Pensiero
Referendum sul divorzio 2025: quello di sindacati e compagni dalla realtà

Il referendum sul lavoro dipendente e l’invasione migratoria è fallito, tuttavia quello sul divorzio 2025 è riuscito: possiamo dire, senza ombra di dubbio, che non andando a votare gli italiani hanno ratificato il divorzio dalla realtà di istituzioni, enti, corpi sociali, vescovadi ed interi partiti politici.
Il mondo reale, ora è certificato democraticamente, è separato totalmente dai cascami sovietici della grande mangiatoia repubblicana: nessuno ha votato per i loro quesiti. Anzi andiamo oltre: nessuno sapeva davvero quali fossero.
Non è stato captato interesse, nessuno davvero, per il referendum – e questo al di là del fine settimana al mare. Attorno a me, non solo non c’è una persona che sia andata a votare, ma nemmeno che sapesse per cosa si votasse.
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Ognuno ha capito, senza bisogno di tante spiegazioni, che erano fisime sul feticcio del lavoro, cose di un mondo che sul serio non esiste più: mentre la gente arranca nella rovina post-industriale, ci parlano di licenziamenti illegittimi, giudici che decidono le indennità di licenziamento per le piccole imprese, contratti a tempo determinato, responsabilità di appaltatori e pure committenti sugli infortuni sul lavoro. Poi la ciliegina: 5 anni di residenza in Italia acciocché gli immigrati divengano cittadini italiani a tutti gli effetti.
Non uno di questi temi – e son dovuto andare a guardarmeli ora, ad urne chiuse, perché anche io ci ero volato sopra serenissimo – pare avere attinenza con la realtà. Non uno sembra essere allineato con il sentimento non solo della classe produttiva (compresi i dipendenti) ma del cittadino quivis de populo: rendiamo gli immigrati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città subito italiani?
Maranza al voto? Sì: così poi però, invece che il Partito Maranza, ci troviamo il Partito Islamico – chiunque può fare questo pensiero, chiunque è finito per sentire ed ammettere, e in tutto il pianeta (FPO primo partito in Austria, Le Pen rampante in Francia, AfD in vetta in Germania… e Trump alla Casa Bianca) che la migrazione massiva è un problema da risolvere, non da facilitare.
Tutti lo sanno, tranne la sinistra e i sindacati. I quali, per fare bella figura e spingere sempre più gente a votare, hanno pensato bene pure di farsi vedere che litigano a sangue. Il che vuol dire, il divorzio ce lo hanno anche loro, infra: la parte piddina oramai metamorfosata in partito neoliberale e neoradicale di massa mai poteva votare per l’abrogazione del Jobs act.
Personalmente, mi impressiona non poco la questione dei sindacati. Ininfluenti sul piano politico (il referendum lo sancisce incontrovertibilmente), invisibili sul piano sociale (quante persone conoscete che sono state aiutate da un sindacato?), sono tuttavia realtà ricchissime, dove la cornucopia diviene sempre più visibile sullo sfondo di una società in sfacelo.
Voglio raccontarvi un angolo della mia città, quello dove svetta il palazzotto del principale sindacato, tetro ed eloquente con la sua colata di cemento grigio e il logo rosso che spunta in cielo: poco più avanti, c’era un’edicola, ora c’è uno dei quei buchi pieni di distributori automatici con dentro tutto: bibite, preservativi, cartucce per le sigarette elettroniche, latte, cioccolatini, olio da massaggio (che in realtà ipotizziamo serva agli invertiti, e non per massaggiarsi), cracker, e su tutto le casseforti cibernetiche che fanno da casella postale Amazon, grande simbolo del lavoro in Italia.
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A pochi metri, c’era un negozio di giocattoli e cartotecnica, durato decadi, con il nome di una famiglia cimbra: un posto eccezionale, che conoscevo da bambino, e in cui credo di aver fatto in tempo qualcosa anche per il primo figlio. Ora, invece, c’è una succursale del sindacato – la cui sede, ripetiamo, è lì a trenta metri – ci fanno dentro non so cosa, dalle vetrine si vede un bell’ufficio modernissimo, illuminato anche di notte, con il cartellino «Open» alla porta, neanche fosse un diner americano stile Happy Days.
In breve: il tessuto produttivo italiano è andato, da mo’, in malore: ma il sindacato proprio no. Anzi: può approfittare ed espandere il suo raggio. Ciò non vale solo per le quisquilie immobiliari. Il sindacato, in realtà, da diversi ha lanciato una vera e propria espansione morale. Ecco la crociata al Consiglio d’Europa per cancellare l’obiezione di coscienza sull’aborto in Italia.
Ecco la sollecitudine sui vaccini, che come abbiamo rilevato su Renovatio 21, è iniziata ben prima della pandemia, con ad esempio gli appelli ai pensionati (si allargano proprio: sono lavoratori, i pensionati?) a fare il vaccino antinfluenzale, nonostante in quegli anni ogni tanto sui giornali c’era qualche timido articolo sulla possibilità di qualche lotto assassino… per non parlare dei vaccini pediatrici (anche i bambini non sono lavoratori, ma pazienza), dove quando entrò in vigore la legge Lorenzin nel 2017 ad esempio a Palermo i sindacati lanciarono l’allarme sul fatto che c’erano pochi vaccinatori, bisognava assumere.
Insomma: come da piramide di Maslow, il sindacato è talmente ricco da aver soddisfatto tutti gli strati inferiori (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di appartenenza, di stima) e fluttua al vertice, dove può perseguire il fine dell’autorealizzazione: creatività, spiritualità moralità. Non c’è da ridere: questa è la sola spiegazione scientifica che trovo se penso al sindacato che si occupa di libero feticidio e sierizzazioni – e di concertoni rock, i quali, come detto dal poeta oramai lustri anni fa, in effetti hanno un po’ «rotto i coglioni».
Il sindacato è come un vecchio aristocratico, un nobile di quelli stile Gattopardo: il mondo è cambiato totalmente, e in teoria ti rifiuta pure, ma tu sai che invece starai lì, hai la sicurezza della tua ricchezza, e quindi può permetterti di correre dietro al superfluo, le amanti, le speculazioni di pensiero, etc.
Dobbiamo capire che tale nobiltà parassita ha in Italia un colpevole precipuo: la Costituzione. La quale essendo nata da comunisti e da democristiani (cioè, la specie creata in laboratorio da massoni e angloamericani per lasciare libero il passaggio a comunisti e liberali), è leggermente «sovietica», amava dire Silvio Berlusconi, al punto da mettere l’idolatria del lavoro in testa alla Carta stessa, e poi a dettagliare il goscismo istituzionali in altri articoli.
Come l’articolo 39: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
In pratica, dice la Costituzione più bella dello mondo, sindacato libero! Sindacati per tutti! Ma allora, perché sono così pochi? Perché non sono usciti nuovi sindacati a fare concorrenza a quelli divorziati dalla realtà? Magari ci sono pure: ma non prendiamoci in giro, sappiamo tutti che siamo dinanzi a logiche di feudo, un feudo ultramiliardario, inscalfibile, intoccabile, invincibile.
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Vediamo, tuttavia, che a potersi permettere il divorzio dal reale: ecco che la Carta sovietica d’Italia prevede addirittura la creazione di un ente che talmente tante persone potrebbero definire inutile da farci sopra un referendum – anche quello fallito, forse a causa del giovane borioso premier-genio che aveva accluso il voto per abolire il Senato. Parliamo, ovviamente, del CNEL.
Articolo 99 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». Ebbene sì, il CNEL ha copertura costituzionale. Noi, confessiamo apertamente, non abbiamo idea di cosa faccia, e crediamo di non essere gli unici: ma, sapete, nella nostra Repubblica basta la parola «lavoro» e si può fare tutto, tranne obiettare i sieri genici sperimentali.
Un vecchio amico – nel senso, un signore anziano, che dal suo incarico per una grande azienda ne ha viste molte – mi diceva di un conoscente che, per ragioni a caso, era stato messo a fine carriera al CNEL, ed era felicissimo, perché neanche lui capiva bene quale fosse questo lavoro, ma lo stipendio arrivava. Non siamo in grado di verificare questa notizia, tuttavia, un po’ come per i quesiti del referendum 2025, come una immane porzione di popolazione italica non sentiamo l’impulso ad approfondire. Un altro ente, un altro turbine di leggi, uffici, salari, lontani anni luce dalla mia libertà, dalla difficoltà di tirare avanti la carretta tutti i mesi: ma chi davvero ha la forza per pensarci?
È quindi con questa mesta rassegnazione che registro come il divorzio in Italia sia stato approvato per referendum una seconda volta: il divorzio tra le istituzioni sociali – mica scordiamo l’ente sociale chiamato CEI, con il cardinale Zuppi che aveva invitato a recarsi alle urne – e la società stessa, che non vuole più saperne di loro e delle loro proposte, che non sono solo irrilevanti, sono con evidenza nocive, contrarie in tutto e per tutto alla percezione attuale del bene comune.
Lo sappiamo: la rassegnazione non va bene. Ma capiteci: abbiamo paura di dire qualsiasi cosa.
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Il sindacato può comunicare apertis verbis di non voler difendere i lavoratori (per il vaccino mRNA, e magari i soldini del Recovery Fund), può cambiare volti di leader che non ci colpiscono esattamente per il pensiero (il tizio con il diastema, il baffotto bianco, l’occhio mandorlato che scrive le prefazioni dei romanzi di Philip Dick, l’orsetto democristiano, la tizia flemmatica che fuma, quello professorale con gli occhiali spessi e la pelle tra il diafano e il rosso, il sindacalista metalmeccanico professionista), travasandoli poi in larga parte, autista e scorta e quant’altro, alle elezioni politiche per il voto feudale automatico dei soliti partiti della sinistra postcomunista e democristiana.
Come tutto questo non inorridisca i lavoratori, non sappiamo dirlo, ma tuttavia ora sappiamo che inorridisce assai gli elettori. I quali elettori, che non sono principi e conti che possono vivere di rendite politico-costituzionali, dalla realtà non vogliono divorziare, altri, loro non possono.
Come non possono permettersi di avere, a decidere per loro, qualcuno che, come Landini due anni fa, comizia letteralmente a favore del «Nuovo Ordine Mondiale». Cioè ciò che, con nel silenzio se non nel tifo del sindacato stesso, ha distrutto il loro lavoro, la loro famiglia, la loro esistenza.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Maritè Toledo via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
Pensiero
Professore di studi bellici avverte: molti Paesi europei si trovano in uno stato «pre-guerra civile»

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Pensiero
Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.
Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.
Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.
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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.
Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.
E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.
Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.
Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.
In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.
Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.
Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).
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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.
Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.
Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.
E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.
La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.
Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?
A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.
Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.
La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.
Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?
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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.
E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.
A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.
Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.
Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.
E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.
Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.
Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.
E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.
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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.
Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.
Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.
La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.
Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.
Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.
E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.
Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.
La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.
Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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Pensiero
La metamorfosi di Trump tra l’Iran e Israele: spietata, sanguinaria arte del deal

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Oggi la faccenda è molto cambiata. Trump ha maltrattato Israele e il suo premier, al punto da suggerire, con l’idea bislacca di Gaza resa paradisiaco resort mediterraneo, l’idea che lo Stato Giudaico non avrà mai il controllo della striscia necessaria al compimento del disegno del «Grande Israele». Con evidenza, tuttavia, ha lasciato mano libera, intuendo una debolezza attuale attorno all’Iran. La Russia e la Cina interverranno a favore di Teheran? Il potere dell’ayatollah sulla popolazione è così saldo? Sono calcoli che deve aver fatto, mentre diviene chiaro a cosa sia servito il viaggio in Arabia dello scorso mese, e quel lungo, denso discorso sulla fine della politica neocon – quindi, per paradosso, la fine della bava alla bocca contro l’Iran. A Riyadh, e negli altri regni del Golfo, Trump ha riprogrammato, deal dopo deal, l’asse del Medio Oriente, orientandolo più verso la Mecca che verso la Repubblica Islamica (che, fuori da regno dei Sauditi, tra i sunniti, godeva comunque di una presa non indifferente).Officials in #Iran have released a 3D animated video depicting the targeting of former President Donald Trump at his Mar-A-Lago golf course. This sequence is in revenge for killing IRGC General Qasem Soleimani. pic.twitter.com/2h1giUrlFx
— Jake Hanrahan (@Jake_Hanrahan) January 13, 2022
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