Intelligence
Gli USA e il progetto di Israele per il Medio Oriente: origini e natura del piano Clean Break

Nel 1996 un gruppo di intellettuali neoconservatori americani, quasi tutti di origine ebraica, consegnò a Benjamin Netanyahu, allora nuovo premier israeliano, un documento destinato a orientare gli equilibri geopolitici del futuro: A Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm.
Tra i firmatari c’erano Richard Perle, futuro presidente del Defense Policy Board, Douglas Feith, che sarebbe diventato Sottosegretario alla Difesa per la politica, David Wurmser, destinato a entrare come consigliere del vicepresidente Dick Cheney, e la moglie Meyrav Wurmser, analista israeliana. Accanto a loro figuravano James Colbert e Robert Loewenberg, entrambi ebrei-americani legati ai think tank pro-Israele, e Charles Fairbanks Jr., unico non ebreo del gruppo.
«Israele può dare una netta cesura [clean break, ndr] al passato e stabilire una nuova visione per il partenariato tra Stati Uniti e Israele basata sull’autosufficienza, sulla maturità e sulla reciprocità, non focalizzata esclusivamente sulle controversie territoriali» scriveva il documento. «La nuova strategia di Israele, basata su una filosofia condivisa di pace attraverso la forza, riflette la continuità con i valori occidentali sottolineando che Israele è autosufficiente, non ha bisogno delle truppe statunitensi in alcun modo per difenderlo, nemmeno sulle alture del Golan, e può gestire i propri affari».
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Il messaggio era inequivocabile: Israele doveva abbandonare la diplomazia e affidarsi alla forza per eliminare i propri nemici. In cima alla lista figuravano Saddam Hussein in Iraq, la Siria e, in prospettiva, l’Iran.
«Israele può modellare il proprio ambiente strategico, in cooperazione con Turchia e Giordania, indebolendo, contenendo e persino arretrando la Siria. Questo sforzo può concentrarsi sulla rimozione di Saddam Hussein dal potere in Iraq – un importante obiettivo strategico israeliano di per sé – come mezzo per sventare le ambizioni regionali della Siria» scrive il testo.
Pochi anni dopo, con l’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca, molti di quei nomi, insieme ad altri esponenti neoconservatori di origine ebraica, entrarono direttamente nei gangli decisionali dell’amministrazione. Richard Perle, Douglas Feith e David Wurmser furono raggiunti da Paul Wolfowitz, nominato cice Segretario alla Difesa e ricordato come il vero «architetto della guerra in Iraq» per aver costruito e promosso la narrativa delle armi di distruzione di massa.
Al loro fianco c’erano Elliott Abrams, consigliere per il Medio Oriente al Consiglio di Sicurezza Nazionale, Lewis «Scooter» Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Cheney,Dov Zakheim, Chief Financial Officer del Pentagono, Ari Fleischer, portavoce ufficiale della Casa Bianca, Joshua Bolten, prima vicecapo dello staff e poi capo di gabinetto, Michael Chertoff, a capo della Homeland Security, Michael Mukasey, nominato Attorney General, Ken Mehlman, stratega della campagna di rielezione di Bush, Tevi Troy, vice assistente del Presidente; e David Frum, lo speechwriter che coniò la formula «Asse del Male».
In totale, circa quindici figure ebraiche si trovarono a ricoprire ruoli centrali su una cinquantina di posizioni chiave della macchina di governo: una presenza sproporzionata rispetto al 2,5-3% della popolazione ebraica negli Stati Uniti. Una sproporzione che segnala come la politica estera americana in quegli anni fosse fortemente plasmata da uomini che guardavano agli interessi strategici di Israele più che a quelli del popolo americano
L’11 settembre 2001 aprì la stagione delle guerre preventive. Quel giorno restano ombre mai dissipate: aerei dirottati per oltre un’ora senza che nessuno li intercettasse, piloti dilettanti capaci di manovre al limite dell’impossibile, passaporti intatti tra le macerie, il crollo inspiegabile del WTC7.
A rendere la vicenda ancora più torbida, il caso di Larry Silverstein, imprenditore ebreo che pochi mesi prima aveva rilevato le Torri Gemelle assicurandole contro atti terroristici per miliardi, e il mistero dei 2,3 trilioni di dollari di cui il Pentagono non riusciva a dare conto alla vigilia degli attentati, proprio nell’ala colpita il giorno successivo.
Vi sono poi episodi che alimentano sospetti di intelligence. Cinque israeliani, dipendenti di una società di traslochi chiamata Urban Moving Systems, furono arrestati a New York dopo essere stati visti filmare e presumibilmente festeggiare il crollo delle Torri. Trattenuti per settimane dall’FBI, vennero infine rimpatriati in Israele. La loro azienda chiuse subito dopo, e in patria ammisero in televisione di aver «documentato l’evento». Definiti in seguito come i «dancing israelis» (gli «israeliani danzanti») per i critici erano uomini del Mossad sotto copertura, per la versione ufficiale solo giovani che si comportarono in modo anomalo, senza prove definitive di complicità.
Israelis are great dancers.
In fact, they’re famous for it.
You should google “the dancing Israelis” and check out their sick moves! pic.twitter.com/ii3iIKqCW1
— ADAM (@AdameMedia) June 25, 2025
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Negli stessi mesi, un rapporto della DEA segnalava la presenza di decine di «studenti d’arte» israeliani che cercavano di introdursi in uffici governativi e basi militari americane. Anche in quel caso si parlò di probabili operazioni di Intelligence mascherate, mai collegate formalmente al 9/11.
Sul fronte dei servizi, sia il Mossad sia la CIA avevano trasmesso avvertimenti su possibili attentati di al-Qaeda: allarmi generici, dicono le autorità, ma per i critici segnali di una conoscenza preventiva mai chiarita. Per Israele, in ogni caso, l’11 settembre rappresentò la chiave: spinse gli Stati Uniti dentro il Medio Oriente con una furia che nessun’altra motivazione avrebbe potuto giustificare.
Nel 2002 Benjamin Netanyahu, oggi premier di Israele, si presentò al Congresso degli Stati Uniti per sostenere che Saddam Hussein stesse sviluppando armi di distruzione di massa. Quella stessa argomentazione venne adottata dall’amministrazione Bush per giustificare la guerra. Tuttavia, quelle armi non furono mai trovate.
Nel 2003 gli Stati Uniti invasero l’Iraq. Saddam cadde, ma il prezzo fu devastante: oltre 4.500 soldati americani morti, decine di migliaia di feriti, due trilioni di dollari bruciati. L’America ne uscì impoverita, divisa e con una reputazione internazionale compromessa. Persino l’Iran, il grande avversario di Israele, si rafforzò grazie al vuoto lasciato in Iraq.
Gli Stati Uniti come nazione hanno perso. Il popolo americano ha pagato in sangue e denaro. A guadagnare sono state le élite economiche americane – industrie militari, contractors e compagnie petrolifere – e soprattutto Israele. Lo Stato ebraico ha visto eliminato un nemico storico senza muovere un soldato né spendere un dollaro. E, mentre Washington si caricava il peso di guerre infinite, Israele continuava a ricevere oltre tre miliardi di dollari l’anno in aiuti diretti, senza contare forniture militari e garanzie economiche. Il tutto per sostenere un Paese che ha oggi un tenore di vita medio più alto di quello statunitense.
Vent’anni dopo, lo schema si ripresenta. Israele spinge per un cambio di regime in Iran, evocando gli stessi argomenti usati allora contro Saddam. Il copione è chiaro: una minoranza influente orienta la superpotenza americana a farsi braccio armato degli interessi israeliani.
E ancora una volta, a pagare il prezzo non è Israele.
Gregorio Del Toro
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Immagine di John Boehner via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC 2.0
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I servizi russi: Bruxelles sta progettando un colpo di Stato in stile ucraino in Serbia

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Il Congresso USA pubblica la prima serie di file su Epstein

La Commissione per la vigilanza e la riforma del governo della Camera USA ha pubblicato più di 33.000 pagine di documenti relativi al finanziere caduto in disgrazia e condannato per reati sessuali Jeffrey Epstein.
Martedì sera la commissione del Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato sul suo sito web un link alle 33.295 pagine.
Il presidente James Comer ha citato in giudizio il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il mese scorso, dopo che un’indagine del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI aveva concluso che Epstein non aveva tenuto alcuna «lista dei clienti». La rivelazione ha spinto i Democratici e alcuni Repubblicani ad accusare il Presidente Donald Trump di insabbiamento.
Parlando ai giornalisti martedì, Comer ha promesso la massima trasparenza e si è impegnato a pubblicare il resto dei documenti il prima possibile. «Continueremo a seguire i fatti e a chiedere giustizia per questi sopravvissuti», ha dichiarato il Comitato di Vigilanza.
There must be maximum transparency about the horrific crimes committed by Epstein and Maxwell.
We will continue to follow the facts and seek justice for these survivors. pic.twitter.com/qNYXYMgl3p
— Oversight Committee (@GOPoversight) September 2, 2025
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Il giornalista Nick Sortor, tuttavia, ha sottolineato che ogni file è formattato come un’immagine individuale, il che rende «molto difficile la consultazione da parte del pubblico». La scelta potrebbe essere dettata o da incompetenza o dalla volontà di rendere difficile la ricerca.
Come riportato da Renovatio 21, l’amministrazione Trump sembra aver tentato di sviare l’attenzione dal caso, con il presidente a dire che «solo gli stupidi si interessano dei file di Epstein». Il presidente aveva pure detto che l’amministrazione mai pubblicherà i video. In seguito alla rivolta dei suoi sostenitori, Trump, che nega l’insabbiamento, aveva ordinato la pubblicazione delle trascrizioni riguardante Epstein.
Si tratta di una grande giravolta – un tradimento – rispetto a quanto promesso in campagna elettorale. Si ritiene che, nel frattempo, sia successo qualcosa: forse qualcuno ha disegnato un particolare al presidente.
Secondo Tucker Carlson l’Intelligence starebbe proteggendo, più che Trump, il network di potere attorno a Epstein. Alcuni speculano sul fatto che la verità sul caso del magnate pedofilo potrebbe in realtà compromettere per sempre i rapporti con lo Stato di Israele, di cui Epstein è accusato di essere una spia.
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; modificata
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Il presidente del Portogallo afferma che Trump è un «asset russo»

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Ci chiediamo ora come saranno i prossimi incontri, che, da qui alla scadenza del secondo mandato del presidente portoghese (2026) potrebbero essere inevitabili. Questo è lo stato in cui versano i vertici europei. Russofobia furiosa, forsennata al punto da compromettere i rapporti non solo con Mosca, ma con gli stessi USA. Ciò risulta incredibile solo per chi non ha capito il disegno in atto, e la mediocrità assoluta, malvagia della classe politica continentale.Today, it was my great honor to welcome President Marcelo Rebelo de Sousa of Portugal to the @WhiteHouse!🇺🇸🇵🇹 pic.twitter.com/yd37K4Ei8R
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) June 27, 2018
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