Pensiero
Per la vera pace
Qualche tempo fa, scrissi ad un importante professore nordamericano, che dirige un sito molto trafficato. Gli dovevo chiedere se potevo ripubblicare su Renovatio 21 un testo del suo sito che aveva destato il mio interesse.
Tuttavia, a colpirmi ancora di più, furono le parole che concludevano la sua email di assenso.
For true peace, Roberto.
Per la vera pace.
Questa semplice espressione di commiato mi diede da pensare più dell’articolo che volevo ripubblicare. Si era nei mesi in cui il mondo sta entrando nel tunnel della follia di fuoco e sangue che stiamo vivendo, con la maggior potenza termonucleare del pianeta sfidata in un conflitto infame e fratricida.
Meditavo. La pace necessaria non era quella che ci avevano venduto finora, magari con le marcette e le bandiere colorate, e partitini e sindacati che frignano in strada e sui media. La vera pace, in pratica, non era la pace dei «pacifisti».
La vera pace è l’unica cosa che ora è davvero necessaria per salvare milioni di vite umane dalla catastrofe che si prepara all’orizzonte. La vera pace è qualcosa che coloro che parlano di pace non possono offrire. Perché in fondo, non la vogliono. Perché i loro padroni non la vogliono.
Notate: il pacifismo, davvero non si capisce dove si sia dissolto. Vogliamo dire: i «pacifisti», quelle delle manifestazioni varie con la bandiera arcobalenata ora completamente rapinata loro dagli LGBT, non hanno fatto nemmeno finta. Non hanno messo in piedi nemmeno una scenografia di cartapesta, qualche urletto da prefica goscista, un barlume di opposizione scientifica.
I pacifisti sono spariti. Dove sono finiti? Dove sono finiti i centri sociali? Dove sono finiti quelli che si opponevano, con manifestazioni e canti, all’«imperialismo USA»? Dove sono quelli che protestavano per le stragi di civili? Dove sono quelli che più raramente, e molto giustamente, trattavano del rischio esiziale della guerra atomica?
Non sappiamo bene. Sono evaporati, tipo neve al sole. Si sono tolti di mezzo, forse per sempre.
Non che la loro sparizione mi angusti. Gaston Bothoul, studioso francese pioniere della polemologia – lo studio sociologico della guerra, che egli vedeva come necessario e crudele antidoto alla supposta sovrappopolazione del pianeta (ovviamente, smentita dai fatti) – scrisse un libro sul pacifismo, notando come esso ha sempre fallito, avendo pure tra le sue declinazioni quel «pacifismo piagnucoloso» che tutti noi conosciamo, e mai un «pacifismo funzionale» in grado di portare avanti concretamente un ideale di pace fra le Nazioni.
Per una volta, c’è da essere d’accordo con uno spopolatore. Il pacifismo ha fallito. La sua dissoluzione, sotto i nostri occhi, non turba nessuno: rivela semplicemente la mascherata del progressismo globale, la sua facciata di cartone, la vuotezza e la sterilità degli urlatori prezzolati che lo sostenevano.
Eppure, oggi più che mai, è impossibile non sentire il valore della pace. La vera pace. Perché non si tratta di bombe che esplodono lontano, in un Medio Oriente che era più un luogo dello spirito che uno spazio reale. No: le bombe esplodono sulle nostre vite. Sulle famiglie di persone che conosciamo. Sulla nostra economia. Nei nostri supermercati. Nelle nostre case fredde perché devastate dalla pazzia delle sanzioni di guerra. Altro che «pacifismo funzionale»: la pace è un bisogno oggettivo per le nostre società, ora. Ma non ditelo a Giorgia Meloni: nel discorso più importante della sua vita, ha detto, da neopremier della Nazione, che avrebbe continuato il sostegno al valoroso popolo ucraino, cioè avrebbe continuato la guerra. Dichiarazioni nel medesimo senso le fa Crosetto, il suo ministro della Difesa.
La «pace funzionale» non interessa loro, sembra. Neanche quella da mandare giù come una cucchiaiata amara di medicinale. Tale mancanza di rispetto dell’interesse della popolazione umana è incomprensibile solo chi non ha capito il livello di disintegrazione raggiunto dalla nostra sovranità nazionale.
Tuttavia, c’è qualcosa di più che vorrei scrivere qui. La guerra ha diversi effetti. Ci sono gli eserciti, le economie, i giochi di poteri, la «continuazione della politica con altri mezzi». Poi c’è l’impatto sull’animo umano. C’è il male che la guerra fa alle persone, c’è l’orrore morale infinito, e la sofferenza, e il pianto, che fuori dalla pace distruggono il cuore degli esseri umani, uccidendo le persone a loro care nell’«inutile strage» programmata da coloro che comandano e che, in fin dei conti, odiano la vita.
Per questo mi è tornata in mente, in questi mesi di guerra, la figura di Vera Brittain (1893-1970). Una vera pacifista, e soprattutto, una donna devastata dal dolore che infligge l’assenza della pace.
La sua era stata un’infanzia stupenda. Spensierata, libera, felice. Poteva correre per i prati della campagna inglese attorno ai mulini della sua famiglia, con un unico, grande compagno di giochi: Edward Brittain, suo fratello. Con lui aveva vissuto gli anni fantastici della prima giovinezza, con lui aveva conosciuto il sorriso dorato della vita.
Quando venne il momento, sbalordì i suoi genitori per l’ostinazione con cui voleva andare a studiare ad Oxford. L’ebbe vinta, si iscrisse al corso di laurea in letteratura inglese. Ritrovò l’amato fratello Edward, che adesso aveva una cerchia di amici davvero divertenti: c’era Victor, c’era Geoffrey, e poi c’era… Roland.
Roland Leighton, era questo ragazzo pieno di vita che studiava i classici al Merton College di Oxford. Veniva da una famiglia di scrittori e artisti, era compito ed elegante, aveva il fuoco della vita che ardeva dentro in modo evidente. Vera si innamorò perdutamente, e perdutamente fu ricambiata.
Roland scriveva poesie, ed è impossibile non vedere come ogni verso fosse colmo dell’amore per Vera.
«Il sole sulla lunga strada bianca
Che fioccava giù per la collina,
La peonia di velluto che si aggrappava
Attorno al davanzale
Ti aspettano ancora.
Ancora una volta l’ombroso stagno deve rompersi
in riflessi ai tuoi piedi,
E quando gli uccelli cantano nella tua selva,
Non sanno che puoi incontrare
Un altro straniero, o mia dolce.
E se egli non è così vecchio
Come il ragazzo che hai conosciuto
E meno orgoglioso, e degno
Dovrai lasciarlo andare»
Di lì a poco, Roland chiese la mano di Vera.
Questa gioia aveva un nemico. Essa, come tutte le cose, dovette affrontare la nube nera che si addensava sopra il vecchio mondo; un mostro sanguinario che stava inghiottendo la vita e l’amore di tanti, tanti altri su tutta la superficie d’Europa: la guerra.
Era il 1914: il Comandante in Capo dell’Esercito inglese, Lord Horatio Kitchener, impose la coscrizione obbligatoria e creò 33 nuove divisioni pronte a combattere i tedeschi su suolo continentale. Roland fu arruolato e mandato al fronte francese. Anche Victor, Geoffrey e il fratello Edward andarono a combattere. Una situazione del tutto simile la potete vedere ben raccontata nel film biografico Tolkien, con studenti ragazzini buttati a morire o impazzire nel fuoco e nel fango delle trincee, laddove il futuro autore del Signore degli Anelli aveva forse avuto le prime visioni di draghi e terre devastate.
Vera interruppe gli studi per andare anche lei verso la guerra, come infermiera V.A.D., il distaccamento volontario di aiuto. Non era un lavoro semplice, né sicuro: i soldati che tornavano impestati di gas (la grande conquista tecnologica della I Guerra Mondiale) non raramente infettavano il personale medico che doveva curarli.
Vera non si perse d’animo mai, perché ogni giorno scriveva al suo amato Roland. Poi una notte, mentre ispezionava il filo spinato, Roland fu centrato all’addome da un cecchino austriaco. Il mostro, il drago aveva mangiato per sempre il sogno di questi ragazzi.
«Sembrava che non fosse rimasto più nulla al mondo, perché sentivo che Roland aveva portato con sé tutto il mio futuro e Edward tutto il mio passato» scrisse anni dopo la poetessa pacifista.
Nonostante il dolore, Vera continuò a servire la causa del suo Paese, prendendosi cura personalmente del fratello Edward tornato a Londra ferito. Anche Victor e Geoffrey, gli altri amici del cuore, erano morti… Edward una volta guarito fu rimandato al fronte, questa volta sull’altopiano di Asiago. I britannici volevano così rafforzare il fronte alleato meridionale dopo la disfatta di Caporetto, e contenere così l’incubo di uno sfondamento delle forze austro-tedesche.
Il 15 giugno 1918 una pallottola austriaca uccise anche Edward. A Vera non era rimasto più niente. Aveva solo i ricordi. Tanti, bellissimi, dolorosi. Nel 1922 intraprese il lungo viaggio che la portò al camposanto di Granezza, tra Lusiana ed Asiago, dove pianse sulla tomba di Edward. Dalla morte del fratello, dicono i biografi, non si riprese mai del tutto.
Carica di memorie, conclusasi la guerra trovò la forza di scrivere in un libro che divenne una sorta di manifesto proto-pacifista: Testamento della giovinezza (1933).
Potete trovare in esso la poesia «Perhaps» («Forse») dedicata a «R.A.L», che altri non è che il suo sposo promesso Roland, sacrificato al drago del fronte occidentale.
Forse un giorno il sole tornerà a splendere,
E vedrò che ancora i cieli sono azzurri,
E sentirò un altro giorno che non vivo invano,
Anche se priva di te.
Forse i prati dorati ai miei piedi,
Faranno sembrare allegre le ore di sole della primavera,
E troverò dolci i bianchi fiori di maggio,
Anche se sei morto.
Forse i boschi estivi brilleranno luminosi,
E le rose cremisi ancora una volta saranno chiare,
E il raccolto autunnale dei campi sarà una ricca delizia,
Anche se tu non ci qui.
Ma sebbene il tempo gentile possa rinnovare molte gioie,
C’è una gioia più grande che non conoscerò
Di nuovo, perché il mio cuore per la tua perdita
È stato rotto, molto tempo fa.
Vera divenne una sorta di eroina degli ideali di pace, ma fu spesso dileggiata dall’Inghilterra che stava muovendo guerra alla Germania hitleriana. Lamentò l’orrore del saturation bombing, cioè dei bombardamenti a tappeto britannici sulle città tedesche (memento Dresda) e fu quindi ; a guerra finita tutti finirono di accusarla di tradimento quando videro che nella lista nazista delle persone da arrestare appena conquistata la Gran Bretagna c’era anche lei.
La vita dopo la guerra continuò. Il crescente movimento pacifista pendeva dalle sue labbra. Ebbe il successo letterario, un marito, una figlia che sarebbe diventata ministro. Non ebbe indietro gli anni della felicità.
Poco prima di morire chiese a sua figlia di disperdere le sue ceneri sull’Altopiano, dove era caduto suo fratello. «Per più di cinquanta anni il mio cuore è stato nel cimitero di quel villaggio in Italia», disse.
Scrisse un altro libro di versi struggenti, Because you died («Perché sei morto»).
Poiché sei morto, non mi riposerò più,
Ma vagherò per sempre per il solitario mondo,
Cercando l’ombra di un sogno diventato vano
Perché sei morto.
Passerò brevi e oziose ore accanto
Ai tanti amori minori che ancora restano,
Ma in nessuno troverò il mio trionfo e il mio orgoglio;
E la lenta macchia corrosiva di Disillusione
Si insinuerà in ogni ricerca ma appena provato,
Perché ogni sforzo ora non darà nessun guadagno
Perché sei morto.
Mi è impossibile rimanere insensibile davanti a queste parole. Mi è impossibile pensare che tanti cuori in questo stesso momento, in russo o in ucraino, stanno componendo il medesimo dolore, la disillusione, la perdita.
Fermate la guerra, fatelo per porre fine, prima che alla devastazione di dighe e città, alla distruzione dell’anima umana. Fatelo per il pianto di tante donne russe e ucraine divenute anche loro come Vera. Che, peraltro, è un nome femminile anche in russo e significa «Fede».
Cosa serva per fermare la nuova «inutile strage», non lo sappiamo. Sappiamo che i vertici di Londra sono impegnati per impedire la pace, e, oggi come ai tempi di Roland, a buttare altre migliaia di vite nella fornace della guerra. Sappiamo che qualche proposta, anche poco credibile, è arrivata perfino dall’occupante il Soglio di Pietro. Quel che accadrà dopo le elezioni americane che si stanno consumando in questo preciso momento, non lo sappiamo, e non osiamo nemmeno ipotizzarlo.
Tuttavia, qualsiasi cosa succeda, deve essere chiaro che abbiamo un imperativo, che è quello di avviare la pace. Quella cosa che non corrompe il mondo, che non porta via per sempre i nostri cari, sacrificandoli al niente.
La vera pace. Per tutte le Vera di Russia e Ucraina, d’Europa e del pianeta.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza
Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.
Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».
Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?
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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.
Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.
La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.
La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.
Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.
Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.
Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.
Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.
Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.
In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.
Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.
In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.
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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.
Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.
Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?
Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.
Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.
Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.
Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.
E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.
Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.
Buon lavoro.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo
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Pensiero
«Preghiera» pagana a Zeus ed Apollo recitata durante cerimonia di accensione della torcia olimpica. Quanti sacrifici umani verranno fatti, poi, con l’aborto-doping?
All’inizio di questo mese, il rituale dell’accensione della torcia olimpica – di fatto la prima cerimonia dei Giochi Olimpici – si è tenuta ad Olimpia, in Grecia, presso l’antico tempio di Era, la moglie di Zeus, padre degli dei greci detti, appunto, olimpici. Lo riporta LifeSite.
Accompagnata da uno stuolo di vestali per qualche ragione tutte bianche, l’attrice greca Mary Mina ha interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» che aveva funzione, tra le altre cose, di offrire una «preghiera» agli dèi olimpici.
«Apollo, dio del sole e dell’idea della luce, invia i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola per la città ospite», cioè Parigi. «E tu, Zeus, dona la pace a tutti i popoli della terra e incorona i vincitori della corsa sacra».
🗣️ “Apollo, God of sun, and the idea of light, send your rays and light the sacred torch for the hospitable city of Paris. And you, Zeus, give peace to all peoples on earth and wreath the winners of the Sacred Race.”#Paris2024 | @Paris2024 pic.twitter.com/FHMEmJ134U
— The Olympic Games (@Olympics) April 16, 2024
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Il Comitato Olimpico Ellenico organizza l’evento, che ha una durata di circa 30 minuti, ed elenca sul suo sito il resto dell’«Invocazione ad Apollo».
Silenzio sacro
Risuonino il cielo, la terra, il mare e i venti.
Le montagne tacciono.
I suoni e i cinguettii degli uccelli cessano.
Per Febo, il Re portatore di Luce ci terrà compagnia.
Apollo Dio del sole e dell’idea della luce
manda i tuoi raggi e accendi la sacra fiaccola
per l’ospitale città di…
E tu Zeus dona la pace a tutti i popoli della terra e
incorona i vincitori
della Razza Sacra
Il gruppo spiega che la prima cerimonia di accensione della torcia ebbe luogo nel 1936 con «l’alta sacerdotessa Koula Pratsika, considerata una pioniera della danza classica in Grecia e fu la prima coreografa della cerimonia di accensione». La Pratsika nell’ambito dei celeberrimi Giochi di Berlino – quelli dello Hitler e di Jesse Owens, e di Leni Riefenstahl – e che da allora si è svolta più o meno prima di ogni Olimpiade.
La coreografa Artemis Ignatiou dirige lo spettacolo dal 2008. Originaria della Grecia, ha precedentemente interpretato il ruolo di «alta sacerdotessa» ed è stata coinvolta nella produzione dagli anni Novanta.
È, ammetterà anche il lettore, molto molto curioso: la preghiera ai dei dell’Ellade rispunta per lo Sport, quando invece, l’invocazione che nei secoli si è pronunziata per la medicina – il giuramento di Ippocrate – è oramai quasi del tutto sparito in tutto il mondo – e mica lo vediamo solo in Israele, lo abbiamo visto anche sotto casa durante il COVID. I motivi, li sapete: quelle frasi sul fatto che il medico non darà sostanze abortive, né cagionerà la morte del paziente… Siamo lontani anni luce da ciò che oggi deve fare il dottore, e cioè servire la Necrocultura, estendendo la morte ovunque si possa.
È bene ricordare anche che il mondo moderno ora esige un altro culto pagano greco, quello alla dèa preolimpica (cioè, ctonia) Gaia, che tramite le elucubrazioni dell’ambientalismo è divenuta la Terra stessa, intesa come unico essere vivente minacciato dalla presenza umana. Del resto, Gaia apparteneva alla stirpe dei titani, come Crono, il dio che divorava i suoi figli…
Ma torniamo al fuoco pagano dei Giuochi. Il sito olimpico ricorda che i giochi iniziarono nel 776 a.C. e continuarono fino al 393 d.C. quando l’imperatore cristiano Teodosio I li abolì. «Le sue cerimonie di apertura sembrano quasi sempre incorporare temi massonici o globalisti» scrive LifeSite. «I giochi di quest’anno sono stati annunciati come le prime Olimpiadi “della parità di genere”. Ciò significa che uomini e donne avranno una rappresentanza 50-50 nella competizione. Detto in altro modo, ci saranno tanti atleti maschi quante sono le atlete. Questo è stato presentato come un importante segno di “progresso”».
Alla cerimonia di accensione della torcia, il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach ha sottolineato che i giochi di quest’anno saranno «più giovani, più inclusivi, più urbani, più sostenibili». Si riferiva al fatto che sarà allestita una «Pride House» pro-LGBT per «sostenitori, atleti e alleati LGBTI+».
«I Giochi sono una celebrazione della diversità», afferma il sito ufficiale delle Olimpiadi. «In occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la transfobia e la bifobia, Parigi 2024 ribadisce il suo impegno nella lotta contro ogni forma di discriminazione», riferendosi eufemisticamente a qualsiasi opposizione all’omosessualità o al transgenderismo e aggiungendo che la «Pride House» ha lo scopo di «celebrare» le «minoranze» LGBT e il loro «orgoglio».
LifeSiteNews ci tiene a ricordare che «come i precedenti Giochi Olimpici, Parigi 2024 sarà probabilmente una cloaca di impurità. (…) la fornicazione è dilagante e nel Villaggio Olimpico dove soggiornano gli atleti vengono distribuiti contraccettivi gratuiti».
Riguardo al sesso al villaggio olimpico, chi ha partecipato da atleta ad un’Olimpiade in genere torna con racconti impressionanti – dionisiaci, erotici, del resto sempre di dèi greci si tratta, Dioniso, Eros, e mettiamoci pure dentro pure la poetessa greca Saffo, che dea non è, ma popolare di certo lo deve essere presso certe giocatrici di basket, ad esempio, e neanche solo quelle.
Del resto, metti quantità di giovani sani (in teoria: da Tokyo sappiamo quanti ne ha rovinati, financo sportivamente, l’mRNA) tutti insieme nello stesso luogo, e cosa vuoi che succeda? Sappiamo che la cosa capita anche alla Giornate Mondiale della Gioventù organizzate dai papati moderni, al termine delle quali trovano a terra tra la spazzatura, oltre che le ostie consacrate, anche preservativi usati da giovani e previdenti papaboys.
La questione, semmai, è capire che l’abominio pagano dello sport olimpico potrebbe essere andato molto oltre le semplici fornicazioni degli atleti: da anni si parla sommessamente del fenomeno dell’aborto-doping. Funziona così: per giovarsi della biochimica ormonale fantastica offerta dalla gravidanza e migliorare quindi le proprie prestazioni sportive, le atlete si fanno ingravidare per poi uccidere il figlio e godere del beneficio organico e muscolare della gravidanza.
Praticamente: vero e proprio doping, senza alcuno steroide sintetico – quindi perfettamente legale. Specie, immaginiamo, nelle Olimpiadi delle «pari opportunità».
«Ora che i test antidroga sono di routine, la gravidanza sta diventando il modo preferito per ottenere un vantaggio sulla concorrenza» avvertiva ancora nel 2013 Mona Passiganno, direttrice di un gruppo pro-life texano. In quell’anno emerse anche la storia di un atleta russo che avrebbe raccontato a un giornalista che già negli anni Settanta, alle ginnaste di appena 14 anni veniva ordinato di dormire con i loro allenatori per rimanere incinte e poi abortire. La procedura sarebbe così conosciuta da arrivare persino anche sui libri di testo: un libro di testo online di fisiologia del dipartimento di Fisiologia Medica dell’Università di Copenaghen sembra averne ancora traccia.
«Le atlete di punta – proprio dopo il momento in cui hanno dato alla luce il loro primo figlio – hanno stabilito diversi record mondiali» scrive il testo danese di fisiologia sportiva. «Naturalmente, questo è accettabile come evento naturale e non intenzionale. Tuttavia, in alcuni Paesi le atlete rimangono incinte per 2-3 mesi, al fine di migliorare le loro prestazioni subito dopo l’aborto».
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Altro che preghiera ad Apollo: questo è un sacrificio umano, un atto propiziatorio tramite l’uccisione della propria prole al dio pagano della prestanza fisica, della vittoria sportiva, della ricca sponsorizzazione, dell’ego incoronato etc.
E quindi: quanti sacrifici umani agli dèi antichi e moderni verranno consumati per i Giochi parigini?
Va ricordato l’aborto nel mondo sportivo non è una novità, una importante multinazionale di vestiario, negli anni, è stata accusata di aver fatto pressioni affinché le proprie atlete sponsorizzate abortissero, anche se non è chiaro se semplicemente per continuare a sfruttarne le prestazioni o per ottenerne anche i benefici corporei del doping feticida.
Diciamo pure che la strage olimpica occulta dei bambini delle atlete non potrebbe essere l’unico accento di morte da aspettarsi a Giochi di Parigi. Come noto, Macron ha fatto capire di temere per l’incolumità della sua Olimpiade, arrivando a chiedere, anche grottescamente, una «tregua» dei conflitti in corso – lui che, contro l’opinione degli omologhi europei e dello stesso popolo francese, paventa truppe NATO in Ucraina, e che secondo alcuno già sarebbero state spedite ad Odessa.
Abbiamo visto, nel frattempo, come qualcuno degli organizzatori olimpici si stia lamentando del fatto che per il nuoto la Senna sembra non andare bene: è stata rilevato troppo Escherichia Coli, cioè troppa materia fecale. Parigi è baciata da un fiume escrementizio, e vuole che gli atleti di tutto il globo vi si tuffino.
Questa immagine, del fiume di cacca in cui obbligano la gente ad immergersi, racconta bene il senso occulto dell’Olimpiade.
Tuffatevi anche voi nell’acqua marrone: dietro l’Olimpiade non c’è solo l’afflato neopagano e massonico (con le logge che da sempre rivendicano la consonanza con i principi olimpici), potrebbe esserci un’ondata di morte vera e propria.
Giochi di morte: lo Stato moderno pare volerceli infliggere a tutti i costi.
Roberto Dal Bosco
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