Pensiero
Mistica dell’Ultra-MAGA: Trump e il «mandato del cielo»
Ieri mattina, viaggiando con un amico sull’A4, ho visto due aerei da guerra che volavano bassi.
Erano americani? Non ho fatto in tempo a discernerlo, stavo guidando. Venivano da che base? Ghedi? Istrana? Aviano? Potevo solo fare supposizioni.
Il fatto è che, per qualche attimo, ho sentito distintamente un sentimento di paura. Così, una reazione subitanea, non mediata da nulla se non dall’animo. E se fanno partire una guerra oggi…?
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Se pensate che il pensiero di un disastro militare internazionale nel giorno del voto della grande burocrazia – pardon, democrazia – USA sia peregrino, sappiate che ieri gli USA hanno indetto, per pura coincidenza, un test del Minuteman III, un missile balistico intercontinentale ipersonico a capacità nucleare. Proprio nelle ore delle elezioni: ma guarda che combinazione.
Ogni cosa poteva succedere in queste ore. Come avevo predetto, non c’è stato discorso di concessione da parte di Kamala – è troppo vuota, troppo pupazza, per ammettere la sconfitta; parlerà solo quando i pupari le diranno di farlo, e abbiamo già visto come Obama poche ore fa se ne è uscito con un discorso pazzesco sul fatto che ci potrebbero volere giorni per certificare il voto.
(Sulla strana personalità di Kamala, che sembra direzionabile, malleabile a piacimento, capace di qualsiasi contraddizione e non in grado di esprimere un’idea sua che non sia la ripetizione di un talking point assegnatole, sono avanzate in questi ultimi giorni ipotesi sorprendenti, come quella secondo cui potrebbe essere un prodotto del progetto MK-Ultra: non sappiamo se chi ha fatto la sparata ora sentirà il bisogno di approfondire).
Non mi aspettavo, certo, la valanga di voti, con il ribaltamento di Georgia, Pennsylvania, Wisconsin, i tre Stati chiave, finiti tutti e tre senza problemi in mano a Trump. Vedevo l’uomo e il suo entourage – tra cui contiamo, ora, pure Elon Musk – particolarmente tranquilli. Dobbiamo farlo too big to rig, troppo grande per un broglio. Seguendo alchimie politiche percentuali precise, hanno portato a casa il risultato. E magari i voti sarebbero ancora di più, perché è impensabile che non vi siano stati tentativi da parte dell’establishment di truccare anche queste elezioni.
È più che una vittoria storica, è un cambiamento di paradigma totale. Più che il Partito Repubblicano, che certo ha fornito l’infrastruttura, ha vinto il movimento MAGA. La spinta popolare più netta, unita, potente vista in questi anni, in tutto il mondo. Come se il popolo americano avesse ritrovato, dopo decadi di sentimenti oscuri, fiducia in se stesso.
Il popolo ha fatto vincere la democrazia, o forse no. Di fatto, gli USA paiono ora una monarchia – un unico al vertice, con tantissimo potere, secondo alcuni esattamente quello che volevano i padri fondatori americani, che si ribellarono a Londra perché volevano una monarchia senza re ed una aristocrazia senza nobili.
Chi ha visto la convention repubblicana di luglio, quella fatta con il cerotto all’orecchio poche ore dopo l’attentato di Butler, si è reso conto che oramai l’intera famiglia Trump ha colonizzato il partito e il discorso politico: dopo che al microfono si sono susseguiti figli e nuore varie, parenti amici di famiglia di ogni sorta, ha parlato dal palco persino la nipote 18enne, figlia di Don jr. È un casato, una dinastia reale. E con il popolo, nella democratica America, che l’acclama come tale.
Non abbiamo mai dato peso alle storie di QAnon, che come avete visto sono sparite completamente in questi anni. C’era questa sorta di religione oracolare, alimentata da misteriosi, criptici messaggi postati su internet, che descriveva Trump come una sorta di eroe con un’agenda segreta, un piano occulto in via di svolgimento che avrebbe sconvolto il Paese e riportato la giustizia.
Si trattava di una sorta di messianismo immanente: Trump non era investito di poteri soprannaturali, ma gli veniva assegnato questo ruolo salvifico nell’opera di imminente distruzione, dicevano, dell’élite corrotta e perversa. Ho ritenuto che si trattasse di qualcosa di vago e di losco, e guardando il documentario HBO Q Into the Storm (2021), con il regista che ritiene di aver capito chi vi era dietro, ho trovato conferma alle mie sensazioni.
Tuttavia, vale la pena di ricordare che la realtà, anche stavolta, è ben più bizzarra della finzione. I Qanonisti sostenevano che Trump avrebbe tirato fuori i nomi dell’élite pedofila di Washington ed Hollywood: il biondo ha annunciato che vuole pubblicare la lista di Epstein, mentre ci si chiede cosa accadrà a quella di Puff Daddy – con quantità di divi ospiti del rapper lubrificatore che hanno apertamente appoggiato la Harris, compresa l’ex fidanzata, l’irriconoscibile Jennifer Lopez.
Il mondo di QAnon bisbigliava di tunnel sotterranei a Nuova York, dove avvenivano indicibili traffici: ebbene, tutti ricordiamo con stupore ancora vivo i sotterranei scoperti sotto le sinagoghe hassidiche di Brooklyn.
Ancora: i Qanonimi dicevano che, ad una certa, grazie a Trump e al suo piano sarebbe uscito dalla latitanza John John Kennedy, il figlio di JFK morto nel 1999 in un incidente aereo (en passant, rammentiamo che sarebbe stato sfidante di Hillary Clinton per il seggio senatoriale democratico nella Grande Mela): ebbene, con Trump un Kennedy, il cugino Robert junior, sta per tornare davvero al governo degli USA.
Sì, what a time to be alive stanno dicendo molti ora. Che epoca incredibile ci tocca di vivere.
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Eppure, vogliamo andare un po’ oltre, e parlare di qualcosa che va oltre la stramberia del cospirazionismo realizzato. Vogliamo parlare dello spirito, vogliamo parlare della cifra mistica di ciò che sta accadendo.
In Cina, le dinastie imperiali iniziate 3000 anni fa con i Zhou hanno goduto nei millenni del Tiānmìng (天命), il «mandato del cielo».
L’idea, definita in seguito da filosofo confuciano Mencio, è che il cielo (天, Tiān) approva il sovrano giusto fornendogli un mandato a regnare. Il potere politico, quindi, ha giustificazione politica che viene dalla morale e dalla divinità. A differenza dell’Europa, non era necessario che alla base di una dinastia ci fosse un nobile: il mandato del cielo si estendeva a uomini comuni, come i fondatori delle dinastie Han e Ming, perché esso derivava dalla virtù del regnante, prima che dal suo lignaggio.
Possiamo dire che Trump abbia avuto un mandato del cielo? Sì. Di questo, personalmente, siamo convinti – dopo l’attentato che gli ha sfiorato l’orecchio, dal quale si è rialzato mostrando una fibra morale mai vista prima (con annessa foto del secolo, ottenuta naturalmente a fronte di immagini iconiche come quella di Iwo Jima che sono artefatte) e disprezzando l’idea di rintanarsi in casa lontano dai comizi mentre in circolo ci sarebbero almeno cinque team di assassini, alcuni dotati di missili terra-aria, con l’ordine di ucciderlo. (Qui ricordiamo i dittatori uccisi mentre scappano o suicidi mentre si rintanano tra il tanfo del piscio nel bunker)
L’attentato di Butler ci ha lasciato senza parole: perché una cosa così non l’abbiamo mai vista. O meglio: giammai abbiam veduto qualcosa che assomiglia di più ad un intervento divino.
Come ha detto Tony Hinchliffe, il comico che al comizio del Madison Square Garden della settimana scorsa ha rischiato di far deragliare la campagna di Trump con la battuta su Porto Rico e spazzatura (in realtà, è stata la propulsione per la gaffe odiosa di Biden e il conseguente irresistibile sketch del Trump-netturbino): «noi voteremo il 5 novembre, Dio ha votato il 13 luglio».
Non è possibile spiegare in altro modo l’accaduto: i complottisti, che ora stanno a sinistra, hanno provato a dire che era tutta una scenata per prendere voti, tuttavia, oltre ai morti, ricordiamo anche il New York Times che pubblicò l’immagine della pallottola che sfreccia nell’aere, captata per caso dalla macchina del fotografo.
Dio vuole che Trump governi? È molto probabile. E la spiegazione che ci siamo dati è piuttosto semplice: certo, Nostro Signore odia l’aborto, ma potrebbe odiare ancora di più la guerra termonucleare globale. Perché la guerra atomica è l’aborto della civiltà. L’assassinio dell’umanità tutta.
Il cielo ha assegnato il suo mandato, perché il rischio è che il cielo si ritrovi senza la terra.
E quindi, è giusto, per quanto possa sembrare sconsiderato, sentire la cifra mistica di questo momento. È possibile dire: ma Trump ha detto di essere abortista, vuole liberalizzare la provetta (che fa più vittime dell’aborto), con la religione cristiana c’entra poco. Magari è tutto vero: ma quando mai si era visto al mondo che una regolamentazione abortista – la Roe v. Wade – venisse ritirata? Con Trump: una promessa mantenuta tramite la Corte Suprema.
Perché se Trump è uno strumento della Provvidenza lo è in quanto essere umano, in quanto essere imperfetto – come tutti noi. È Dio che sa scrivere dritto su righe storte. E al momento, sembra proprio che questa pagina la vuole scrivere.
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Da qui, mandiamo un caro saluto anche ai Soloni ebeti, abbondanti assai nel giro della cosiddetta «controinformazione», che ora berciano il classico «tanto non cambia nulla». Imbecilli: se solo cambiano gli algoritmi censorii di internet (cosa fattibile in un minuto) la rivoluzione sulle nostre vite, potendo dire ed ascoltare la verità, sarebbe immane. Ne sappiamo qualcosa.
E ribadiamo: la fine dei banning su internet (non solo sui social), sarebbe un low hanging fruit, un risultato semplice da ottenere.
Immaginiamoci il resto: e se Trump comincia, come ha promesso, aa deportare gli immigrati, significa che anche in Italia possiamo cominciare a parlare di «remigrazione»?
Se Trump toglie, come promesso, gli uomini dagli sport femminili, significa che magari possiamo arginare la follia gender anche nelle scuole e nelle cliniche italiane?
Se Trump chiude con la buffonata ucraina, significa che possiamo tornare ad avere energia a basso costo?
Se Trump affonda la NATO, significa che finalmente possiamo avere la pace in Europa?
È tanta roba. C’è davvero da perdersi in questa mistica del MAGA, anzi, come si era iniziato a dire l’anno passato, ultra-MAGA. Perché né più e né meno potrebbe trattarsi di un movimento di rigenerazione dell’intero mondo – con le nostre esistenze quotidiane incluse.
Concludiamo con un segno concreto di celebrazione, un qualcosa per ricordarsi per sempre di questa giornata. Quattro anni fa, nei mesi in cui la lotta post-elettorale di Trump sembrava possibile, avevamo avuto l’idea di fare una maglietta da vendere ai lettori di Renovatio 21, che allora ci raggiungevano, en masse, tramite Facebook. Circolava questa espressione, quella del «Kraken», il mostro che – come da battuta del film Scontro di Titani (1981) conservata pure nel remake del 2010– sarebbe stato liberato con esiti devastanti.
Creammo dunque un simbolo, che chiamammo «Donald Kraken». Un’icona che doveva finire su di una t-shirt per chi segue Renovatio 21. Non facemmo in tempo a realizzarne la produzione – erano, peraltro, i mesi del lockdown duro, e di lì a poco si sarebbero abbattute su di noi censure ed avvertimenti…
Il Kraken, come sapete, nel 2020 non venne liberato. È libero ora.
La maglietta quindi, a questo punto la rendiamo disponibile.
È questa.
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Cotone organico, realizzata in serigrafia – cioè, senza stampa digitale, ma con macchine manuali.
Se la volete, costa €49, spese di spedizione in Italia incluse: potete pagare con PayPal, indicando la taglia e l’indirizzo. Per ogni questione ulteriore, scriveteci.
Portate pazienza: a breve avremo un ecommerce serio, sì. E con altri prodotti. A breve, giuriamo – perché senza non è che possiamo andare avanti molto.
Intanto però volevamo fare questa maglietta, e spedirla a chiunque voglia ricordarsi di questa storia.
Lo dobbiamo allo spirito dell’Ultra-MAGA, lo dobbiamo al mandato celeste palesatosi sotto i nostri occhi.
Lo dobbiamo ai nostri lettori, perché oggi siamo mostruosamente felici.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Biden e Bergoglio, un parallelismo. Parla mons. Viganò
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Immigrazione
Gli immigrati saranno nostri guardiani e persecutori?
Chi segue Renovatio 21, sa che semel in anno succede che racconti un qualche sogno capitatomi nottetempo. A volte questo sito ha pure scritto di sogni dei lettori stessi. I sogni sono, purtroppo, importanti.
Ultimamente odio sognare. Il carattere opaco e incontrollabile delle visioni notturne da qualche anno mi disturba. Nei momenti di cattivo umore finisco a chiedermi, in modo forse non cristiano, se l’esperienza dell’inferno non sia esattamente così: oscuro e irrazionale, illogico, inagibile, uno stato della mente che è una dimensione di punizione. I sogni sono anticipazioni degli inferi?
Ma no, a volte succede che si fanno i sogni memorabili, dove il significato è evidente quasi da subito, per poi divenire lampante, a tratti sconvolgente, man mano che si procede ad analizzare, a scendere nei livelli più profondi – inferi – della propria psiche.
Come ad esempio, il sogno con Mattarella e gli immigrati africani fatto l’altra sera.
La trama, per quello che posso ricordare, può sembrare sconclusionata al punto giusto: trovatomi nella pasticceria dove spesso bevo il cappuccino – che per qualche ragione era come un condominio in costruzione, mi dicevano che, non ho capito perché, sarebbe stato il caso che passassi a salutare il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella. (Scrivo queste righe sperando che i sogni non infrangano l’art. 278 del Codice Penale, «Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica»: sappiamo che a difendere questa legge spesso ci vanno giù pesante)
Io non ero contrario all’idea, quindi mi portavano giù per una scala, dove c’era un garage – la tipica autorimessa di certe casette piccolo borghesi, una stanza situata appena sottoterra, con oggetti vari (attrezzi, bici) piazzati in qualche ordine alle pareti, scope e secchi in un contesto di pulizia, anche se con quella sensazione di incompiuto che sento tipicamente in certe case di provincia.
Nella stanzetta sottoterra che dava verso al garage c’era lui, il Mattarella –anzi, c’era lei: nel mio sogno il presidente aveva le fattezze della senatrice ebrea Liliana Segre, la quale anche nella vita da svegli molti ritengono assomigliare al capo dello Stato di origine sicula.
Il Mattarella-Segre, che indossava un grembiule da lavori domestici, salutava rapidamente me e i miei conoscenti ma era indaffarato con qualcosa, forse stava pulendo, ed era come se aspettasse qualcuno, come se non fosse davvero padrone del suo tempo, o dello stesso spazio in cui si trovava. A quel punto, un uomo nel garage diceva di sbrigarsi, perché stavano arrivando «loro» (loro chi?), che dovevano parlare con Mattarella, o fare delle cose nel garage: la differenza tra le due azioni era inesistente, mi rendevo conto.
Semplicemente, ci veniva fatto capire che dovevamo uscire dal garage: il saluto al presidente era finito. Così ci ritrovavamo in strada. A quel punto mi diveniva chiaro chi erano «loro».
Una macchina, una berlina lunga e scattante (forse una vecchia Alfa, ma tenuta bene) arrivava sgommando davanti a noi, nella corsia sbagliata. Dentro c’era un immigrato africano che dal posto del guidatore ci guardava intensamente. Aveva un basco rosso, e pareva di scorgere una divisa verde militare, ma questo era un dettaglio secondario.
Piazzatosi davanti a noi minacciosamente con la sua macchina, l’africano, finestrini abbassati, cominciò a berciare in tono duro. Non parlava l’italiano, ma il pidgin che sentiamo in tanti immigrati da Nigeria et similia, un flusso di fonemi africani dove ogni tanto riesci a captare una parola in inglese.
Cosa voleva? Nessuno di noi rispondeva. Non era una conversazione. Nessuno di noi capiva, ma l’incomprensione non lo fermava. Continuava a vomitare la sua parlata africana a tono altissimo, così che realizzavo: l’immigrato ci stava dando ordini. Voleva che ci muovessimo in una certa direzione, andassimo in un certo posto, facessimo qualcosa, forse dovevamo pure salire in macchina, anzi no, perché non eravamo degni, eravamo solo delle persone da comandare e nient’altro.
Ero stranito, offeso. Meditavo su cosa dovevo fare per oppormi, ma il sistema sembrava settato così: nessuno di coloro che era con me fiatava. Evidentemente, pensavo, quella era la norma.
Capivo, in quel momento, chi stava aspettando il presidente, perché stava pulendo: comandavano, con evidenza, anche lì, nel garage della Repubblica. (Mentre scrivo, mi rendo conto di quanto questo sogno sia chiaro, chiarissimo)
Insomma: ho visto in sogno la Repubblica Italiana totalmente sottomessa ad una mafia africana. Ho visto gli africani che ci comandavano, in un contesto in cui non sembra esserci alternativa possibile.
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Ma perché mai devo sognare una cosa del genere? Da dove viene questo film grottesco e distopico che la mia psiche mi ha proiettato di notte? Mi fermo, chiudo gli occhi, respiro, cerco di scendere ai piani inferiori di questo pensiero.
In realtà, ho già visto una cosa del genere, in una serie H+ (2012). Una bizzarra opera fatta di microepisodi visibili online che è oggi importante per vari punti di vista. Era stato fatto come esperimento di Hollywood (l’ideatore è il controverso, e talentuoso, regista Bryan Singer) per distribuire contenuti in rete, quando ancora non c’era del tutto lo streaming.
Nella narrazione, l’umanità di un futuro molto prossimo (di fatto identico al presente) si impianta in massa un chip di interfaccia internet-cervello. Un bel giorno, qualcuno manda un virus, che uccide la stragrande parte della popolazione. Un caso di Single Point Failure: se tutto il sistema è collegato ad un unico punto, e quel punto viene attaccato, l’intero sistema cade – cioè muoiono tutti. Tipo, avete presente, se facessero lo stesso vaccino a tutta la popolazione, e poi risultasse che esso ha effetti devastanti… ma questa è un’altra storia.
Nella storia di H+ c’era anche una propaggine italiana, dove un prete sopravviveva alla strage globale perché si era rifiutato di farsi impiantare il chip (l’impianto veniva fatto, significativo, con una semplice siringa…), mentre tutti i colleghi sacerdoti erano invece felicemente chippati. Una parte del plot vede il prete vagare per l’Italia meridionale, dove vi sono ovunque posti di blocco di soldataglia africana: scopriamo che masse di africani armati, senza che si tratti esattamente dell’esercito, hanno invaso l’Italia sterminata. Gli africani – esattamente come poi sarebbe avvenuto nella realtà del vaccino COVID – hanno rifiutato l’iniezione del chip.
Quindi: immagini hollywoodiane di africani che comandano in Italia. Ma il mio sogno era più preciso di così. Sento che posso scendere ancora di più.
Ecco che nella mia mente trovo un ulteriore strato che mi racconta la scena onirica di cui stiamo parlando: è Il mondo senza donne (1936) di Virgilio Martini (1903-1986). Romanzo introvabile, censurato ai tempi dei fascisti e poi ai tempi dei democristiani. L’autore, che poi riparò in Sud America, è considerabile come uno dei pochi veri scrittori di fantascienza italiani.
Nel libro di Martini l’umanità viene sterminata in modo molto selettivo: semplicemente, muoiono tutte le donne, a causa di un’arma biologica – una pandemia – lanciata da un gruppo di omosessuali. La sparizione delle femmine porta il collasso delle nazioni e delle società, finite preda di una violenza senza fine da parte dei maschi impazziti. Ad un certo punto, a risolvere tutto è un presidente-dittatore di un improbabile Stato africano – che ai tempi in cui è stato scritto il testo nemmeno esistevano, c’erano le colonie! – che con un messaggio alla radio convince tutti gli uomini a finire di uccidersi, divenendo quindi sul colpo imperatore planetario.
La storia va avanti, ma quest’idea – davvero preconizzante, in anticipo di decennio, forse di un secolo – secondo cui il crollo della società occidentale porta ad un dominio africano mi aveva sempre colpito nel romanzo di Martini.
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Scendo ancora più in basso nel cervello, dove riaffiora un ricordo imprevisto: un tizio (un poliziotto, a dire il vero) nero che mi urla ordini da una macchina, prendendomi di sorpresa, l’ho visto. L’ho vissuto. Davvero.
Mi capitò in una cittadina sperduta nelle pianure dello Zambia, una dozzina di anni fa, alle sei del mattino di una domenica d’estate: io, pensate un po’, cercavo di ricordare dove fosse la chiesa per andare a messa – ma ammetto che ci andavo anche per comprare la pizza eccezionale che facevano alla forneria della parrocchia, dove gli africani erano stati istruiti da una ridda di panificatori lombardi pensionati andati lì per insegnare il lavoro – la funzione religiosa era spesso incomprensibile, con magari il classico caso di donna africana posseduta, ma oramai il contesto lo conoscevo.
E invece: ecco che mi perdo in auto per le larghe, larghissime strade della cittadina nel nulla del bush, praticamente all’alba. Mi fermo col pickup sul ciglio della strada, che è enorme, è un telo di cemento vecchio e crepato senza linee segnaletiche da nessuna parte. Chiedo all’unica persona che vedo – dormivano davvero tutti, si vede – dove si trova la chiesa.
A quel punto, nella strada deserta, una macchina si appaia alla mia. Un uomo africano, dalla sua auto senza parabrezza, e con due misteriose donne silenti caricate sul retro, comincia a parlarmi con tono sostenuto, e vedendo che non capivo cosa volesse, si mette in testa un cappello da poliziotto, di modo da rivelare la sua autorità. Mi dice di seguirlo alla centrale di polizia, che è lì davanti, facendomi significativamente passare davanti alla gabbia dove tenevano gli arrestati del sabato sera (quelli ubriachi e facinorosi), i quali c’è da dire che vedendomi arrivare si illuminano di simpatico interesse.
Segue, nell’ufficio di polizia, quello che ritengo essere una richiesta di pagamento per una multa improbabile – vogliamo dire un tentativo di estorsione o giù di lì? Difficile capire la gente, in Africa: me lo hanno spiegato perfino i missionari, e lo ho imparato. Alla fine, pago nulla, ed esco dalla situazione – cioè, dalla galera zambiano – usando una parola magica che mia sorella, telefonata quando è ancora profondamente addormentata in una casa a chilometri di campi di canna da zuccherò più in là, mi suggerisce di proferire. Come dico la parola, il problema magicamente scompare. Però questa è un’altra storia, che racconterò solo qualora i lettori lo chiedessero.
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Insomma: mi trovo a ricordare che il mio sogno mattarelliano con i neri che dettano ordini può perfino avere radici autobiografiche. Tuttavia, se faccio un altro respiro profondo, l’anamnesi mica finisce.
Se riemergo ad un livello di superficie, mi accorgo che c’è dell’altro: un’immagine più recente, e concreta. Eccomi, pochi giorni fa, ad una domenica senz’auto. Sì, l’idiozia che prima o poi sparirà speriamo: anche perché obbligare le donne a camminare al buio delle città divenute pericolose per loro — divenute pericolose chissà perché – non è una politica tollerabile, in teoria nemmeno per chi ha in casa l’altare con il feticcio del cambiamento climatico (e in tasca la tessera del PD).
Ho in macchina le due donne più importanti della mia vita, siamo al limite della città pedonalizzata per diktat ecofascista: mi fermo ad una transenna che hanno piazzato a sbarrare la via proprio sotto quella che è un’antica porta nelle mura medievali. Il portone non c’è, il Medio Evo neppure (in teoria), eppure non posso passare.
A controllare gli accessi, c’è, abbacchiato su un paracarro, un ragazzo africano con giubbino fluorescente da collaboratore pubblico – come i netturbini, gli «assistenti» della sosta, talvolta vigili etc. Osservo che sul bavero il ragazzotto nero ha stampato una mostrina: «volontario». Mi guarda, mi squadra. Sento che ha voglia di dirmi qualcosa, del resto ho fermato la macchina, per far scendere le ragazze, a pochi metri dal «suo» confine. Scendo per aprire le portiere. Vedo che desiste dal dirmi qualcosa, ficcando le mani ancora più a fondo nelle tasche.
Risalgo in macchina e parto: al varco successivo c’è un altro nero in uniforme arancione fluo. Così anche a quello dopo. Di lì capisco il pattern: l’autorità ha messo neri in uniforme a comandare sui cittadini.
Qualcuno lo può trovare come un livello umoristico della sostituzione etnica: stiamo importando non chi lavorerà con noi, ma chi ci comanderà, chi ci sorveglierà. Non stiamo facendo entrare, lo sappiamo bene, ingegneri e medici, ma nemmeno operai ed infermieri – stiamo importando chi in futuro servirà a dominarci e a reprimerci. Dietro l’immigrato dell’Africa nera, quindi, più che il netturbino o il lavoratore della conceria (i celeberrimi «lavori che gli italiani non vogliono più fare», come no), il poliziotto?
Se ci pensiamo, la meccanica sociale del fenomeno è pienamente comprensibile: è la realizzazione tecnica di uno stadio dell’anarco-tirannia, dell’inclusione del caos etnico e civile come strumento di potere verticale. Il potere stesso coopta elementi estranei – che, si suppone, potrebbero essere arrivati qui in maniera illegale – provenienti da contesti di civiltà implosa o mai esistita (è la scusa per dire che scappano, no?) per controllare, un domani reprimere, la popolazione, con la ferocia necessaria. Una ferocia di fatto difficilmente trovabili nei contesti dei Paesi occidentali, dove la società non è ancora del tutto collassata.
Gli immigrati diverranno nostri guardiani, nostri carcerieri: l’idea è stata lanciata da qualcuno negli ultimi anni di ondata migratoria. In Inghilterra qualcuno si è spinto a dire che vi sarebbe un programma, con addestramenti già effettuati, per far diventare le masse immigrate come le unità di repressione nel futuro lockdown.
John O’Looney, un uomo delle pompe funebri che rimase sconvolto dallo scoprire quei coaguli tentacolari, filamenti fibrosi simili ad un calamaro, che hanno preso ad ostruire il sistema circolatorio dei defunti da imbalsamare, lo ha detto all’imprenditore ed attivista Brexit Jim Ferguson: «posso dirti che questi sono soldati delle Nazioni Unite e saranno schierati dall’OMS quando annunciano il prossimo lockdown pandemico».
L’O’Looney, da quando ha lanciato l’allarme per i «calamari» comparsi improvvisamente nei cadaveri, raccoglie ogni sorta di confidenze. Qualcuno con entrature nelle cose dell’esercito gli ha raccontato in dettaglio questo piano allucinante: «questo è ciò che accadrà. Sono stati addestrati da soldati britannici. Sono stati addestrati dal reggimento Black Watch. Sono stati addestrati ad Adalia, in Turchia e nell’Ucraina orientale. Sono prevalentemente scesi al grado di sergente. Vengono poi spediti in Francia. Hanno firmato tutti l’Official Secrets Act, poi sono stati traghettati».
L’uomo parla di masse di immigrati che sarebbero stati di fatto militarizzati. Per essere schierati contro la popolazione autoctona.
«Truppe ONU introdotte come migranti rifugiati per reprimere la popolazione nel prossimo lockdown OMS» pic.twitter.com/vK0ieCMcsx
— Renovatio 21 (@21_renovatio) May 27, 2024
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Non c’è modo di pensare che programmi simili, se esistono, siano pensati solo per la Gran Bretagna. E del resto, guardiamo in casa, e vediamo che immigrazione e forze militari non sembrano delle realtà incompatibili. Abbiamo in testa le camionette verdi, con dentro e fuori soldati armati, nei dintorni delle stazioni ferroviarie italiane: gli immigrati le considerano un deterrente? Smettono, in quell’area, di rubare, spacciare, picchiarsi? No: evidentemente non ne hanno paura.
Gli stranieri – e attendiamo chi ci può smentire – non hanno più paura di polizia e carabinieri. Un tempo forse quando vedevano una voltante si nascondevano, avessero o no i documenti. Ora invece vediamo le questure semplicemente invase da extracomunitari: sono gli immigrati, di fatto, il principale cliente di tanti uffici pubblici.
L’immigrato afro-islamico… come alleato delle forze dell’ordine? Possibile: ripetiamo, la formula nel Nuovo Ordine prevede la fusione di legge e caos – ordo ab chao. Quanti, in questi anni, hanno a loro volta notato che, più che donne, vecchi e bambini (quelli che di solito «scappano dalle guerre»), abbiamo importato giovani maschi atletici in età militare? Tutti.
Di qui può sorgere l’illuminazione: ecco perché le questure ad alcuni possono sembrare oramai istituti per l’accoglienza degli immigrati, più che per i servizi ai cittadini. Se dovete fare una denuncia, potreste aspettare sei, sette ore. Gli extracomunitari, invece, in questi anni hanno visto moltiplicarsi gli uffici a loro dedicati.
E quindi, quando in qualche servizio TV la borseggiatrice dell’autobus dice «lasciatemi stare, se rubo non interessa nemmeno alla polizia», cosa significa davvero?
E quando sentiamo storie di ragazzini immigrati bulli che spadroneggiano, contro compagni e pure insegnanti, alle elementari, medie, superiori? Che significato ha questo fenomeno?
Quando minorenni «etnici» creano rivolte violente (o anche solo festeggiamenti per il calcio o il nuovo anno), attaccando la polizia, minacciando i cittadini, quando invadono intere località turistiche di fatto cancellando il potere dello Stato italiano, abbiamo capito cosa sta succedendo?
Sta succedendo che, con ogni probabilità stiamo diventando persone senza diritti, senza rispetto, a cui poter urlare ordini incomprensibili: in una parola, schiavi. Il ribaltamento tanto agognato è servito: europei schiavi degli africani.
Quindi quanto manca alla nostra sottomissione definitiva?
Lasceremo che questo accada?
Lasceremo ai nostri figli questo osceno futuro di schiavitù e persecuzione?
Lasceremo ai nostri figli, più che i nostri sogni, un Paese da incubo?
Roberto Dal Bosco
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