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Sport e Marzialistica

Storia e forme della kickboxing

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Storicamente, la kickboxing può essere vista come un’arte marziale ibrida, nata dalla combinazione di elementi di diversi stili tradizionali. Questo approccio è diventato sempre più popolare a partire dagli anni Settanta e, dagli anni Novanta, il kickboxing ha contribuito all’emergere delle arti marziali miste, integrandosi ulteriormente con le tecniche di combattimento a terra del jiu-jitsu brasiliano e del wrestling.

 

Il termine «kickboxing» ha avuto origine in Giappone negli anni Sessanta e si è sviluppato a partire dalla fine degli anni Cinquanta come una fusione tra il karate e la boxe, influenzato dalle competizioni che si sono svolte da allora. La kickboxing americana è nata negli anni Settanta e ha guadagnato notorietà nel settembre del 1974, quando la Professional Karate Association (PKA) ha organizzato i primi Campionati del Mondo.

 

Il termine «kickboxing» (キックボクシング, kikkubokushingu) può essere usato in senso stretto o ampio.

 

In senso stretto, si riferisce agli stili che si identificano specificamente come kickboxing, vale a dire il kickboxing giapponese (e i suoi stili o regole derivate come shootboxing e K-1), il kickboxing olandese e il kickboxing americano.

 

In senso più ampio, il termine include tutti i moderni sport da combattimento in piedi che permettono sia pugni che calci. Tra questi rientrano, oltre ai già menzionati, il Sanda, il Muay Thai, il Kun Khmer, il Lethwei, il Savate, l’Adithada, il Musti-yuddha e alcuni stili di karate (soprattutto il karate a contatto completo).

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Il termine stesso fu introdotto negli anni Sessanta come anglicismo giapponese dal promotore di boxe giapponese Osamu Noguchi per un’arte marziale ibrida che combinava Muay Thai e Karate, introdotta nel 1958. Successivamente, il termine fu adottato anche per la variante americana.

 

Poiché c’è stata molta contaminazione tra questi stili, con molti praticanti che si allenano o competono secondo le regole di più di uno stile, la storia dei singoli stili non può essere considerata separatamente l’una dall’altra.

 

Il termine francese Boxe pieds-poings (letteralmente «pugilato-piedi-pugilato») è usato anche nel senso di «kickboxing» in senso generale, includendo la boxe francese (la cosiddetta Savate), così come la kickboxing americana, olandese e giapponese, quella birmana e la boxe tailandese, qualsiasi stile di karate full-contact, etc.

 

  • Kickboxing Giapponese: stile di combattimento creato in Giappone e origine del termine «kickboxing».

 

 

  • Karate full contact (a contatto completo): qualsiasi stile di karate che prevede il contatto pieno.

 

 

  • Sanda (Kickboxing Cinese): componente applicabile del wushu/kung fu, include tecniche di takedown, proiezioni e colpi (braccia e gambe).

 

  • Shootboxing: forma giapponese di kickboxing che permette lancio e sottomissione in piedi, simile al Sanda.

 

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  • Kickboxing americano: stile di kickboxing originario degli Stati Uniti.

 

  • Kickboxing olandese: incorpora tre arti di combattimento: Muay Thai, boxe e karate Kyokushin.

 

  • Savate francese: sport sviluppato nel XIX secolo, noto per le sue tecniche di calci con i piedi.

 

  • Combat Hopak ucraino: basato principalmente su tecniche di pugni e calci.

 

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  • Musti Yuddha e Adithada indiani: Musti Yuddha, noto anche come boxe Muki, e Adithada, una forma di kickboxing che utilizza colpi di ginocchio, gomito e fronte nel Kalaripayattu del sud.

 

  • Kickboxing Coreano: conosciuto anche come Kun Gek Do, è un’arte marziale sudcoreana che combina boxe e Taekwondo.

 

 

  • Famiglia degli sport di kickboxing del Sud-Est Asiatico: conosciuti anche come «muay» ai Giochi del Sud-Est Asiatico, includono diversi stili:

 

  • Pradal Serey (Kun Khmer): sport da combattimento con enfasi sui calci e uso della clinciatura per le tecniche del gomito, basato sulle tecniche dell’antico impero Khmer.

 

  • Thai Muay Boran («pugilato antico»): predecessore della Muay Thai, consente l’uso di colpi di testa.

 

  • Kickboxing thailandese o Muay Thai: arte marziale moderna thailandese che consente colpi di pugni, calci, ginocchiate e gomiti.

 

  • Lethwei birmano: arte marziale tradizionale birmana che permette colpi di testa, ginocchia e gomitate, utilizza anche tecniche di soffocamento e lancio. Non vengono utilizzati guantoni da boxe e il sistema di punteggio è assente, con la vittoria possibile solo per eliminazione diretta.

 

  • Muay Lao laotiana: boxe laotiana simile alla Muay Thai.

 

  • Yaw-Yan filippino: Sayaw ng Kamatayan («Danza della morte»), un’arte marziale filippina sviluppata da Napoleon Fernandez, che assomiglia alla Muay Thai ma con movimenti di torsione dell’anca e calci a taglio verso il basso, con enfasi sugli attacchi a lunga distanza.

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Poiché come si può vedere il termine «kickboxing» risulta essere assai ampio, comprenderne la storia può essere complesso, dato che il combattimento è una parte intrinseca dell’essere umano. Calci e pugni come atti di aggressione sono probabilmente esistiti in tutto il mondo fin dalla preistoria.

 

La prima rappresentazione conosciuta di qualsiasi tipo di boxe proviene da un rilievo sumero in Iraq del III millennio a.C. Forme di kickboxing esistevano nell’antica India.

 

I primi riferimenti all’arte marziale del musti-yuddha si trovano in poemi epici vedici classici come il Ramayana e il Rig Veda, compilati a metà del II millennio a.C. Il Mahabharata descrive due combattenti che boxano con i pugni chiusi e combattono con calci, colpi con le dita, colpi con le ginocchia e testate. Mushti Yuddha ha viaggiato lungo l’Indosfera ed è stato un precursore e una forte influenza in molte famose arti marziali del sud-est asiatico come Muay Thai, Muay Lao e Pradal Serey (della Cambogia).

 

Nel Pancrazio, un’arte marziale mista dell’antica Grecia, veniva utilizzata una forma definibile come kickboxing nella sua modalità Ano Pankration, permettendo l’uso di qualsiasi estremità per colpire. Inoltre, si discute se i calci fossero consentiti nella boxe dell’antica Grecia e, sebbene esistano prove di calci, questo è oggetto di dibattito tra gli studiosi.

 

I francesi furono i primi a includere i guantoni da boxe in uno sport che prevedeva tecniche di calcio e pugni. Nel 1743, l’inglese Jack Broughton inventò i moderni guantoni da boxe. Il francese Charles Lecour, pioniere della moderna savate o la boxe française, aggiunse i guantoni da boxe inglesi a questa disciplina. Lecour creò una forma di combattimento che combinava calci e pugni, e fu il primo a considerare il savate sia come sport sia come sistema di autodifesa.

 

I coloni francesi introdussero i guantoni da boxe europei nelle arti marziali asiatiche native dell’Indocina francese. L’uso dei guantoni da boxe europei si diffuse anche nel vicino Siam (l’attuale Thailandia), influenzando le pratiche locali di combattimento.

 

Fu durante gli anni Cinquanta che Tatsuo Yamada, un karateka giapponese, stabilì per la prima volta lo schema di un nuovo sport che combinava Karate e Muay Thai. Questo concetto fu ulteriormente esplorato nei primi anni Sessanta, quando iniziarono le competizioni tra karate e Muay Thai, permettendo di apportare modifiche alle regole. A metà del decennio, si tennero nella città di Osaka i primi eventi utilizzando il termine «kickboxing».

 

Il 20 dicembre 1959, presso il municipio di Asakusa a Tokyo, si tenne un incontro di Muay Thai tra combattenti tailandesi. Tatsuo Yamada, fondatore del «Nihon Kempo Karate-do», era interessato alla Muay Thai perché desiderava organizzare incontri di karate con regole di contatto pieno, dato che ai praticanti non era consentito colpirsi direttamente negli incontri di karate dell’epoca.

 

A quel tempo, era impensabile colpirsi direttamente negli incontri di karate in Giappone. Yamada aveva già annunciato il suo piano chiamato «bozza dei principi del progetto per la creazione di una nuova arte marziale e la sua industrializzazione» nel novembre 1959 e aveva proposto il nome provvisorio di «karate-boxing» per questa nuova arte marziale.

 

Non è chiaro se il combattente tailandese Nak Muay sia stato invitato da Yamada, ma è certo che Yamada fosse l’unico karateka veramente interessato alla Muay Thai. Yamada invitò un campione Nak Muay (precedentemente sparring partner di suo figlio Kan Yamada) e iniziò a studiare la Muay Thai. In quel momento, il combattente tailandese fu notato da Osamu Noguchi, un promotore della boxe che era anche interessato alla Muay Thai. La foto del combattente tailandese apparve su rivista del Nihon Kempo Karate-do pubblicata da Yamada.

 

Negli anni Novanta, il kickboxing è stato principalmente dominato dalla promozione giapponese K-1, con alcuni concorrenti provenienti da altre organizzazioni e promozioni. Questo periodo ha visto una crescente popolarità delle competizioni di kickboxing, accompagnata da una maggiore partecipazione ed esposizione nei mass media, nel fitness e nell’autodifesa.

 

Il 12 febbraio 1963, si tennero quindi i «combattimenti di Karate contro Muay Thai». Tre combattenti di karate del dojo di Masutatsu «Mas» Oyama (successivamente chiamnato Kyokushinkai, o, «associazione dell’estrema verità») si recarono allo stadio di boxe Lumpinee in Tailandia e affrontarono tre combattenti di Muay Thai. I tre karateka kyokushin erano Tadashi Nakamura, Kenji Kurosaki e Akio Fujihira (noto anche come Noboru Osawa). La squadra di Muay Thai consisteva in un unico autentico combattente tailandese.

 

Il Giappone vinse per 2-1: Tadashi Nakamura e Akio Fujihira misero KO entrambi i loro avversari con un pugno, mentre Kenji Kurosaki, che combatté contro il tailandese, fu messo KO con un gomito. Il solo giapponese sconfitto, Kenji Kurosaki, era all’epoca un istruttore di kyokushin piuttosto che un contendente e fu temporaneamente designato come sostituto del combattente scelto assente.

 

Nel giugno dello stesso anno, il karateka e futuro kickboxer Tadashi Sawamura affrontò il miglior combattente tailandese Samarn Sor Adisorn, venendo abbattuto 16 volte e sconfitto. Sawamura avrebbe utilizzato ciò che aveva appreso da quel combattimento per influenzare l’evoluzione dei tornei di kickboxing.

 

Il Noguchi studiò la Muay Thai e sviluppò un’arte marziale combinata che chiamò kickboxing, la quale assorbì e adottò più regole che tecniche della Muay Thai. Le principali tecniche di kickboxing derivano ancora da una forma di karate giapponese a pieno contatto in cui sono consentiti i calci alle gambe, il Kyokushin. Nelle prime competizioni, erano ammessi lanci e colpi per distinguere questa disciplina dalla Muay Thai, ma questa regola fu successivamente abrogata.

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La Kickboxing Association, il primo organismo di governo della kickboxing, fu fondata da Osamu Noguchi nel 1966, subito dopo. Il primo evento di kickboxing si tenne quindi a Osaka l’11 aprile 1966.

 

Tatsu Yamada morì nel 1967, ma il suo dojo cambiò nome in Suginami Gym e continuò a formare kickboxer per supportare lo sviluppo della kickboxing.

 

Il kickboxing ebbe un boom e divenne popolare in Giappone quando iniziò a essere trasmesso in TV. Nel 1970, la kickboxing veniva trasmessa in Giappone su tre diversi canali tre volte alla settimana. Le carte di combattimento includevano regolarmente incontri tra pugili giapponesi (kickboxer) e tailandesi (Muay Thai). Tadashi Sawamura era uno dei primi kickboxer particolarmente popolari.

 

Nel 1971 fu fondata la All Japan Kickboxing Association (AJKA), che registrò circa 700 kickboxer. Il primo commissario dell’AJKA fu Shintaro Ishihara, governatore di lunga data di Tokyo. I campioni erano presenti in ogni divisione di peso, dalla mosca alla metà. Noboru Osawa, praticante di lunga data del Kyokushin, vinse il titolo dei pesi gallo AJKA, che mantenne per anni.

 

Raymond Edler, uno studente universitario americano che studiava alla Sophia University di Tokyo, iniziò a praticare il kickboxing e vinse il titolo dei pesi medi AJKC nel 1972. Fu il primo non tailandese ad essere ufficialmente classificato nello sport della boxe thailandese quando, nel 1972, il Rajadamnern lo classificò al terzo posto nella divisione dei pesi medi. Edler difese il titolo All Japan più volte prima di rinunciarvi.

 

Altri campioni famosi includevano Toshio Fujiwara e Mitsuo Shima. Fujiwara fu il primo non tailandese a vincere un titolo ufficiale di boxe thailandese quando sconfisse il suo avversario tailandese nel 1978 allo stadio Rajadamnern, vincendo il campionato dei pesi leggeri.

 

Nel 1980, a causa degli scarsi ascolti e della scarsa copertura televisiva, l’età d’oro del kickboxing in Giappone ebbe improvvisamente termine. Il kickboxing non fu più trasmesso in TV fino alla fondazione del K-1 nel 1993.

 

Nel 1993, quando Kazuyoshi Ishii, fondatore del karate Seidokaikan, introdusse il K-1 secondo regole speciali del kickboxing (senza lotta con gomito e collo), il kickboxing tornò in auge. Tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, prima del primo K-1, Kazuyoshi Ishii contribuì anche alla promozione del karate con i guanti come sport amatoriale in Giappone.

 

Il karate con i guanti si basava sulle regole del karate knockdown, ma con l’aggiunta di guantoni da boxe e il permesso di pugni alla testa. Di fatto, queste regole richiamavano il kickboxing orientale, con punteggio basato sugli atterraggi e sull’aggressività piuttosto che sul numero di colpi.

 

Con la crescente popolarità del K-1, il cosiddetto Glove Karate («karate con guantoni») divenne per un periodo lo sport amatoriale in più rapida crescita in Giappone.

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Negli anni Settanta e Ottanta, la kickboxing si espanse oltre il Giappone e raggiunse il Nord America e l’Europa. Fu durante questo periodo che si formarono molti degli organi governativi più importanti.

 

Per la kickboxing non esiste un unico organo di governo internazionale. Tuttavia, alcune organizzazioni internazionali di rilievo includono la World Association of Kickboxing Organizations (WAKO), la World Kickboxing Association, la Professional Kickboxing Association (PKA), la International Sport Karate Association, la International Kickboxing Federation e la World Kickboxing Network, tra le altre.

 

Di conseguenza, non esiste un unico campionato mondiale di kickboxing; i titoli dei campioni sono assegnati da diverse promozioni individuali come Glory, K-1 e ONE Championship. Gli incontri organizzati da diversi organi di governo seguono regole variabili, ad esempio permettendo l’uso delle ginocchia o del clinching, etc.

 

Nel Nord America lo sport aveva regole poco chiare, quindi kickboxing e karate a pieno contatto erano essenzialmente la stessa cosa. In Europa lo sport ha riscontrato un successo marginale ma non ha prosperato fino agli anni Novanta, anche a seguito dei film del kickboxeur belga Gianclaudio Van Damme, in particolare la fortunata pellicola marzialista Senza esclusione di colpi (1988), il film preferito del 45° presidente americano Donaldo J. Trump.

 

 

In Italia si registra la creazione negli anni Ottanta anche di un’arte marziale fusionale chiamata Kick jitsu, che univa tecniche della kickboxing a quelle del Ju Jitsu. con elementi provenienti anche dal pancrazio e dall’arte marziale mista coreana Hapkido.

 

La Kick Jitsu, disciplina riconosciuta dal CONI, è amministrata in Italia dalla Federkombat, cioè l’associazione italiana Kickboxing, Muay Thai, Savate e Shoot Boxe.

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Immagine di Joao Pelica via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic

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Sport e Marzialistica

Il Ju-jitsu in Italia negli ultimi 35 anni: intervista ad un testimone dell’evoluzione della scena delle arti marziali

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Matteo Biscottini ha quarantanove anni, due figlie, ed un lavoro presso una multinazionale americana. Soprattutto, Matteo è un lottatore che ha seguito l’evolversi del Ju-jitsu e delle arti marziali quasi 35 anni. La sua conoscenza della storia del Ju-jitsu in Italia – una storia che al momento non ha ancora scritto nessuno – è quindi piuttosto approfondita, soprattutto per quanto riguarda le sensazioni, il clima del mondo della lotta che si viveva negli Novanta e Duemila. Un mondo che è cresciuto e cambiato. Renovatio 21 lo ha intervistato per avere uno scorcio della scena di questi ultimi decenni.   Hai fatto Ju-jitsu tradizionale o Brazilian Ju-Jitsu? Ho iniziato a 15 anni con il Ju-Jitsu tradizionale che ho praticato a lungo. Dopo una pausa di un anno – una delusione amorosa – sono tornato alla disciplina scoprendo però che c’era dell’altro, così da avvicinarmi al Brazilian Ju-jitsu. Erano gli anni Novanta, il tempo dei primi UFC… Ecco che quindi mi sono avvicinato a quella che io chiamo semplicemente «lotta». La differenza tra un’arte e l’altra è fondamentalmente il regolamento a cui ti sottoponi per combattere a livello sportivo. Il corpo umano è uno: il braccio, se porti la mano al viso, si piega, al contrario va contro l’articolazione. Una leva è una leva: indipendentemente dal nome con cui la chiami. Può dire arm-bar, oppure ude-ishigi-jugi-gatame, sempre quello è.   Che cintura hai conseguito? Non do molto valore alle cinture, sono pezzi di stoffa lunghi. Quello che è davvero conta è la persona che avvolgono. Ho un secondo Dan di Ju-jitsu tradizionale e sono una delle prime cinture nere di Brazilian Ju-jitsu in Italia. Nel 1999 ho preso il primo diploma dato in Italia per il corso istruttori tenuto dai fratelli Vacirca, una famiglia di brasiliani di stanza a Zurigo. Ho ricevuto il titolo di «Basic Instructor», all’epoca era per noi una cosa da non credere. 

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Che altri maestri hai avuto? Il maestro Fabio Tumazzo, ad oggi ancora una leggenda, uno dei maestri più preparati in Italia. Ai tempi non c’era nemmeno una vera specialità: andavamo e lottavamo, potevi chiamarlo grappling, o quello che ora si chiama «Ju-jitsu no gi». Tumazzo è maestro di Judo e di Sambo, un personaggio che ha una conoscenza talmente profonda che travalica quella che è un’arte marziale presa singolarmente. Frequentavo almeno tre volte alla settimana le sue lezioni alla vecchia Polisportiva Affori, a Milano.   E tu hai fatto il maestro? Sì, ho insegnato per una decina di anni, assieme ad altre due persone. Abbiamo portato avanti un dojo al CUS [Centro Universitario Sportivo, ndr] di Como assieme a Luca Foggetta e a Roberto Sanavio, due amici fraterni colleghi insegnanti di arti marziali. Poi la palestra è chiusa per vicissitudini personali: io ad esempio mi sono trasferito per lavoro nel Regno Unito. Una cosa va detta: non abbiamo mai chiesto un soldo per insegnare. Le persone pagavano l’assicurazione e l’iscrizione alla palestra del CUS, ma il nostro corso era gratuito.    Che soddisfazioni ti ha dato gestire il dojo? L’esperienza al CUS ci ha permesso di trasmettere la conoscenza, che è una delle cose più importanti nelle arti marziali: senza tradizione, non avremmo nessuna eredità, non avremmo Ju-jitsu, non avremmo Karate, Judo, Aikido… Non avremo niente. Abbiamo avuto il privilegio di poter decidere a chi insegnare e a chi non insegnare – le teste di c… le tenevamo lontane dalla palestra.   Racconta. Ad esempio c’era un ragazzo che chiedeva di finire prima l’allenamento. Quando gli abbiamo chiesto perché ci ha risposto che aveva l’obbligo di firma: tornava in carcere. Con lui nessuna questione. Non abbiamo nessun problema di razza, religione, dimensioni, gusti sessuali: sul tatami si è tutti uguali… Non ci importava nulla. Bastava che si allenassero e si comportassero bene e come gli altri in allenamento. Non tutti però sono sempre stati così, Quelli che non si allineavano o che si comportavano in maniera inappropriata, sono stati messi alla porta. È capitato di avere allievi palesemente interessati alla violenza extra palestra, è in questi frangenti che preferisci non insegnare ed allontanare la persona

Matteo Biscottini in allenamento no gi

Avete avuto qualche risultato agonistico? Sì, c’è stata qualche vittoria a livello italiano ed Europeo, ma il nostro non è mai stato un corso finalizzato solo all’agonismo… Negli ultimi anni, il proliferare di numerose federazioni minori ha portato alla divisione degli atleti in molte sotto-categorie, regalando medaglie anche a chi non le avrebbe meritate. È un po’ come mia figlia, che al termine di un incontro di Judo a 7 anni, prendeva la medaglia come quelli che non avevano vinto.   Quando ha iniziato a praticare Ju-jitsu? Come ho detto, ho iniziato a 15 anni. Facevo sia Ju-jitsu, ma parallelamente mi sono allenato nel Judo. Ho fatto anche lotta greco-romana, pugilato, Thai Boxe, Kick Boxing… ne ho fatte tante e ne ho prese tante! Il Ju-jitsu mi aveva attirato perché mi ero documentato, avevo studiato – avendo sempre avuto passione per il Giappone – e avevo saputo che si trattava dell’arte di combattimento praticata dal Samurai quando non ha la spada a disposizione.   Che tipo di Ju-jitsu c’era all’epoca in Italia? A quei tempi c’era il Ju-jitsu che chiamo «reale». Fino agli anni Novanta il Ju-jitsu le arti marziali erano irreali. Tori praticava l’attacco, Uke glielo lasciava fare. Erano d’accordo. Questo era irreale: ha reso persone sicure di sé quando non possono esserlo, mettendo a rischio la loro incolumità facendo loro credere di poter rispondere ad un’aggressione.   E poi? Poi si è cominciato a rispondere alla domanda delle domande: qual è l’arte marziale più forte? La risposta cominciava ad arrivare dalle gabbie dell’UFC: un’arte marziale contro l’altra. Lì si è vista nascere l’evoluzione del Judo e del Ju-jitsu fatta dalla famiglia Gracie.

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Dove hai praticato? A Milano, innanzitutto. Mi sono allenato tantissimo negli USA, dove per sette otto anni sono andato a praticare grappling e Brazilian Ju-jitsu per l’estate. Andavo in vacanza con la fidanzata dell’epoca, divenuta poi mia moglie, prendendo l’albergo di fianco alle palestre che mi interessavano. Sono stato alla Legends MMA di Los Angeles, dove ai tempi allenava Eddie Bravo, che è un personaggione. Mi porto ancora a spasso una tecnica che mi ha insegnato. Sono stato alla palestra Gracie di Miami. A New York sono stato ad allenarmi di recente alla Renzo Gracie Ju-jitsu a Wall Street.    Cosa ricordi dell’ambiente agli inizi? Il primo Ju-jitsu era l’«UFC di casa nostra». Alla Polisportiva Affori arrivavano combattenti di tutte le discipline. C’era confronto, c’era curiosità, c’era apertura mentale nei confronti di tutte le tecniche che si potevano assimilare. Chiunque arrivasse ed avesse voglia di confrontarsi, era benvenuto. Dal ragazzo americano che faceva lotta libera, al ragazzo senegalese esperto di Laamb, ho combattuto contro chiunque. Era un ambiente pulito, dove ci si gonfiava di mazzate, ma si andava via sorridendo. Purtroppo questa situazione si è persa. Adesso ci sono palestre attrezzate ed insegnare è diventato un lavoro, la professionalità ha un po’ fatto perdere il romanticismo dei film di Van Damme che da ragazzini guardavamo con occhi sognanti.   Hai mai utilizzato le tecniche di Ju-jitsu fuori dal dojo? Mi sono mantenuto l’università facendo il buttafuori e la guardia del corpo. È bene non usare le tecniche che si apprendono in palestra fuori dalla palestra. Tuttavia, se apprese in maniera corretta, possono tornare utili.   E recentemente? Per soccorrere una donna e tre bambini che gridava aiuto sono stato aggredito da un signore nordafricano apparentemente ebbro che per fortuna ad un certo punto ha preferito me come obiettivo invece che la signora. Ho proiettato e controllato, immobilizzato: mai percosso. Poi sono arrivati i carabinieri, che avevo chiamato in precedenza. È importante che ognuno di noi intervenga in aiuto dei più deboli, quando necessario, e che non chiuda gli occhi davanti ad un sopruso.   Che consigli dai a chi può trovarsi in una situazione simile? Ti rispondo in latino: «Aequam memento rebus in arduis servare mentem». Significa: mantenere sempre la mente lucida anche nelle situazioni più difficili. E poi consiglio una lettura: Onset Mindset: mentalità aggressiva in una società difensiva, di Alberto Gallazzi, probabilmente il più grande esperto italiano in sicurezza e close protection. È un bel libro che potrebbe essere utile a tante persone.   Sei stato ad allenarti in Giappone? Sì, mi sono allenato al Takada Dojo, a Tokyo.   E quindi hai incontrato Kazushi Sakuraba, il cosiddetto «Gracie Killer»? No, lui in quel periodo non c’era. Però ho lottato con Gengo Tanaka, uno dei suoi sparring partner. Una bella lotta interessante. Abbiamo finito 1-1. A quei tempi ero forte. No gi. [significa combattimento senza l’abito tradizionale giapponese, ndr]

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Sei tra quelli che ritengono il Judo una disciplina da seguire, e da temere, anche per chi fa Ju-jitsu? Il Judo va sempre bene. Se hai un giorno libero dagli allenamenti in settimana, vai a fare Judo. Se hai un bambino, mandalo a fare Judo. Puoi essere un fighter di MMA, di Ju-jitsu, ma se ti fai un po’ di Judo va sempre bene.   In Giappone hai visto cosa succede anche al Kodokan, il quartier generale mondiale del Judo dove insegnava il fondatore Jigoro Kano… Il Kodokan è un altro mondo. Si respira tradizione. Sinceramente, per il mio livello di Judo, non ho avuto il coraggio di allenarmi: ero in Giappone per lavoro e non potevo rischiare. Avevo trovato un signore fuori che mi ha invitato a vedere una gara. È stato impressionante. Erano tutti ragazzi giovani che combattevano puliti, avevano un Judo bello, non quello agonistico fatto soprattutto di grande forza.    Chi ammiri nel panorama del Ju-jitsu oggi? Nel panorama di Ju-jitsu in realtà nessuno. Nel panorama della lotta ho due riferimenti: il primo è sempre Kazushi Sakuraba, che con la sua fantasia rende ogni incontro divertente, oltre che marzialisticamente efficace. Il secondo è Josh Barnett, detto «Warmaster», grande atleta di catch wrestling, discendente della scuola del «catch as catch can» (prendi come riesci a prendere») di Karl Gotch. Il 22 di giugno a Tokyo ci sarà un meraviglioso evento chiamato Bloodsport Bushido dove combatteranno sia Barnett che Sakuraba.   Dove ti alleni ora? Adesso mi alleno alla Grappling Varese dai fratelli Fabrizio e Tommaso Foresio, due fortissimi agonisti del team Stance di Milano. Qui un gruppo agonistico di giovani permette ad un vecchietto come me di sorridere ancora facendolo lottare e facendolo gioire nel vedere l’evoluzione dell’arte marziale.   Come sono i giovani che oggi trovi nei dojo di Ju-jitsu? Ce ne sono di due tipi: quelli che sanno soffrire e quelli che non sanno soffrire. I primi faranno strada, i secondi devono imparare a soffrire per fare strada e migliorarsi. Trovo comunque che sia una generazione più preparata fisicamente. Si tratta di un Ju-jitsu che si è evoluto e richiede una fisicità maggiore di quello di una volta.   Che consiglio daresti loro dopo 35 anni di pratica? Se dovessi dare un consiglio direi: restate sempre cinture bianche, non abbiate paura di imparare anche dall’ultimo arrivato in palestra!   Quanto è cambiata la scena da vent’anni a questa parte? La scena è varia. Il Ju-jitsu permette a tutti di praticare, perché può essere praticato anche in maniera non esageratamente violenta. Anche chi è un po’ più timoroso riesce ad affacciarsi in palestra. Questo lo ho visto negli ultimi anni. È comunque lo sport con maggiore crescita negli ultimi due decenni.   Quali sono i motivi dell’esplosione di interesse nei confronti del Ju-jitsu? Sicuramente la moda fa la sua parte. Tuttavia credo che la base di questo successo sia la possibilità di confrontarsi in un mondo dove il confronto è messo al bando.    Parliamo di cosa ti ha spinto verso le arti marziali. Sulla custodia del tuo telefono è stampata l’immagine de L’Uomo Tigre Non c’è solo lui. Sono stato spinto a fare arti marziali da Naoto Date, certo, ma c’era anche Kenshiro, di cui sto ancora studiando la tecnica degli tsubo, ma non sono ancora riuscito a far esplodere nessuno… 

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Immagine di Earl Walker via Flickr pubblicata su licenza CC BY-ND 2.0.
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Sport e Marzialistica

Ricordo di un vero maestro della Boxe italiana

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Renovatio 21 ripubblica su gentile concessione dell’autore l’ultima intervista al pugile ed allenatore di boxe Maurizio Zennoni (1958-2017). Si tratta probabilmente dell’ultima intervista concessa dall’uomo che già aveva accompagnato il campione del mondo dei pesi leggeri Giacobbe Fragomeni, che si trasferì nel parmense proprio per seguire Zennoni, che diceva «Sono un maestro, non un allenatore. Prima bisogna curare l’uomo e poi l’atleta». Il maestro si è spento nel novembre di sette anni fa dopo una lunga malattia. Questo articolo ha conservato negli anni un piccolo spaccato insuperabile del mondo della boxe – fatto di palestre, sudore, ed esseri umani, con le loro storie di dolore e dedizione, di gioia e sacrificio.

 

Uno spiazzo di confine, non saprei dire se in centro o in periferia, le macchine passano rapide e così anche il loro fruscio, mentre calano le luci sembra non esserci anima viva, invece basta guardarsi intorno per accorgersi che è tutto il contrario. Proprio stamattina ne parlava in radio Bernardo Bertolucci, i suoi primi ricordi sono qui, dalle parti dell’Ospedale di Parma, aveva sei anni e vide sua madre con un bambino in braccio: «È nato Giuseppe!».

 

I suoni di questo spiazzo non sono cambiati, negli anni Settanta ci hanno costruito il Palasport, una cattedrale in cemento armato che ospita le discipline più disparate. C’è anche la mia preferita ed è il motivo che mi porta qui, c’è un cartello rosso con scritto Boxe Parma 1933 e due bandiere sullo scivolo d’ingresso. Italia e Moldavia, perché nel pugilato non importa da dove vieni, ma come ti muovi sul ring.

 

Sposto il portone e sono in mezzo a una sessione di ripetute. La stanza è grande, con le colonne quadrate e una fila di sacchi ben allineati. Le pareti sono coperte di cimeli, non è decorazione ma storia, in questi giorni hanno appeso 25 cinture, sono i titoli vinti dagli allievi di Maurizio Zennoni, il maestro che sono venuto a trovare.

 

Sento la sua voce dall’ufficio e già m’immagino quanto sarà dura riprendere a boxare dopo un mese di vacanza e licenze d’ogni tipo. «Se non ti alleni tre volte a settimana, meglio lasciar perdere. Piuttosto vai a farti una bella passeggiata».

 

 

L’ufficio è un cumulo di trofei. Non faccio in tempo a sedermi e già Maurizio inizia a raccontare la sua vita. Una storia che inizia, come ogni pugile che si rispetti, dal primo giorno di boxe. L’arrivo in città da Corniglio, sull’Appennino Parmense, alla fine degli anni Sessanta. Era timido.

 

Cercava di dare un senso ai suoi quindici anni. Entrò in palestra per caso. «Ho guardato dentro e volevo scappare. Faceva un freddo cane, si allenavano con i maglioni di lana. Odino Baraldi mi vide e fece segno di entrare. Dopo tre mesi ero sul ring, a Sarzana». A quel tempo la palestra era sul fiume Parma, dove oggi c’è il Teatro Due, con l’arena estiva, la prosa, i concerti e tutto il resto. La storia di Maurizio comincia lì. Sotto c’era una mensa dei poveri e in quei giorni capì, con l’odore di cibo nell’aria, che per fare la boxe devi avere fame. Altrimenti non potrai mai farcela.

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Partito come superwelter, Zennoni ha finito la sua carriera nei mediomassimi, 72 incontri con buoni risultati, ma di quel passato parla in termini sbrigativi, come se non gli interessasse affatto. Lo osservo con attenzione solo stasera, eppure vengo qui da molti anni. Ha gli occhi rapidi di un furetto. Mi colpisce la sua umanità e l’idea che questo sport sia fatto per educare. Il pugilato è una scuola di vita. La riassume un vecchio manifesto all’ingresso della palestra che elenca i doveri del pugilatore, tutti da condividere, soprattutto l’ultimo: «Coltivare e propagandare sempre il Pugilato, Sport agonistico per eccellenza». Una lettera mancante ed è subito poesia.

 

Sulla parete lunga, alcune foto in bianco e nero trasudano imprese e tecniche antiche, scomparse nella notte dei tempi. La palestra negli anni Trenta, un allenamento estivo tra i ciottoli del fiume e poi le immagini di un incontro al Teatro Reinach, quello bombardato durante la guerra e mai ricostruito, il ring era in mezzo alla platea, palchi e galleria erano pieni zeppi, a quei tempi agli incontri di pugilato si andava, c’era partecipazione, mica si passavano le serate sui social, c’era fame di vita, di sudore, di competizione.

 

Ci sono le foto della squadra degli anni Quaranta, i campioni erano Primo Fariselli, Odino Baraldi, Ugo Scaccaglia, sono nomi che hanno fatto la storia e poi c’è la foto di Marcello Padovani, peso leggero, baricentro basso e occhio rapido, aveva l’età di mio padre, un vero guerriero. Campione d’Italia nel 1950. È stato lui il primo maestro di Zennoni, quello che gli ha fatto capire che la forza di volontà serve anche fuori dal ring, altrimenti non diventerai mai un buon pugile. Tantomeno un bravo maestro.

 

«Avevo le mani deboli, mi sono rotto la destra e la sinistra un sacco di volte. Ho perso tre titoli italiani, tutti in finale, uno dopo l’altro. La mia carriera è finita presto. La mandibola era fragile, ma ho capito subito che non potevo stare lontano dalla boxe». Così, dopo quattordici fratture, Zennoni si è rifatto dalle delusioni del ring con una formidabile carriera da tecnico.

 

Alla Boxe Parma erano gli anni di Damiano Lauretta, Campione d’Italia nel 1980, peso mosca, gran tecnico e picchiatore. Velocissimo. In quel periodo, Maurizio è diventato una presenza fissa all’angolo e ha capito che il suo futuro sarebbe stato legato ai suoi allievi. È un elenco lunghissimo, a partire da Marino Notarnicola, mediomassimo degli anni Ottanta e Massimiliano Saiani, il primo capolavoro di Zennoni. Vinse il titolo italiano dopo nove tentativi, a Toscolano nel 2003, alla prima ripresa, mettendo al tappeto Leonardo Turchi al primo attacco.

 

«Leonardo ha grande rispetto per me. Quella sconfitta la ricorda ancora. Ne abbiamo parlato molte volte. Però di Turchi devo dirti una cosa importante: suo figlio Fabio è la vera promessa della nostra boxe. Il pugile su cui puntare».

 

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Se lo dice Maurizio Zennoni c’è da fidarsi, nella sua storia ci sono 25 titoli in diverse categorie, più tutte le difese, nove titoli italiani professionisti, cinque europei e il mondiale con Giacobbe Fragomeni. Ogni titolo è una storia, una vita, un mondo di sogni e fatiche. Ottavio Barone, superleggero e grande atleta, «davvero uno stakanovista, in qualche modo come Giacobbe». Christian Orsi, campione italiano dilettanti pesi medi e poi Antonio Di Feto, grande talento, irripetibile, e suo fratello Alfredo, meno forte ma con un grande carattere, 110 incontri da dilettante e 52 da professionista, compreso il titolo internazionale IBF con Giuseppe Truono, un capolavoro di psicologia sportiva.

 

 

I migliori maestri si vedono dalla capacità di risollevare un pugile sconfitto. È quella l’impresa più difficile. Sono tanti i campioni che hanno scelto Zennoni in momenti particolari della loro vita.

 

«Vedi quella foto? Stavo raddrizzando il naso a Paolo Vidoz nel bel mezzo di un incontro. Non gli ho lasciato nemmeno il tempo di reagire. In quei mesi sono andato ad allenarlo anche in Germania. Era sceso a 105 kg. Leggero e veloce. Abbiamo vinto il titolo europeo».

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Sulla parete lunga della palestra c’è un grande disegno con i profili di Maurizio e di Giacobbe Fragomeni. Si guardano negli occhi, come a darsi grinta l’un l’altro.

 

 

«Grande personaggio, atleta immenso, fin troppo buono, un vero puro. Giacobbe ha una forza di volontà che non ho visto in nessun altro. Dovevo dirgli: smettila di allenarti!». Allora mi tornano in mente tutte le storie della vita di Fragomeni e vorrei rileggere «C’era una volta il buio», il libro che racconta la sua vita, l’infanzia alla Stadera, i guai di famiglia, il padre che lo aveva portato a un passo dall’inferno, la sorella morta per overdose, i tatuaggi, la notte che sembrava non finire mai e poi la rinascita in palestra, la fatica e i grandi successi, l’oro a Minsk e poi le trentaquattro vittorie da professionista, fino al mondiale WBC nei massimi leggeri contro Rudolf Kraj.

 

 

Ricordo ancora la mia prima volta in questa palestra, otto anni fa, ero venuto a cercare Fragomeni e l’avevo trovato al sacco, si stava allenando come se non ci fosse un domani. Non avevo fatto in tempo a emozionarmi per quell’incontro, mi aveva messo subito a fare i piegamenti, come tutti gli altri, dopo mezz’ora ero distrutto e lui ancora a saltare e fare esercizi dopo che la mattina era stato a correre in montagna, aveva fatto dieci round col maestro e un’ora di corda. Non ho mai visto nulla del genere.

 

Tra le invenzioni di Zennoni, ci sono gli ultimi due campioni italiani dei pesi massimi, Matteo Modugno e Gianluca Mandras. Ricordo bene Matteo al suo arrivo in palestra, mi aveva raccontato del suo lavoro in una società del settore agroalimentare, i dubbi sul futuro e forse un nuovo lavoro. Era obeso e di certo non pensava di diventare un professionista.

 

«Pesava 164 kg ma aveva grandi qualità. Un massimo velocissimo, ha subito imparato a boxare. Mi ha dato grandi gioie, è venuto fuori dal nulla. Quando ha vinto il Campionato Italiano è stato fantastico. Se avesse più fame, potrebbe fare grandi cose». Pare che rientri tra qualche tempo, avrebbe superato un problema alla spalla, ora si sta allenando in Inghilterra, è stato anche con Wladimir Klitschko. Riuscirà a vincere l’Europeo? Sarebbe bello, soprattutto se accadesse ancora con Maurizio all’angolo.

 

Gianluca Mandras ha vinto lo stesso titolo nel 2016, quando Modugno era fermo per infortunio. Un altro pugile fortissimo, creato dal nulla. Taglia forte, grande potenziale e una storia che forse è ancora tutta da scrivere. Il tempo ce lo dirà.

 

Entra Stefano Failla, mediomassimo, promessa della Boxe Parma, che secondo Maurizio può diventare una realtà. Bel fisico, grande potenziale. Al solito, serve uno scatto di volontà e convinzione. La palestra quest’anno ha 9 pugili professionisti e 21 dilettanti. «Ma nessuna donna, noi vogliamo troppo bene alle donne…», una battuta che in realtà nasconde ammirazione per il pugilato italiano al femminile, che negli ultimi anni, in giro per il mondo, ha vinto più titoli di quello maschile.

 

Questione di impegno, perché nella boxe non esistono segreti se non «lavorare a tempo pieno. Tutti sappiamo insegnare, non è quello il punto. Conta tutto il resto. A un pugile devi voler bene come a un figlio. Per i miei ragazzi sono disponibile 24 ore al giorno, anche per le cazzate. Il pugile è un animale sensibile, devi saperlo prendere, devi aiutarlo a scegliere la strada giusta».

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Alcuni fanno trecento chilometri per venire ad allenarsi a Parma, come Rodolfo Benini da Villafranca, «pugile dal cazzotto proibito» e Leonardo Damian Bruzzese che arriva dalla Romagna. Vengono qui a trovare nuove certezze, sanno che su Maurizio e la sua squadra si può contare. «All’angolo non pensiamo mai ai fatti nostri. Siamo seri. Sappiamo leggere un match e non ci facciamo problemi ad interromperlo se necessario. Le grandi punizioni non servono a nulla».

 

Alcuni sono venuti alla Boxe Parma per reinventarsi dopo le difficoltà, per Zennoni è questa la gioia più grande. Gianluca Frezza, sconfitto duramente da dilettante, lo davano per spacciato, voleva smettere ma poi con Maurizio è diventato Campione d’Italia e ha difeso per sei volte il titolo, con i più forti della sua categoria. Anche Bruzzese aveva subito due knock-out, ma soprattutto aveva un maestro, che lo aveva riempito di sensi di colpa. «Io gli ho dato fiducia ed è tornato a vincere».

 

La promessa della Boxe Parma si chiama Constantin Pancrat, di origine moldava ma ora cittadino italiano. «Con gli altri potrei avere dei colpi di culo ma su Constantin punto tutto: sarà lui la nostra prossima rivelazione».

 

La vita di Maurizio Zennoni è tutta tra queste mura, anche l’intonaco trasuda il suo entusiasmo e mi stupisce quando un lottatore come lui, a un certo punto si ferma, mi guarda dritto negli occhi e pensa a un futuro lontano, «voglio che tutto questo continui, anche senza di me», come se la vita potesse mai sconfiggerlo.

 

Eppure è bello che Maurizio guardi al futuro, ai collaboratori, ai nuovi maestri, al modello organizzativo, all’organigramma dove c’è un ruolo per tutti, a Pasquale che intanto sul divano fa i conti, «è un bravo speaker, non perde tempo e va dritto al punto» e poi a un modello economico in cui tutto viene reinvestito in palestra.

 

«La mia più grande soddisfazione è quando un pugile, a fine carriera, invece di finire sotto un ponte si costruisce una vita, in palestra o nella società civile». Come Massimiliano Saiani, che ora ha un’azienda di vernici con tredici dipendenti a Podenzano, vicino Piacenza, e poi ovviamente il suo idolo, Nino Benvenuti, un riferimento assoluto, che qualche anno fa ha premiato Zennoni con il Guanto d’Oro. «Una grande soddisfazione, il premio più importante per un maestro di boxe. Averlo proprio dalle sue mani è stato davvero speciale».

 

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Maurizio ricorda, accoglie, suggerisce e continua a raccontare, tra una telefonata e un’altra, parla del campo estivo in montagna e di una prossima riunione, dovrebbe farsi entro l’anno, con almeno un titolo in palio. Arriva Adriano Guareschi, presidente della Boxe Parma da quindici anni, alter ego di Maurizio e fratello di vita.

 

Parliamo del futuro del pugilato, della Federazione, dei sogni, degli amici. Poi Maurizio si ferma e richiama un ragazzo che è passato senza salutare. «Il compito del maestro è educare, mica solo insegnare la boxe».

 

Quando sono alla Boxe Parma, a volte mi incanto a guardare Maurizio che batte le mani per segnare il tempo delle ripetute. Gli chiedo chi gli sarebbe piaciuto allenare. Risponde subito Roberto Duràn. «Manos de Piedra», nessun dubbio, «era pazzo, ma un vero guerriero» e pensa ad altre sfide impossibili che avrebbe voluto affrontare, come stare all’angolo di Mike Tyson, «un uomo così fuori dalle righe. Sarebbe stata una sfida difficile ma entusiasmante. Un cavallo tranquillo non vincerà mai un gran premio. Tyson era tutto l’opposto».

 

Poi mi lascia secco con una di quelle frasi che potrebbe scrivere Joyce Carol Oates: «Il ring è la cosa più sincera della vita». Se non ci sei portato, meglio evitare. Resto zitto a riflettere, guardando il soffitto, finché Maurizio mi riprende. «Allora, ti alleni o vuoi stare seduto tutto il tempo?»

 

Mi cambio alla solita panca e comincio il riscaldamento, Maurizio arriva e mi guarda. Riprende la posizione. «Stringi i gomiti!». Ci vuole grande entusiasmo per mettersi a insegnare a uno come me. Sarà che non smetterei mai di ascoltarlo, anche nel bel mezzo della palestra. Chissà per quale motivo, comincia a raccontarmi di Vasyl’ Lomačenko, «anni fa ero all’angolo di un filippino durante le World Series. Lomačenko lo aveva atterrato subito. Mi ha fatto un cenno e ci siamo capiti. Ha tenuto in piedi il filippino per tutto il match, vincendo di misura, senza mai rischiare nulla. Devi essere l’eccellenza della boxe per decidere di portare l’avversario alla fine, senza bisogno di umiliarlo».

 

Ecco, per Maurizio il pugilato ha sempre a che fare con il sacrificio, con la gioia, con il futuro, mai con l’umiliazione.

 

Potremmo parlare di pugili fino a domattina ma forse è meglio che io mi alleni per davvero. Sono rimasti solo quaranta minuti. Prendo la corda, comincio a saltare e penso alla fatica di Giacobbe e di tutti gli altri che attorno a queste mura, seguendo l’esempio di Maurizio, sono diventati grandi pugili oppure, più semplicemente, degli uomini migliori perché hanno capito che attraverso il pugilato si possono superare, con il giusto spirito, i fatti buoni e brutti della vita.

 

Corrado Beldì

 

Articolo pubblicato su gentile concessione dell’autore, previamente apparso su Boxe Ring. Fotografie di Corrado Beldì.

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Geopolitica

Trump promette al campione MMA che fermerà la guerra a Gaza

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Il candidato alla presidenza del 2024 Donald J. Trump ha promesso che fermerà la devastante guerra di Israele a Gaza.   La promessa è stata fatta pubblicamente sabato sera ad un evento MMA in New Jersey dall’ex presidente all’ex atleta di arti marziali miste (MMA) e campione del circuito UFC Khabib Nurmagomedov, che è un musulmano del Daghestan.   Dopo la vittoria di Islam Makhachev su Dustin Poirier per il campionato dei pesi leggeri, Nurmagomedov, che ricopre ora il ruolo di allenatore del Makhachev, è stato sentito dire a Trump: «so che lei fermerà la guerra in Palestina».   Trump, che abitualmente pubblicizza il suo sostegno a Israele ma che si è dimostrato critico nei confronti della guerra a Gaza, ha risposto dicendo: «La fermeremo. Io fermerò la guerra».   La clip è stata ampiamente condivisa su X, e da allora ha fatto il giro su altre piattaforme di social media ottenendo molti elogi.  

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Non è mancato, tuttavia, il caustico scetticismo di molti utenti. «Trump non lo farà. Ha letteralmente dato le alture di Golan a Israele. Ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme. Venderà gli Stati Uniti per Israele. Sempre» ha scritto un utente su X. «Ha appena detto due settimane fa che a Israele dovrebbe essere permesso di finire il lavoro», ha scritto un altro. «Dice una cosa e il giorno dopo l’esatto contrario. Così tutti riescono a proiettare su di lui quello che vogliono sentire».   I commenti di Trump al campione MMA russo arrivano in un contesto di crescente frustrazione tra il personale dell’amministrazione Biden e gli elettori statunitensi per la gestione della guerra da parte del presidente, con un numero crescente di dimissioni del personale e segnalazioni di dissenso interno.   Tuttavia, mentre gli esperti affermano che l’ondata di elettori «non impegnati» alle primarie democratiche sta inviando a Biden il messaggio che la politica della sua amministrazione su Gaza gli costerà caro in vista delle elezioni presidenziali di novembre, la capacità di Trump di corteggiare gli elettori sulla Palestina è limitata.   Come riportato da Renovatio 21, il rapporto tra Trump e Netanyahu sembra essere compromesso sino all’irrecuperabile.   Un mese fa il candidato presidenziale non aveva escluso i tagli ad Israele, rivelando pure dettagli sull’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani che gli sarebbe stato consigliato dagli israeliani, che poi si sarebbero però tirati indietro. «È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», ha detto Trump a TIME, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».   Come riportato da Renovatio 21, secondo rivelazioni dello scorso anno dell’ex capo dell’Intelligence israeliana, sarebbe stato lo Stato Ebraico a convincere la Casa Bianca ad uccidere il generale iraniano.   Netanayhu, ha detto The Donald, durante l’intervista come TIME, «è stato giustamente criticato per ciò che è accaduto il 7 ottobre», riferendosi all’attacco di Hamas contro Israele. «E penso che abbia avuto un profondo impatto su di lui, nonostante tutto. Perché la gente diceva che non sarebbe dovuto succedere».
Benjamin Netanyahu è stato sostenuto negli anni dalla famiglia del genero di Trump Jared Kushner, il cui padre – controverso immobiliarista ebreo ortodosso finito in galera per una squallida storia di ricatti perfino a famigliari – era uno dei primi finanziatori di Bibi, il quale, si dice, quando era a Nuova York dormisse nella cameretta del Jared. Il personaggio si è fatto notare di recente per aver detto che «è un peccato» che l’Europa non accolta più profughi palestinesi in fuga da Gaza, per poi fare dichiarazioni entusiastiche sul valore delle proprietà immobiliari future sul lungomare della Striscia.   Il Jared – che è sospettato da molti di essere una «talpa» contro Donald, perfino nel caso del raid FBI a Mar-a-Lago – e la moglie, l’adorata figlia di Trump Ivanka, sarebbero stati lasciati fuori dalla nuova campagna per esplicita richiesta dell’ex presidente.

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Trump, in uno degli ultimissimi atti della sua presidenza, diede la grazia al traditore (e spia israeliana) Jonathan Pollard, analista dell’Intelligence USA artefice di una delle più grandi falla di segreti militari della storia degli apparati statunitensi.   Nei primi giorni del 2021, agli sgoccioli della presenza di Trump alla Casa Bianca, Pollard arrivò in Israele, dove lo attendevano ali di folla a festeggiarlo come un eroe (per aver tradito il loro principale alleato: incomprensibile fino al grottesco, a pensarci), tramite un jet privato messo a disposizione dal controverso magnate dei casino di Las Vegas – e finanziatore di quasi tutto il Partito Repubblicano USA come del Likud israeliano – Sheldon Adelson, morto poche ore dopo.   Come riportato da Renovatio 21, Trump il mese scorso ha dichiarato che il comportamento di Israele a Gaza ha causato un danno enorme alla percezione dello Stato ebraico nel mondo, mettendoli «nei guai» e incoraggiando l’antisemitismo.   Attacchi pubblici di Trump a Netanyahu si sono registrati già a fine 2021, mossa che gli valse uno screzio con i fondamentalisti protestanti americani, cioè i cristiano-sionisti che sostengono Israele per la profezia apocalittica secondo cui gli ebrei, ricostruendo il Terzo Tempio, genereranno il loro messia che sarà l’anticristo dei cristiani, accelerando la venuta di Cristo.   Tale teologia escatologica è in azione anche in questi giorni, come visibile nel caso della giovenca rossa, e di altri animali da sacrificio che hanno tentato di trafugare sul Monte del Tempio di Gerusalemme.

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