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha organizzato un summit virtuale per la democrazia (1).

 

Non è sfuggito ad alcuno che l’obiettivo fosse non solo migliorare le democrazie, ma soprattutto bipartire il mondo: da una parte le «democrazie», che vanno sostenute, dall’altra «i regimi autoritari», che devono essere combattuti.

 

I primi Paesi sotto tiro, Russia e Cina, hanno immediatamente chiamato in causa l’ipocrisia di Washington, nonché esposto la propria concezione di democrazia. (2)

 

Questo vertice è stato invece, anche nella forma, una manifestazione dell’«eccezionalismo americano», ossia della convinzione religiosa che gli Stati Uniti sono una potenza a parte, «uguale a nessun’altra», «benedetta da Dio perché illumini il mondo»

Non vogliamo riassumere le critiche russa e cinese, ma esaminare, da un punto di vista occidentale, la credibilità della pretesta statunitense di essere il «faro della democrazia»; o, in termini biblici, la «luce che brilla sulla collina». Il concetto russo di democrazia è identico a quello degli altri Stati dell’Europa continentale. Quello della Cina è molto diverso, ma qui non lo analizzeremo.

 

È nostra intenzione dimostrare che, nonostante la propaganda della NATO, non ci sono «valori comuni» tra Stati Uniti ed Europa continentale. Si tratta di culture fondamentalmente diverse, sebbene le élite dell’Unione Europea non siano più culturalmente europee, ma ampiamente “americanizzate”.

 

 

Osservazioni sulla forma

Innanzitutto, se lo scopo era «perfezionare le attuali democrazie», il summit non avrebbe dovuto essere presieduto dalla Casa Bianca, ma dalle Nazioni Unite. La partecipazione avrebbe dovuto essere consentita a tutte le Nazioni, anche a quelle che manifestamente non sono democrazie, ma che cercano di diventarlo.

 

Quando parliamo di «democrazia», nonché di «diritti dell’uomo», non intendiamo tutti la stessa cosa

Secondariamente, se gli Stati Uniti fossero davvero «faro della democrazia» non avrebbero presieduto il vertice, distribuendo buoni e cattivi voti, ma vi avrebbero partecipato su un piano di perfetta uguaglianza con gli altri.

 

Questo vertice è stato invece, anche nella forma, una manifestazione dell’«eccezionalismo americano»(3), ossia della convinzione religiosa che gli Stati Uniti sono una potenza a parte, «uguale a nessun’altra», «benedetta da Dio perché illumini il mondo».

 

 

Enormi fraintendimenti

All’inizio del vertice, il presidente Biden ha riconosciuto che nessun Paese è veramente democratico; che la democrazia è un ideale cui tendere. Ha affermato che tutti possiamo vedere come nella realtà ci siano arretramenti, quali l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, imputabili probabilmente all’ingresso di una nuova generazione. E che quindi bisognava rimettersi al lavoro di buona lena per riassorbire questi «arretramenti della democrazia».

 

Ebbene, questo bel discorso permette innanzitutto di dare un’impressione di consenso e così evitare di chiarire i termini del dibattito.

 

Tutti concordano che il presidente Abraham Lincoln ha dato un’eccellente definizione di democrazia: «Il governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Lincoln però non ha mai avuto intenzione di riconoscere la «sovranità popolare». Gli Stati Uniti non hanno mai fatto il benché minimo sforzo verso questo ideale.

 

L’azione politica di Lincoln è consistita innanzitutto nel promuovere il diritto di fissare i dazi (causa della guerra di Secessione) come pertinenza esclusiva del presidente federale, poi l’abolizione della schiavitù (mezzo per vincere la guerra). Per questa ragione nella cultura statunitense oggi la parola «democrazia» viene intesa esclusivamente nel senso di «uguaglianza politica». Così come l’espressione «diritti civili» non designa affatto i «diritti dei cittadini» in sé, ma l’assenza di discriminazione razziale nell’accesso a questi diritti. Espressione che oggi si applica per estensione alle discriminazioni nei confronti di tutte le minoranze.

 

Non si può non riconoscere che la Costituzione degli Stati Uniti non è assolutamente democratica, nonché che gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. La Costituzione accorda infatti sovranità ai governatori degli Stati federali e unicamente a loro

Un malinteso che ha una lunga storia. Il giornalista Thomas Paine, il cui pamphlet Senso comune, 1776, causò la guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti, si entusiasmò per la Rivoluzione francese. Scrisse un violento pamphlet per spiegare la differenza tra le inconciliabili concezioni di Stati Uniti, Regno Unito e Francia dei diritti dell’uomo (I diritti dell’uomo, 1792). Fu l’opera più letta in Francia durante la Rivoluzione. Gli valse la cittadinanza onoraria francese e l’elezione alla Convenzione. Per gli anglosassoni, l’espressione «diritti dell’uomo», significa diritto delle persone a non subire la Ragione di Stato e, per estensione, ogni forma di violenza dello Stato. La Francia invece ha adottato la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che fa di ogni cittadino un protagonista della vita politica nazionale e, di conseguenza, lo protegge dagli abusi del potere.

 

Quando parliamo di «democrazia», nonché di «diritti dell’uomo», non intendiamo tutti la stessa cosa.

 

La definizione di «libertà di espressione» degli Stati Uniti è, riconosciamolo, superiore alla nostra: deve essere totale per consentire alle idee di esprimersi affinché dal dibattito emerga la migliore. Nei Paesi latini invece non si riconosce libertà di espressione ai vinti. Si criminalizza l’espressione delle idee soggiacenti al razzismo nazista. E dal 1990 si vieta per estensione anche la manifestazione di tutte le idee naziste condannate dal processo di Norimberga. Passo dopo passo si è arrivati al divieto odierno non solo di uccidere in massa i nemici usando le camere a gas come gli Einsatzgruppen delle SS, ma anche di contestare che questo sia stato il mezzo utilizzato in alcuni campi di concentramento.

 

Anche la libertà di religione è un tema sul quale ci si scontra. Gli Stati Uniti la ritengono un valore assoluto e non riconoscono il diritto di rifiutare qualsiasi religione. Gli europei invece parlano di libertà di coscienza, inclusa ogni forma di spiritualità, anche l’ateismo.

 

Negli Stati Uniti i partiti politici non sono associazioni di cittadini come in Russia, bensì istituzioni degli Stati federati, com’era il partito unico in Unione Sovietica

Si tratta di una differenza dalle enormi conseguenze pratiche: alcuni Paesi non europei continentali riconoscono diritti individuali solo attraverso l’appartenenza a una comunità confessionale. Gli Stati Uniti, fondati da una setta puritana, sono diventati il paradiso delle sette. Di fatto, un adepto non può ribellarsi alla propria Chiesa che lo manipoli o abusi di lui. In Europa invece ci sono mezzi legali per combattere gli abusi di autorità commessi in contesto religioso.

 

Si noti bene che la diversa concezione dei diritti dell’uomo implica un corollario. Negli Stati Uniti, in ragione dell’esperienza della dittatura britannica di re Giorgio III e della Costituzione USA, che istituisce una monarchia senza re né nobiltà, il Popolo deve poter disporre di una forza armata per difendersi da possibili abusi del Potere.

 

Per questa ragione il commercio delle armi da guerra negli Stati Uniti è libero, mentre è considerato sedizioso in Europa continentale.

 

 

Osservazioni sulla sostanza

Veniamo al cuore della questione. Pur ammettendo di essere imperfetti, gli Stati Uniti pretendono essere il «faro della democrazia». Ma sono davvero una democrazia?

 

Se intendiamo democrazia nel senso statunitense di «uguaglianza politica», non si può non constatare che non è affatto così. Esistono enormi disparità politiche, soprattutto fra Bianchi e Neri, che la stampa non manca di rilevare. Il presidente Biden ha intrapreso un immenso cantiere. Abbiamo già spiegato che il suo modo di affrontare il problema, invece che risolverlo, non fa che aggravarlo. (4)

 

Se intendiamo democrazia nel significato che assume altrove di «sovranità popolare», non si può non riconoscere che la Costituzione degli Stati Uniti non è assolutamente democratica, nonché che gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. La Costituzione accorda infatti sovranità ai governatori degli Stati federali e unicamente a loro. Elezioni a suffragio universale possono esistere a livello di Stati federati, ma sono facoltative sul piano federale. Ricordiamo tutti l’elezione del presidente George W. Bush nel 2000: la Corte suprema degli Stati Uniti giustificò il rifiuto di ricontare le schede in Florida perché la volontà degli elettori della Florida non contava, dal momento che il governatore di quello Stato (fratello del sedicente vincitore) aveva deciso.

 

Acquisito che gli Stati Uniti non sono una democrazia nel senso corrente del termine, ma un’oligarchia, nonché che la loro lotta si limita ai «diritti civili», è naturale che all’estero combattano la sovranità popolare attraverso colpi di Stato, «rivoluzioni colorate» e guerre

Ricordiamo inoltre che negli Stati Uniti i partiti politici non sono associazioni di cittadini come in Russia, bensì istituzioni degli Stati federati, com’era il partito unico in Unione Sovietica.

 

Infatti le elezioni primarie per selezionare il candidato di un partito non sono organizzate dai partiti politici, ma dagli Stati federati, che le finanziano.

 

Acquisito che gli Stati Uniti non sono una democrazia nel senso corrente del termine, ma un’oligarchia, nonché che la loro lotta si limita ai «diritti civili», è naturale che all’estero combattano la sovranità popolare attraverso colpi di Stato, «rivoluzioni colorate» e guerre.

 

I loro valori sono perciò diametralmente opposti a quelli degli europei continentali, Russia compresa.

 

La posizione statunitense ha tuttavia una conseguenza positiva. Lottare per i diritti civili presuppone lottare contro certe forme di corruzione.

 

I loro valori sono perciò diametralmente opposti a quelli degli europei continentali, Russia compresa

Washington ritiene del tutto normale versare in segreto compensi a politici stranieri e finanziarne le campagne elettorali. Con la coscienza a posto, il dipartimento di Stato stila liste di esponenti stranieri da sostenere e non capisce come questi leader possano essere considerati corrotti nei loro Paesi.

 

Viceversa, gli Stati Uniti combattono la cleptocrazia, ossia la sottrazione di denaro pubblico da parte dei dirigenti stranieri (ma non da parte dei dirigenti USA, dispensati in virtù dell’«eccezionalismo americano»).

 

In questo modo aiutano talvolta la «democrazia» intesa in senso europeo continentale.

 

Thierry Meyssan

 

 

NOTE

1)«Allocution d’ouverture de Joe Biden au Sommet pour la démocratie», di Joseph R. Biden Jr., Réseau Voltaire, 9 dicembre 2021.

3) «L’ONU fatto a pezzi dall’“eccezionalismo” statunitense», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 2 aprile 2019. Per approfondire si leggano gli Atti del colloquio organizzato dal Carr Center for Human Rights Policy: American Exceptionalism and Human Rights, Michael Ignatieff, Princeton University Press (2005).

4) «Joe Biden reinventa il razzismo», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 11 maggio 2021.

 

 

 

 

Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

Immagine di PortraitOfaLife via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)

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Economia

La Turchia sospende ogni commercio con Israele

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Il governo turco ha sospeso tutti gli scambi con Israele in risposta alla guerra di Gaza, ha dichiarato il Ministero del Commercio di Ankara in una dichiarazione pubblicata giovedì sui social media.

 

La Turchia è stato uno dei critici più feroci di Israele da quando è scoppiato il conflitto con Hamas in ottobre. La sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione è stata introdotta in risposta all’«aggressione dello Stato ebraico contro la Palestina in violazione del diritto internazionale e dei diritti umani», si legge nella dichiarazione.

 

Ankara attuerà rigorosamente le nuove misure finché Israele non consentirà un flusso ininterrotto e sufficiente di aiuti umanitari a Gaza, aggiunge il documento.

 

Israele è stato accusato dalle Nazioni Unite e dai gruppi per i diritti umani di ostacolare la consegna degli aiuti nell’enclave. I funzionari turchi si coordineranno con l’Autorità Palestinese per garantire che i palestinesi non siano colpiti dalla sospensione del commercio, ha affermato il ministero.

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La sospensione totale fa seguito alle restrizioni imposte il mese scorso da Ankara sulle esportazioni verso Israele di 54 categorie di prodotti tra cui materiali da costruzione, macchinari e vari prodotti chimici. La Turchia aveva precedentemente smesso di inviare a Israele qualsiasi merce che potesse essere utilizzata per scopi militari.

 

Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il governo turco ha imposto restrizioni alle esportazioni verso Israele per 54 categorie di prodotti.

 

In risposta alle ultime restrizioni, il ministero degli Esteri israeliano ha accusato la leadership turca di «ignorare gli accordi commerciali internazionali». Giovedì il ministro degli Esteri Israel Katz ha scritto su X che «bloccando i porti per le importazioni e le esportazioni israeliane», il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si stava comportando come un «dittatore». Israele cercherà di «creare alternative» per il commercio con la Turchia, concentrandosi sulla «produzione locale e sulle importazioni da altri Paesi», ha aggiunto il Katz.

 

 

Come riportato da Renovatio 21 il leader turco ha effettuato in questi mesi molteplici attacchi con «reductio ad Hitlerum» dei vertici israeliani, paragonando più volte il primo ministro Beniamino Netanyahu ad Adolfo Hitler e ha condannato l’operazione militare a Gaza, arrivando a dichiarare che Israele è uno «Stato terrorista» che sta commettendo un «genocidio» a Gaza, apostrofando il Netanyahu come «il macellaio di Gaza».

 

Il presidente lo scorso novembre aveva accusato lo Stato Ebraico di «crimini di guerra» per poi attaccare l’intero mondo Occidentale (di cui Erdogan sarebbe di fatto parte, essendo la Turchia aderente alla NATO e aspirante alla UEa Gaza «ha fallito ancora una volta la prova dell’umanità».

 

Un ulteriore nodo arrivato al pettine di Erdogan è quello relativo alle bombe atomiche dello Stato Ebraico. Parlando ai giornalisti durante il suo volo di ritorno dalla Germania, il vertice dello Stato turco ha osservato che Israele è tra i pochi Paesi che non hanno aderito al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari del 1968.

 

Il mese scorso Erdogan ha accusato lo Stato Ebraico di aver superato il leader nazista uccidendo 14.000 bambini a Gaza.

 

Israele, nel frattempo, ha affermato che il presidente turco è tra i peggiori antisemiti della storia, a causa della sua posizione sul conflitto e del suo sostegno a Hamas.

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Cina

Ancora un governo filo-cinese alle Isole Salomone: Pechino mantiene la presa sul Pacifico

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il nuovo primo ministro dell’arcipelago sarà Jeremiah Manele, che ha già ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri. Gli analisti si aspettano che, nonostante i legami con la Cina, addotti un approccio meno conflittuale. Ma la competizione resta aperta tra le nazioni del Pacifico, divise tra la fedeltà ai partner occidentali e gli accordi (soprattutto sulla sicurezza) con Pechino.   Il governo delle Isole Salomone resterà filo-cinese: i deputati designati dopo la tornata elettorale del 17 aprile hanno scelto come primo ministro Jeremiah Manele, che ha ricoperto l’incarico di ministro degli Esteri nel 2019, anno in cui le Isole Salomone, sotto la guida del precedente premier Manasseh Sogavare, hanno deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan per firmare, tre anni dopo, un trattato sulla sicurezza (i cui dettagli non sono stati resi pubblici) con la Cina, che continua così a mantenere una certa influenza nel Pacifico.   Sogarave la settimana scorsa aveva dichiarato che avrebbe rinunciato alla corsa a primo ministro a causa dei risultati deludenti del suo partito, e ha poi appoggiato la candidatura e la nomina di Manele, il quale ha già annunciato che manterrà stretti legami con Pechino. Ma gli analisti si aspettano che, a differenza del predecessore, Manele adotti un approccio meno conflittuale verso i partner occidentali, che guardano con preoccupazione alle relazioni tra la Cina e le nazioni insulari che costellano l’Oceano Pacifico.   Negli ultimi anni, infatti, Pechino ha rafforzato con diversi Paesi la cooperazione nell’ambito delle forze di polizia ed elargito fondi e investimenti per la costruzione di porti, strade e infrastrutture di telecomunicazione, in posti dove gli spostamenti e i contatti sono resi complicati dalla scarsità di risorse e dal progressivo aumento del livello dei mari dovuto al cambiamento climatico.

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Solo per fare alcuni esempi, dal 2013 è attivo uno scambio di agenti di polizia con le isole Figi, dove nel 2021 è arrivato per la prima volta, presso l’ambasciata cinese, anche un ufficiale di collegamento. Lo scorso anno sono state inviate squadre di esperti a Vanuatu e Kiribati (un altro Paese che ha revocato il riconoscimento a Taiwan nel 2019), mentre l’assistenza alle Isole Salomone è stata rafforzata dopo le proteste che sono scoppiate nella capitale, Honiara, nel 2021 e molti temono che il patto sulla sicurezza firmato nel 2022 preveda il dispiegamento di forze militari cinesi sull’arcipelago.   Ancora: dopo le rivolte di gennaio in Papua Nuova Guinea, il ministro degli Esteri papuano, Justin Tkachenko, ha dichiarato che a settembre la Cina si era offerta di fornire attrezzature e tecnologie di sorveglianza, ma subito dopo si è sincerato di sottolineare che, in ogni caso, la Papua Nuova Guinea non «metterà a repentaglio o comprometterà le relazioni» con i partner occidentali.   Inoltre, la Cina ha proposto investimenti per rilanciare il settore del turismo a Palau e sulle Isole Marshall, due Paesi che, insieme alla Micronesia, sono legati a Washington tramite dei Patti di libera associazione (Compacts of Free Association, COFA), che permettono agli Stati Uniti di avere accesso agli apparati di difesa e di sicurezza delle nazioni del Pacifico in caso di attacco (ma non solo).   Secondo gli esperti, la Cina ha un doppio interesse a promuovere la cooperazione di polizia con questi Paesi: da una parte vi è la necessità pratica di proteggere la diaspora e gli investimenti cinesi, soprattutto nel caso di rivolte e disordini, che si sono dimostrati frequenti.   Dall’altra è evidente che si tratta di un’area dove Pechino si è inserita per avere maggiore influenza nella regione a scapito degli Stati Uniti. I funzionari di Washington hanno nuovamente espresso le loro preoccupazioni all’inizio dell’anno dopo la visita di alcuni agenti di polizia cinesi a Kiribati, dove temono che la Cina possa ricostruire una pista d’atterraggio militare, a meno di 4mila chilometri dalle Hawaii.   Alle piccole nazioni del Pacifico, però, la competizione geopolitica tra la Cina e gli alleati occidentali potrebbe non dispiacere affatto, perché fornisce un elemento in più su cui fare leva nei rapporti diplomatici e ottenere così maggiori aiuti e risorse. Nel 2022 il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, non era riuscito a convincere i leader del Pacifico a firmare due nuovi accordi di cooperazione e l’anno successivo, il primo ministro delle Figi, Sitiveni Rabuka, aveva affermato che avrebbe stracciato l’accordo di scambio di ufficiali di polizia con la Cina, ma ha poi ammorbidito i toni.   In questa competizione per l’influenza nel Pacifico, Pechino sostiene che gli Stati Uniti non siano un partner affidabile, cercando di contrastare quella che ritiene essere una visione anti-cinese proposta dai media occidentali. A gennaio di quest’anno, in seguito a una fuga di informazioni, è stato scoperto che tra i compiti di un diplomatico cinese di stanza presso l’ambasciata di Honiara c’era anche quello di influenzare la copertura mediatica locale sulle elezioni presidenziali a Taiwan.   Gli Stati occidentali, dal canto loro, hanno evidenziato lo stile autoritario della polizia e dei funzionari provenienti dalla Cina, dove i diritti umani spesso passano in secondo piano. Nel 2017, per esempio, la polizia delle Figi aveva arrestato 77 cittadini cinesi, poi estradati in collaborazione con le autorità locali.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

Trump non esclude il taglio degli aiuti a Israele, attacca Netanyahu e rivela dettagli sull’assassinio di Soleimani

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L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rifiutato di escludere il ritiro degli aiuti militari a Israele per forzare la fine della guerra a Gaza se verrà rieletto. Un tempo strenuo difensore del primo ministro Benjamin Netanyahu, Trump ha sostenuto che il leader israeliano e il suo esercito hanno «pasticciato» la guerra con Hamas.

 

In un’intervista con la rivista Time pubblicata questa settimana, il candidato alla Casa Bianca ha confermato la sua insistenza del mese scorso sul fatto che Israele dovrebbe «porre fine alla guerra» prima di perdere ulteriore sostegno internazionale.

 

«Penso che Israele abbia fatto molto male una cosa: le pubbliche relazioni», ha detto Trump al quotidiano, aggiungendo che secondo lui l’esercito israeliano non dovrebbe «inviare ogni notte immagini di edifici che crollano e vengono bombardati».

 

Alla domanda se escluderebbe di negare o applicare condizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele per portare la guerra a una conclusione, Trump ha risposto «no», prima di lanciarsi in una feroce critica a Netanyahu.

 

«Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», ha detto, riferendosi a Netanyahu con il suo soprannome. Trump ha ricordato come Netanyahu avrebbe promesso di prendere parte all’attacco aereo statunitense che ha ucciso il comandante militare iraniano Qassem Soleimani nel gennaio 2020, prima di ritirarsi all’ultimo minuto.

 

«È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», ha detto Trump al Time, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».

 

Come riportato da Renovatio 21, secondo rivelazioni dello scorso anno dell’ex capo dell’Intelligence israeliana, sarebbe stato lo Stato Ebraico a convincere la Casa Bianca ad uccidere il generale iraniano.

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Netanayhu, ha detto The Donald, «è stato giustamente criticato per ciò che è accaduto il 7 ottobre», riferendosi all’attacco di Hamas contro Israele. «E penso che abbia avuto un profondo impatto su di lui, nonostante tutto. Perché la gente diceva che non sarebbe dovuto succedere».

 

Israele ha, proseguito «le attrezzature più sofisticate», ha continuato. «Tutto era lì per fermarlo. E molte persone lo sapevano, migliaia e migliaia di persone lo sapevano, ma Israele non lo sapeva, e penso che sia stato fortemente incolpato per questo».

 

Trump non è la prima persona ad affermare che l’esercito e il governo israeliani non hanno risposto agli avvertimenti di un imminente attacco di Hamas. Secondo quanto riportato dai media israeliani, diversi membri del personale militare e dell’Intelligence hanno cercato di avvertire i loro superiori che era in corso un attacco, mentre i funzionari egiziani hanno riferito all’Associated Press di aver trasmesso avvertimenti alle loro controparti israeliane nelle settimane precedenti il ​​7 ottobre.

 

Trump è stato uno stretto alleato di Netanyahu durante il suo mandato alla Casa Bianca e si è descritto come «il presidente degli Stati Uniti più filo-israeliano della storia». Ha imposto sanzioni all’Iran su richiesta di Netanyahu, ha spostato l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme ovest e ha mediato gli accordi di Abramo, che hanno visto Israele normalizzare le relazioni con il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Sudan.

 

Alla domanda se potrebbe lavorare meglio con il principale rivale politico di Netanyahu, Benny Gantz, se dovesse tornare alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali di novembre, Trump non ha dato una risposta diretta. Tuttavia, ha osservato che «Gantz è bravo» e che ci sono «alcune persone molto brave che ho conosciuto in Israele che potrebbero fare un buon lavoro».

 

Benjamin Netanyahu è stato sostenuto negli anni dalla famiglia del genero di Trump Jared Kushner, il cui padre – controverso immobiliarista ebreo ortodosso finito in galera per una squallida storia di ricatti perfino a famigliari – era uno dei primi finanziatori di Bibi, il quale, si dice, quando era a Nuova York dormisse nella cameretta del Jared.

 

Il personaggio si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.

 

Il Jared – che è sospettato da molti di essere una «talpa» contro Donald, perfino nel caso del raid FBI a Mar-a-Lago – e la moglie, l’adorata figlia di Trump Ivanka, sarebbero stati lasciati fuori dalla nuova campagna per esplicita richiesta dell’ex presidente.

 

Trump, in uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, diede la grazia al traditore (e spia israeliana) Jonathan Pollard, analista dell’Intelligence USA artefice di una delle più grandi falla di segreti militari della storia degli apparati statunitensi.

 

Nei primi giorni del 2021, agli sgoccioli della presenza di Trump alla Casa Bianca, Pollard arrivò in Israele, dove lo attendevano ali di folla a festeggiarlo come un eroe (per aver tradito il loro principale alleato: incomprensibile fino al grottesco, a pensarci), tramite un jet privato messo a disposizione dal controverso magnate dei casino di Las Vegas – e finanziatore di quasi tutto il Partito Repubblicano USA come del Likud israeliano – Sheldon Adelson, morto poche ore dopo.

 

Come riportato da Renovatio 21, Trump il mese scorso ha dichiarato che il comportamento di Israele a Gaza ha causato un danno enorme alla percezione dello Stato ebraico nel mondo, mettendoli «nei guai» e incoraggiando l’antisemitismo.

 

Attacchi pubblici di Trump a Netanyahu si sono registrati già a fine 2021, mossa che gli valse uno screzio con i fondamentalisti protestanti americani, cioè i cristiano-sionisti che sostengono Israele per la profezia apocalittica secondo cui gli ebrei, ricostruendo il Terzo Tempio, genereranno il loro messia che sarà l’anticristo dei cristiani, accelerando la venuta di Cristo.

 

Tale teologia escatologica è in azione anche in questi giorni, come visibile nel caso della giovenca rossa, e di altri animali da sacrificio che hanno tentato di trafugare sul Monte del Tempio di Gerusalemme.

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