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Mistica dell’Ultra-MAGA: Trump e il «mandato del cielo»

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Ieri mattina, viaggiando con un amico sull’A4, ho visto due aerei da guerra che volavano bassi.

 

Erano americani? Non ho fatto in tempo a discernerlo, stavo guidando. Venivano da che base? Ghedi? Istrana? Aviano? Potevo solo fare supposizioni.

 

Il fatto è che, per qualche attimo, ho sentito distintamente un sentimento di paura. Così, una reazione subitanea, non mediata da nulla se non dall’animo. E se fanno partire una guerra oggi…?

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Se pensate che il pensiero di un disastro militare internazionale nel giorno del voto della grande burocrazia – pardon, democrazia – USA sia peregrino, sappiate che ieri gli USA hanno indetto, per pura coincidenza, un test del Minuteman III, un missile balistico intercontinentale ipersonico a capacità nucleare. Proprio nelle ore delle elezioni: ma guarda che combinazione.

 

Ogni cosa poteva succedere in queste ore. Come avevo predetto, non c’è stato discorso di concessione da parte di Kamala – è troppo vuota, troppo pupazza, per ammettere la sconfitta; parlerà solo quando i pupari le diranno di farlo, e abbiamo già visto come Obama poche ore fa se ne è uscito con un discorso pazzesco sul fatto che ci potrebbero volere giorni per certificare il voto.

 

(Sulla strana personalità di Kamala, che sembra direzionabile, malleabile a piacimento, capace di qualsiasi contraddizione e non in grado di esprimere un’idea sua che non sia la ripetizione di un talking point assegnatole, sono avanzate in questi ultimi giorni ipotesi sorprendenti, come quella secondo cui potrebbe essere un prodotto del progetto MK-Ultra: non sappiamo se chi ha fatto la sparata ora sentirà il bisogno di approfondire).

 

Non mi aspettavo, certo, la valanga di voti, con il ribaltamento di Georgia, Pennsylvania, Wisconsin, i tre Stati chiave, finiti tutti e tre senza problemi in mano a Trump. Vedevo l’uomo e il suo entourage – tra cui contiamo, ora, pure Elon Musk – particolarmente tranquilli. Dobbiamo farlo too big to rig, troppo grande per un broglio. Seguendo alchimie politiche percentuali precise, hanno portato a casa il risultato. E magari i voti sarebbero ancora di più, perché è impensabile che non vi siano stati tentativi da parte dell’establishment di truccare anche queste elezioni.

 

È più che una vittoria storica, è un cambiamento di paradigma totale. Più che il Partito Repubblicano, che certo ha fornito l’infrastruttura, ha vinto il movimento MAGA. La spinta popolare più netta, unita, potente vista in questi anni, in tutto il mondo. Come se il popolo americano avesse ritrovato, dopo decadi di sentimenti oscuri, fiducia in se stesso.

 

Il popolo ha fatto vincere la democrazia, o forse no. Di fatto, gli USA paiono ora una monarchia – un unico al vertice, con tantissimo potere, secondo alcuni esattamente quello che volevano i padri fondatori americani, che si ribellarono a Londra perché volevano una monarchia senza re ed una aristocrazia senza nobili.

 

Chi ha visto la convention repubblicana di luglio, quella fatta con il cerotto all’orecchio poche ore dopo l’attentato di Butler, si è reso conto che oramai l’intera famiglia Trump ha colonizzato il partito e il discorso politico: dopo che al microfono si sono susseguiti figli e nuore varie, parenti amici di famiglia di ogni sorta, ha parlato dal palco persino la nipote 18enne, figlia di Don jr. È un casato, una dinastia reale. E con il popolo, nella democratica America, che l’acclama come tale.

 

Non abbiamo mai dato peso alle storie di QAnon, che come avete visto sono sparite completamente in questi anni. C’era questa sorta di religione oracolare, alimentata da misteriosi, criptici messaggi postati su internet, che descriveva Trump come una sorta di eroe con un’agenda segreta, un piano occulto in via di svolgimento che avrebbe sconvolto il Paese e riportato la giustizia.

 

Si trattava di una sorta di messianismo immanente: Trump non era investito di poteri soprannaturali, ma gli veniva assegnato questo ruolo salvifico nell’opera di imminente distruzione, dicevano, dell’élite corrotta e perversa. Ho ritenuto che si trattasse di qualcosa di vago e di losco, e guardando il documentario HBO Q Into the Storm (2021), con il regista che ritiene di aver capito chi vi era dietro, ho trovato conferma alle mie sensazioni.

 

Tuttavia, vale la pena di ricordare che la realtà, anche stavolta, è ben più bizzarra della finzione. I Qanonisti sostenevano che Trump avrebbe tirato fuori i nomi dell’élite pedofila di Washington ed Hollywood: il biondo ha annunciato che vuole pubblicare la lista di Epstein, mentre ci si chiede cosa accadrà a quella di Puff Daddy – con quantità di divi ospiti del rapper lubrificatore che hanno apertamente appoggiato la Harris, compresa l’ex fidanzata, l’irriconoscibile Jennifer Lopez.

 

Il mondo di QAnon bisbigliava di tunnel sotterranei a Nuova York, dove avvenivano indicibili traffici: ebbene, tutti ricordiamo con stupore ancora vivo i sotterranei scoperti sotto le sinagoghe hassidiche di Brooklyn.

 

Ancora: i Qanonimi dicevano che, ad una certa, grazie a Trump e al suo piano sarebbe uscito dalla latitanza John John Kennedy, il figlio di JFK morto nel 1999 in un incidente aereo (en passant, rammentiamo che sarebbe stato sfidante di Hillary Clinton per il seggio senatoriale democratico nella Grande Mela): ebbene, con Trump un Kennedy, il cugino Robert junior, sta per tornare davvero al governo degli USA.

 

Sì, what a time to be alive stanno dicendo molti ora. Che epoca incredibile ci tocca di vivere.

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Eppure, vogliamo andare un po’ oltre, e parlare di qualcosa che va oltre la stramberia del cospirazionismo realizzato. Vogliamo parlare dello spirito, vogliamo parlare della cifra mistica di ciò che sta accadendo.

 

In Cina, le dinastie imperiali iniziate 3000 anni fa con i Zhou hanno goduto nei millenni del Tiānmìng (天命), il «mandato del cielo».

 

L’idea, definita in seguito da filosofo confuciano Mencio, è che il cielo (天, Tiān) approva il sovrano giusto fornendogli un mandato a regnare. Il potere politico, quindi, ha giustificazione politica che viene dalla morale e dalla divinità. A differenza dell’Europa, non era necessario che alla base di una dinastia ci fosse un nobile: il mandato del cielo si estendeva a uomini comuni, come i fondatori delle dinastie Han e Ming, perché esso derivava dalla virtù del regnante, prima che dal suo lignaggio.

 

Possiamo dire che Trump abbia avuto un mandato del cielo? Sì. Di questo, personalmente, siamo convinti – dopo l’attentato che gli ha sfiorato l’orecchio, dal quale si è rialzato mostrando una fibra morale mai vista prima (con annessa foto del secolo, ottenuta naturalmente a fronte di immagini iconiche come quella di Iwo Jima che sono artefatte) e disprezzando l’idea di rintanarsi in casa lontano dai comizi mentre in circolo ci sarebbero almeno cinque team di assassini, alcuni dotati di missili terra-aria, con l’ordine di ucciderlo. (Qui ricordiamo i dittatori uccisi mentre scappano o suicidi mentre si rintanano tra il tanfo del piscio nel bunker)

 

L’attentato di Butler ci ha lasciato senza parole: perché una cosa così non l’abbiamo mai vista. O meglio: giammai abbiam veduto qualcosa che assomiglia di più ad un intervento divino.

 

Come ha detto Tony Hinchliffe, il comico che al comizio del Madison Square Garden della settimana scorsa ha rischiato di far deragliare la campagna di Trump con la battuta su Porto Rico e spazzatura (in realtà, è stata la propulsione per la gaffe odiosa di Biden e il conseguente irresistibile sketch del Trump-netturbino): «noi voteremo il 5 novembre, Dio ha votato il 13 luglio».

 

Non è possibile spiegare in altro modo l’accaduto: i complottisti, che ora stanno a sinistra, hanno provato a dire che era tutta una scenata per prendere voti, tuttavia, oltre ai morti, ricordiamo anche il New York Times che pubblicò l’immagine della pallottola che sfreccia nell’aere, captata per caso dalla macchina del fotografo.

 

Dio vuole che Trump governi? È molto probabile. E la spiegazione che ci siamo dati è piuttosto semplice: certo, Nostro Signore odia l’aborto, ma potrebbe odiare ancora di più la guerra termonucleare globale. Perché la guerra atomica è l’aborto della civiltà. L’assassinio dell’umanità tutta.

 

Il cielo ha assegnato il suo mandato, perché il rischio è che il cielo si ritrovi senza la terra.

 

E quindi, è giusto, per quanto possa sembrare sconsiderato, sentire la cifra mistica di questo momento. È possibile dire: ma Trump ha detto di essere abortista, vuole liberalizzare la provetta (che fa più vittime dell’aborto), con la religione cristiana c’entra poco. Magari è tutto vero: ma quando mai si era visto al mondo che una regolamentazione abortista – la Roe v. Wade – venisse ritirata? Con Trump: una promessa mantenuta tramite la Corte Suprema.

 

Perché se Trump è uno strumento della Provvidenza lo è in quanto essere umano, in quanto essere imperfetto – come tutti noi. È Dio che sa scrivere dritto su righe storte. E al momento, sembra proprio che questa pagina la vuole scrivere.

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Da qui, mandiamo un caro saluto anche ai Soloni ebeti, abbondanti assai nel giro della cosiddetta «controinformazione», che ora berciano il classico «tanto non cambia nulla». Imbecilli: se solo cambiano gli algoritmi censorii di internet (cosa fattibile in un minuto) la rivoluzione sulle nostre vite, potendo dire ed ascoltare la verità, sarebbe immane. Ne sappiamo qualcosa.

 

E ribadiamo: la fine dei banning su internet (non solo sui social), sarebbe un low hanging fruit, un risultato semplice da ottenere.

 

Immaginiamoci il resto: e se Trump comincia, come ha promesso, aa deportare gli immigrati, significa che anche in Italia possiamo cominciare a parlare di «remigrazione»?

 

Se Trump toglie, come promesso, gli uomini dagli sport femminili, significa che magari possiamo arginare la follia gender anche nelle scuole e nelle cliniche italiane?

 

Se Trump chiude con la buffonata ucraina, significa che possiamo tornare ad avere energia a basso costo?

 

Se Trump affonda la NATO, significa che finalmente possiamo avere la pace in Europa?

 

È tanta roba. C’è davvero da perdersi in questa mistica del MAGA, anzi, come si era iniziato a dire l’anno passato, ultra-MAGA. Perché né più e né meno potrebbe trattarsi di un movimento di rigenerazione dell’intero mondo – con le nostre esistenze quotidiane incluse.

 

Concludiamo con un segno concreto di celebrazione, un qualcosa per ricordarsi per sempre di questa giornata. Quattro anni fa, nei mesi in cui la lotta post-elettorale di Trump sembrava possibile, avevamo avuto l’idea di fare una maglietta da vendere ai lettori di Renovatio 21, che allora ci raggiungevano, en masse, tramite Facebook. Circolava questa espressione, quella del «Kraken», il mostro che – come da battuta del film Scontro di Titani (1981) conservata pure nel remake del 2010– sarebbe stato liberato con esiti devastanti.

 

Creammo dunque un simbolo, che chiamammo «Donald Kraken». Un’icona che doveva finire su di una t-shirt per chi segue Renovatio 21. Non facemmo in tempo a realizzarne la produzione – erano, peraltro, i mesi del lockdown duro, e di lì a poco si sarebbero abbattute su di noi censure ed avvertimenti…

 

Il Kraken, come sapete, nel 2020 non venne liberato. È libero ora.

 

La maglietta quindi, a questo punto la rendiamo disponibile.

 

È questa.

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Cotone organico, realizzata in serigrafia – cioè, senza stampa digitale, ma con macchine manuali.

 

Se la volete, costa €49, spese di spedizione in Italia incluse: potete pagare con PayPal, indicando la taglia e l’indirizzo. Per ogni questione ulteriore, scriveteci.

 

Portate pazienza: a breve avremo un ecommerce serio, sì. E con altri prodotti. A breve, giuriamo – perché senza non è che possiamo andare avanti molto.

 

Intanto però volevamo fare questa maglietta, e spedirla a chiunque voglia ricordarsi di questa storia.

 

Lo dobbiamo allo spirito dell’Ultra-MAGA, lo dobbiamo al mandato celeste palesatosi sotto i nostri occhi.

 

Lo dobbiamo ai nostri lettori, perché oggi siamo mostruosamente felici.

 

Roberto Dal Bosco

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Dire «Cristo è re» è «antisemitismo»: studio firmato da Jordan Peterson

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Uno studio pubblicato da un’organizzazione no-profit liberale fondata da un intellettuale ebreo condanna come «antisemitismo» la frase «Cristo è Re» – un’espressione al centro di accese polemiche negli ultimi mesi. Lo riporta LifeSite.   Giovedì 13 marzo, il Network Contagion Research Institute (NCRI) ha pubblicato uno studio di 20 pagine intitolato «Il tuo nome in vano: come gli estremisti online hanno dirottato “Cristo è Re”».   L’NCRI è stato fondato nel 2018 da Joel Finkelstein, un ricercatore presso l’università Rutgers che in precedenza aveva lavorato per l’Anti-Defamation League, l’ente ebraico dedito alla censura di quello che ritiene «antisemita» e ora anche «razzista». L’NCRI si propone di denunciare «la diffusione di contenuti ideologici ostili” online lavorando per «identificare e prevedere minacce cyber-sociali».

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Finkelstein è coautore del paper con il celebre psicologo canadese Jordan Peterson (una star di YouTube negli ultimi anni), insieme ad altri 11 accademici, la maggior parte dei quali sono ebrei. Il Peterson ha difeso a gran voce il paper sui social media.   Lo studio sostiene che il termine «Cristo Re» è stato «strumentalizzato» da «estremisti politici» che lo stanno usando per promuovere «narrazioni escludenti e piene di odio».   «Gli estremisti in America hanno iniziato a distorcere il significato della frase e la stanno sfruttando come un simbolo in codice … per destabilizzare la politica americana, infiammare le tensioni all’interno della società civile e incoraggiare l’odio verso le minoranze», si legge nello studio.   Per sostenere la sua tesi, il rapporto include screenshot di X post pubblicati da personalità pubbliche note in rete come Candace Owens, Jack Posobiec e Nick Fuentes (tutti e tre cattolici) tra gli altri.   Come noto, la Owens – ora cattolica partecipante al pellegrinaggio tradizionalista Parigi-Chartres – era stata licenziata dal gruppo The Daily Wire (un conglomerato «conservatore» di programmi YouTube fondato dall’opinionista ebreo Ben Shapiro) l’anno scorso per aver promosso la frase. Andrew Klavan, conduttore di una delle trasmissioni del Daily Wire sedicente cristiano convertito, ha sostenuto che si trattava di un «tropo antisemita» e che era come «sputare addosso» a Ben Shapiro, che porta sempre la kippah.   Nello studio viene menzionato pure il vescovo Joseph Strickland, che – a riprova di una certa ignoranza sulle questioni religiose sulle quali la dozzina di autori vuole discettare – viene descritto in modo inesatto come un «ex» vescovo cattolico. Sebbene Strickland sia stato rimosso da Bergoglio dal suo incarico di vescovo di Tyler, Texas, nel novembre 2023, non è stato scomunicato né privato dell’ordine sacerdotale. È noto inoltre che secondo la dottrina cattolica il titolo di vescovo non può essere tolto.   Tra gli autori di fatto non vi sono cattolici e vi è forse un solo cristiano, l’evangelico Johnnie Moore, già capo di alcune commissioni ed enti con la parola «libertà» nel titolo, nonché premiato con una medaglia al valore dal Simon Wiesenthal Center, l’organizzazione ebraica intitolata al celebre «cacciatore di nazisti».   Il protestante Moore ha assunto un ruolo attivo nella promozione dello studio dell’NCRI sui social media, difendendolo di fronte al massiccio contraccolpo della Owens e decine di altri commentatori cristiani.   «Il termine CRISTO È RE… viene dirottato dagli estremisti antisemiti per manipolare i cristiani», ha affermato Moore giovedì.   Come scrive LifeSite, lungi dall’essere un centro di ricerca «neutrale» di terze parti, l’NCRI è legato a diversi gruppi di sinistra e ha promosso molti punti di discussione del Deep State sin dal suo inizio.   Nel 2021, ol Finkelstein è apparso sulla trasmissione di inchiesta americana 60 Minutes per criticare la «disinformazione» sui vaccini anti-COVID e sull’uso delle mascherine. Il suo gruppo ha anche affermato che i «propagandisti russi» erano da biasimare per la «disinformazione» in atto.   Nel 2019, l’NCRI ha stretto una partnership con la radicale anti-Defamation League (ADL), potente ente che funge da «inquisizione» di idee non allineate, che di recente dalle questioni ebraiche si è spostato su temi come razzismo e omofobia, cercando di colpire anche figure del calibro di Tucker Carlson e Elon Musk. Un comunicato stampa emesso all’epoca spiegava che avrebbero «prodotto una serie di report che analizzassero in modo approfondito il modo in cui l’estremismo e l’odio si diffondono sui social media».   L’ADL consiste de facto in un gruppo di pressione ebraico che ha diffamato i cattolici tradizionali e attaccato la Santa Messa tradizionale per molti anni. Il Finkelstein ha lavorato come Research Fellow per l’ADL dal 2018 al 2020. Moore stesso ha prestato servizio come membro del Board of Trustees dell’ADL a Los Angeles. Moore ha anche lavorato con la Middle East Task Force dell’ADL.   L’NCRI è stato sostenuto da altri gruppi di sinistra e sionisti. La testata di sinistra Mint News riferisce che avrebbe ricevuto oltre 1 milione di dollari dalla Israel on Campus Coalition (ICC), un gruppo che cerca di diffondere il sionismo nei college statunitensi. La testata di sinistra Grayzone ha anche scoperto che l’NCRI ha elencato la Open Society Foundation di George Soros come affiliata fino a quando non ha eliminato quella sezione dal suo sito web nel 2021.   L’attuale sito web dell’NCRI include un elenco di consulenti strategici. Tra questi c’è il professor Robert George di Princeton. George è cattolico e ha legami con molti gruppi influenti e importanti cattolici coinvolti nella politica a Washington DC. Ha trascorso molti anni a promuovere il dialogo tra cattolici ed ebrei.

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Membro del Council on Foreign Relations (CFR), il George sembra aver incontrato Finkelstein durante gli anni del college, quando Finkelstein frequentò Princeton, scrive LSN. Il Finkelstein fu anche visiting scholar per il James Madison Program di Princeton, di cui George è a capo.   Il George ha condiviso un articolo sul suo account X questa settimana, invitando i cattolici a «1essere solidali con i nostri fratelli ebrei». Sebbene non abbia condiviso il rapporto del NCRI, ha condiviso un saggio scritto dal cardinale Timothy Dolan di New York. Il saggio è stato pubblicato un giorno prima della pubblicazione dello studio del NCRI e rimproverava «coloro che sui social media si definiscono cristiani ma diffondono odio contro gli ebrei». La tempistica della pubblicazione dell’articolo solleva la questione se sia stato coordinato per amplificare il messaggio del NCRI.     Da tempo Renovatio 21 aveva in cuore la stesura di un articolo intitolato «Basta con Jordan Peterson», per porre argine all’immeritata popolarità che l’ex accademico canadese ha in tanti ambienti conservatori e non solo. Solo chi non conosce la sua figura può essere colpito dal fatto che l’uomo che ha basato la sua fama sul rifiuto di sottomettersi al linguaggio altrui opponendosi ai pronomi gender all’università ora firma saggi per condannare chi usa una propria espressione religiosa.   L’espressione «Cristo Re» ha le sue radici nella Bibbia dove Gesù è detto Re (basileus), Re dei Giudei (basileus ton Iudaion), Re d’Israele (basileus Israel), Re dei re (basileus basileon) per un totale di 35 volte.   La regalità di Cristo,e la necessità di principi e governanti di sottomettersi ad essa, è ribadita consistentemente nell’enciclica Quas Primas del 1925 di Papa Pio XI : «non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria».   Va quindi considerata come pura spazzatura e manipolazione tutta la serie di video lezioni che il Peterson ha dedicato alla Bibbia e alla figura di Cristo, che riesce ad intendere, secondo la mentalità junghiana che emerge dal suo lavoro universitario, come simbolo, più che come realtà vivente ed eterna.   Renovatio 21, che lotta costantemente contro la piaga dell’uso degli psicofarmaci, ricorda anche come il Peterson mentre dava al mondo i suoi consigli per vivere meglio (con libri tradotti in italiano anche da Mondadori) in realtà assumeva benziodiazepine sino a divenirne dipendente. Sparito per un periodo dalla circolazione, si raccontò poi che i famigliari lo avevano portato in Russia e in Serbia per curarsi.   Di lì a poco sarebbe stato assunto dal Daily Wire, il gruppo mediatico dell’ebreo Ben Shapiro, che gestiva stelle di YouTube a fior di milioni di dollari (Stephen Crowder, che doveva entrare nel gruppo ma rifiutò, parlò di un contratto da 60 milioni di dollari), arrivando a finanziare persino la creazione di un polo cinematografico che si voleva alternativo ad Hollywood: da dove arrivassero tutti quei soldi, piovuti improvvisamente in ambiente conservatore, in molti se lo sono chiesti più volte.

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Uscito dalla crisi psicofarmaceutica e dall’università, il Peterson riemerse in un incredibile video in cui pranzava in Israele assieme a Ben Shapiro e al premier dello Stato Ebraico Beniamino Netanyahu. Osservando il video, si possono notare persone che mangiano sullo sfondo, a indicare che il video era stato concepito per sembrare il più casuale e naturale possibile (si può mangiare nella stessa stanza di Netanyahu, una delle persone più minacciate al mondo? Davvero?).   Già quel video faceva capire il disegno complessivo, che rivela una verità profonda e risalente: l’intero movimento conservatore è infiltrato dagli interessi di un etno-Stato, con le icone e le vedette intellettuali concupite e messe a libro paga (e forse, qualcuno sussurra pensando al caso Epstein, ricattate).   Il conservatorismo, ha detto E. Michael Jones (un altro che ha avuto i suoi problemi con ADL e compagni) è un meccanismo creato «per farti rimanere stupido».   L’industria culturale, anche ai tempi di YouTube, anche per la destra, funziona così: narcosi e manipolazione pura.

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Ecco il reato di femminicidio. E la fine del diritto

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Femminicidio, tanto tuonò che piovve. Di questa ennesima «conquista di civiltà» si era già tanto sentito a fasi intermittenti, e i giochi sembravano fatti da tempo.

 

Il termine sgangherato circolava da quando quella idea distorta era già stata inoculata di soppiatto in quel capolavoro di brigantaggio legislativo che aveva assunto da solo il titolo onorifico di «Buona scuola». Infatti, faceva corpo unico col pacchetto avvelenato del gender per tutti, da distribuire nelle scuole di ogni ordine e grado per la formazione adeguata delle inermi giovani generazioni.

 

Un pacchetto confezionato nientemeno che a Istanbul, nel 2011 con la Convenzione stilata lì, chissà perché, dal Consiglio Europeo. Dunque farina del sacco di Bruxelles, come tutto il ciarpame che viene prodotto e distribuito da anni nella indifferenza o nella ignoranza di popoli da esso contaminati e oppressi. Infatti, tutto viene metabolizzato e alla fine legittimato in un processo di adeguamento passivo che sembra non dare scampo.

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Il DDL accolto trionfalisticamente dalle signore (ma anche dai signori) della politica, è lo specchio di un degrado culturale e in particolare giuridico che potrebbe diventare inarrestabile, di cui essi non arrivano minimamente a valutare le conseguenze, per grossolana ignoranza in alcuni casi, ma forse per mirata malafede in altri.

 

Di certo, ancora una volta si va ad intaccare il meccanismo sapiente e coerente, e per questo delicato, del sistema penale, ignorando o mettendo in programma conseguenze capaci di minare gli stessi assetti, peraltro già traballanti, dell’ordinamento giuridico e istituzionale.

 

Per mettere a fuoco correttamente quale sia veramente la posta in gioco, occorre lasciare da parte il contorno folkloristico del piagnisteo fuori tempo massimo e fuori luogo in cui il politicume di ogni colore cerca di ritagliare una propria aggiornata credibilità.

 

Tra Sette e Ottocento, menti illuminate e sostenute da una solidissima cultura umanistica, sentirono l’urgenza di dedicarsi allo studio della legge penale, con la speranza e la volontà di apportare ad essa quel contributo di conoscenza e di pensiero con cui gettare le basi dei moderni sistemi penalistici.

 

Era stato messo a fuoco come il problema eterno del delitto e della pena, da sempre fondamentale per la vita di una comunità organizzata, in un tempo in cui la tortura era ancora uno strumento per «rendere giustizia», portava con sé quello di un nuovo rapporto tra cittadino e potere che doveva essere e poteva essere riformulato sulla scia degli eventi rivoluzionari.

 

Si trattava di fondare lo «stato di diritto», dove il cittadino possa ottenere la protezione della legge anche nei confronti del potere costituito, e in cui tutte le moderne società sedicenti «democratiche» aspirano a sentirsi incastonate (va detto per onore di cronaca che per nostra signora di Bruxelles lo stato di diritto significa dovere dei sudditi di obbedire simul ac cadaver alle «regole» UE).

 

Ci si è resi conto che il diritto penale deve dunque difendere la società dai comportamenti antisociali dei singoli, ma anche dall’arbitrio del giudice e del legislatore. Ma queste finalità possono venire raggiunte attraverso l’elaborazione di un sistema di norme ordinate secondo una logica precisa e articolata. Con una tecnica legislativa capace di garantire il più possibile quegli obiettivi attraverso una precisa rete concettuale, che non deve lasciare spazio alla distorsione dei principi e della loro vocazione ordinatrice.

 

Anzitutto debbono essere individuati i valori che assicurano le condizioni di conservazione e sviluppo della società e che, come tali, vengono chiamati «beni giuridici».

 

Il reato è il comportamento lesivo che, offendendo quei valori predeterminati, mette in pericolo queste condizioni, e deve essere combattuto attraverso la minaccia prima, e l’applicazione poi, della pena da parte dello Stato. Questo assume il ruolo di chi subisce l’offesa in quanto espressione della intera collettività, e dispone del potere di infliggere la sanzione utilizzando i mezzi necessari allo scopo.

 

Se il reato è dunque la violazione di un valore meritevole di tutela, quello che viene punito è il fatto che viola il bene giuridico, indipendentemente dalle qualità di chi sia vittima del reato, qualità che incidono soltanto sulla gravità e quindi eventualmente sulla quantità della pena.

 

I fatti lesivi del valore tutelato vengono «tipizzati» cioè indicati in schemi astratti predeterminati che limitano l’oggetto dell’accertamento del fatto concreto da parte del giudice. La tipizzazione garantisce all’individuo di non essere esposto ad una incriminazione e ad un giudizio arbitrari, e al tempo stesso definisce il valore oggettivo tutelato, ovvero il bene giuridico violato dal fatto indipendentemente dal soggetto che ne sia portatore particolare.

 

Così, se ad essere tutelata è la vita umana, o la proprietà, o la fede pubblica, il valore offeso rimane il medesimo chiunque sia la persona offesa, salvo la graduazione della pena, come si diceva, se il fatto è stato commesso ai danni ad esempio di un minore o di persona in condizioni di menomazione fisica o psichica.

 

La tecnica normativa non si manifesta dunque come un informe catalogo di divieti e di minacce, ma come una rete concettuale determinata volta a comporre le esigenze contrapposte di difesa della società e di difesa da un uso arbitrario del potere punitivo. Si tratta di un sistema che risponde ad una logica che garantisce nei limiti del possibile l’applicazione corretta della legge e il soddisfacimento di quelle esigenze di tutela.

 

Così ad esempio, per venire al caso in questione, se il reato venisse calibrato sulle caratteristiche della persona offesa, avremmo un sistema penale basato su discriminazioni e privilegi, cioè esattamente in opposizione con quella che riconosciamo come una conquista di civiltà giuridica, ovvero di civiltà tout court.

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Un ritorno al tempo che pensavamo seppellito per sempre nella modernità, in cui l’uccisione di un feudatario era ritenuto più grave di quella del servo della gleba, e punito di conseguenza. E viene in mente in proposito la tremenda pena per squartamento, peraltro non proprio eccezionale, inflitta all’attentatore di Francesco I qualche secolo fa.

 

Ma tutto questo sfugge evidentemente ai virtuosi promotori, ai propagandisti di regime, ai mestatori di ogni risma, a politici impegnati per definizione, non si sa bene in cosa, fino alla Presidenza del Consiglio e dintorni, dove si fa sfoggio di qualche carenza formativa almeno sul piano dei concetti giuridici più elementari. Carenza che peraltro non andrebbe sottovalutata.

 

Infatti, in questa nuova forma di reato di genere, si potrebbe vedere, in fondo, il rovescio di quell’ «uccidere un fascista non è reato» che spopolava nei tempi d’oro della guerra per bande politiche. Perché il principio è lo stesso: il reato dipende dalla qualità della vittima. Ma su una base del genere si possono aprire scenari di ogni tipo nel grande varietà in movimento di cui siamo spettatori spesso attoniti.

 

Non occorre spendere ancora parole sulla disperante campagna fumogena che viene alimentata sul tema e che è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma basterebbe che si acquisisse coscienza anche della estrema pericolosità dello slittamento di un intero sistema normativo che, con inaudita irresponsabilità da parte degli organi di governo, viene intaccato nei suoi cardini e nelle sue chiavi di volta.

 

Perché senza una presa di posizione fortissima contro questa deriva da parte di giuristi e politici oculati, le conseguenze potranno diventare incontrollabili.

 

Patrizia Fermani

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Ecco la fine del giornalismo. E l’inizio della propaganda neofeudale

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Un lettore un giorno ha chiamato per significare il suo sostegno: era giusto, diceva, che aiutasse Renovatio 21, che gli arriva tutti i giorni aggratis, visto che pagava profumatamente l’abbonamento ad un noto quotidiano, considerabile come il più «indipendente» in circolazione.   Alla domanda su quale dei due, noi o loro, fornisse articoli più approfonditi sulla realtà presente, il lettore non ha esitato: noi.   Ora, alcuni si chiedono la differenza tra una testata indipendente come Renovatio 21 e una testata mainstream: ebbene, dietro ogni giornale tradizionale c’è una macchina grande come una montagna. Giornalisti, redattori e collaboratori, titolisti, correttori di bozze, grafici, direttori – e abbiamo solo iniziato. C’è chi stampa e chi distribuisce, chi tiene in piedi un sito (lavoro, lo sappiamo, non facile e costoso). C’è chi vende la pubblicità – una specie a parte, circolante nelle acque sempre meno profonde dell’editoria, una razza dai denti bianchissimi che ho imparato a conoscere a Milano tanti anni fa.

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Soprattutto, un giornale mainstream ha a differenza di qualsiasi «voce indipendente» come la nostra qualcosa di raro, rarissimo: un editore, o meglio, un editore con i soldi.   Perché mandare avanti la montagna e la sua macchina richiede una quantità di capitale assurdo, e visto che oggi il business di un giornale non è redditizio e nemmeno sostenibile, l’editore deve avere un qualche motivo non-economico per imbarcarsi nel mondo delle notizie. Niente di nuovo qui: i grandi giornali hanno storicamente dietro di loro imperi industriali e finanziari di vario tipo che vogliono, che devono, dare alle notizie uno spin che magari favorisca la loro esistenza: in Italia abbiamo visto gli Agnelli e i Berlusconi, ma non è diverso se pensate all’America dove il Washington Post lo ha comprato il padrone di Amazon (che era bersaglio di raffiche di articoli-denuncia sul concorrente New York Times) Jeff Bezos.   Ora, bisogna capire che l’editore con i soldi garantiva al giornale, al giornalista, oltre che uno stipendio (alcune volte pure buono) anche l’ulteriore elemento che rendeva necessario al giornalismo (oltre che alla civiltà, al progresso, alla giustizia, all’umanità), cioè la libertà di parola. La quale, come sa il lettore, non esiste in Europa, né tantomeno in Italia.   Dopo anni di Renovatio 21 lo sappiamo bene: come ti avvicini a certi argomenti, ecco che fioccano le lettere degli avvocati, minacce di ogni sorta, richieste di censura. Non è che ci stupiamo: è la dinamica fisiologica della finta democrazia, che altro non è che oligarchia: il potente si avvale dei suoi danari e contatti per mettere a tacere qualcosa che non vuole sia reso pubblico – e pubblicare a favore del bene comune ciò che dovrebbe rimane segreto è il compito del giornalismo.   Quindi, capite la vera funzione del giornale con dietro l’editore coi soldi: schermare il giornalista davanti alle richieste economiche devastatrici di chi ti denuncia. Tutto qua. Il giornalismo d’inchiesta, in pratica, non esiste senza un paperone dietro di esso. E chi mai vuole pubblicare una storia sconvolgente, sapendo che questa distruggerebbe per sempre la sua economia, la sua famiglia, la sua vita?   Benvenuti nella realtà: notate come scoop e rivelazioni, sulle quali poi si imbastiscono le narrative della cosiddetta controinformazione, sono portate avanti da giornali all’antica con alle spalle il gruppo editoriale solido. Tutti i canaletti Telegram, i sitarelli, i blogghini, i wannabe anchormanni che seguite su YouTube, almeno per quanto riguarda tante rivelazioni sul piano nazionale, sono di fatto parassiti del lavoro che fanno i giornalisti vecchio stile, spalleggiati da istituzioni e fondi che rendono possibile la difesa giudiziaria.   Ricordo ancora una serata – anzi oramai era notte – dopo un grande convegno organizzato anni fa da Renovatio 21 a fronte di un grande scandalo che ricorderete. A termine dei lavori, parlai con una giovanissima, brava giornalista di una grande testata che stava portando avanti il tema. Mi disse, in pratica, che era già stata denunciata dopo i primi articoli, e nemmeno da chi si aspettava, cioè dai protagonisti della vicenda, ma da un’ente che credo avesse citato solo di striscio. Le chiesi: ma non sei preoccupata? Lei rispose con semplicità: no, se ne occupa l’ufficio legale.

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Come dire: era davvero libera di scrivere quello che rilevava nella sua ricerca, condotta incontrando persone, scovando documenti, captando storie mentre era inviata nel territorio. Le querele, grazie alla schermatura, erano come rumore di fondo, un’evenienza quasi fisiologica del lavoro giornalistico. La noncuranza con cui sorvolava sul processo che poteva avviarsi mi stupì – e mi riempì di una sorta di bonaria invidia.   Sì, una questione organica, naturale, automatica: ho presente il sito dell’Ordine dei Giornalisti di una regione che, tra le pagina, ha anche un «SOS querele», in pratica una FAQ per il giornalista che finisce al solito denunciato da qualcuno. Ora, come questo sia compatibile con la tanto sbandierata «libertà di stampa» non è dato sapere, né come sia possibile che le leggi in Italia tendono a punire più severamente che si esprime contro politici e figure pubbliche, mentre quelle dell’Europa – dove comunque non esiste la libertà di parola, mettetevela via – attenuano, e rendono poi il risarcimento economico proporzionale alle possibilità del condannato (cosa che da noi invece non è).   Tutto questo per dirvi quanto consideri disperante la notizia battuta pochi giorni fa dal sito Dagospia e ripresa da Mowmag. Ci sarebbe una «cura dimagrante» in corso nei giornali del gruppo Angelucci – dominus della Sanità del Lazio, deputato della Lega Nord, personaggio verso cui confessiamo di avere simpatia visto il mondo in cui manda a quel Paese (diciamo così) i reporter microfonati che lo pedinano.   Angelucci, già editore di Libero, si è comprato dai Berlusconi anche Il Giornale. Voci dicevano che avrebbe avuto interesse anche per La Verità, mentre fece ancora più scalpore quando si disse che voleva acquistare l’AGI, l’agenzia notizie fondata dall’ENI. (Enrico Mattei, che nel 1956 aveva fondato pure Il Giorno, aveva compreso il summenzionato ruolo della stampa nelle dinamiche «democratiche» del padronato: decisamente)   Ora, scrive Dagospia, oltre ai tagli agli stipendioni come quello di Vittorio Feltri, sarebbero «previsti prepensionamenti a pioggia», «obbligo di strisciare il badge aziendale altrimenti la porta rimane chiusa (anche se il contratto giornalistico lo esclude)», «risparmio spasmodico per tutto: viaggi centellinati, gli inviati non vengono più inviati da nessuna parte (a meno che siano spesati e invitati da altri, immaginarsi che inchieste…) e tutti devono presenziare alla riunione del mattino dove Sallusti o non c’è o non dice una parola». In più non sarebbe «stato rinnovato neanche il noleggio dell’auto, concesso ai tempi di Paolo e Silvio Berlusconi».   Non siamo in grado di verificare l’indiscrezione, tuttavia possiamo anche dire che di questi dettagli non ci interessa nulla. È altro che ci fa sobbalzare.   Secondo la nota di Dagospia, ai grandi nomi dei due giornali «le spese legali sono ancora garantite per contratto, ma ai giornalisti no, tanto che un paio di cronisti hanno rischiato il licenziamento (per una querela)».   Viene buttato lì anche un elemento preciso «Filippo Facci, che ormai scrive per le pagine della cronaca di Milano, ha riferito in assemblea che si è dovuto pagare l’avvocato e una transazione economica da 30mila euro dopo una denuncia di un giudice antimafia».

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Facci, per chi non lo conoscesse, è una delle penne più alte di cui dispone oggi il giornalismo italiano. Samurai del tardo craxismo, abbracciato quando era giovanissimo, a lui dobbiamo tantissime storie riguardo il vero volto di Mani Pulite. A lui dobbiamo la disamina precisa di azioni e trasformazioni della magistratura italiana. A lui dobbiamo inchieste eccezionali, che si sono susseguite nei decenni: ricordiamo quelle su Di Pietro, ma anche una, antica e profetica, sulla vita a Genova di Beppe Grillo prima che il suo partito sfondasse in Parlamento.   A Facci riconosco inoltre il fatto di essere l’unico, sia pur molto brevemente, ad aver accennato alla possibilità che una crisi degli oppioidi come quella americana possa scatenarsi nel nostro Paese.   Qualcuno può trovare Facci irritante, e in varie questioni dissentire con lui totalmente (è il caso dei vaccini). Bisogna capire però che senza una voce come la sua – cioè di un giornalista vero, un giornalista d’inchiesta – il discorso pubblico non può che morire. Nessuno dei compiaciuti canali della «controinformazione» può avere di che parlare, se prima non c’è qualcuno che, con le spalle coperte, si espone per tirare fuori la verità.   Se fosse vero quanto scrive Dagospia, dobbiamo chiederci se uno come Facci scriverà ancora, oppure, come detto, si occuperà solo della «cronache di Milano», magari nemmeno delle cose che gli piacciono come la classica alla Scala e le risse verbali con Fedez, perché ambo le cose potrebbero portare querele. Avvisiamo pure che la pagina Wikipedia inerente al Facci, al momento, risulta «bloccata», e scrive: «Attenzione: questa pagina è stata oscurata e protetta a scopo cautelativo a causa di una possibile controversia legale. Verrà eventualmente ripristinata alla fine della vicenda che la riguarda».   Per quanto mi riguarda, questa storia dei giornalisti privati della difesa legale del giornale rappresenta un elemento incontrovertibile della fine del giornalismo – o meglio, della sua trasformazione in senso neofeudale: da informazione a propaganda pure e semplice – più intrattenimento, cioè istupidimento.   Se il giornalista viene esposto al rischio della querela, non scriverà più nulla.   Se il giornalista non scava più, se le inchieste spariscono, l’informazione diviene puramente trasmissione alle masse delle volontà dell’oligarcato. I giornali (i siti, i TG, etc.) divengono puri imbuti che fanno colare i desiderata del potere sulla popolazione: uffici stampa, o nemmeno quelli, degli oligarchi. I quali oligarchi ora, a differenza dei tempi di Berlusconi-De Benedetti, magari non litigano nemmeno più (ordinandosi inchieste e campagne giornalistiche l’uno contro l’altro): sono tutti attovagliati al tavolone, e perché mai farsi la guerra? Perché mai desiderare un giornalismo fatto di ricerca della verità, e non di comunicati stampa misti a sciocchezze narcotiche?   Siamo preoccupati? Un po’, ma un po’ anche no. Con estrema cautela, e con estremo sacrificio, Renovatio 21 va avanti lo stesso – costi quello che costi.   Tuttavia il fatto rimane: fosse vero quanto scrivono, i segni della fine del giornalismo, cioè della fine di articoli che vale la pena di leggere, è dietro l’angolo, e minaccia sempre più di divenire un ingrediente del totalismo ultra-orwelliano che sappiamo essere avviato: Stato-partito, biosorveglianza, censura, financo vera e propria riforma del pensiero, cioè lavaggio del cervello universale.   Non cose di poco conto.   Per questo vi chiediamo di aiutare Renovatio 21 a continuare ad esistere.   Fatelo davvero. Perché dietro di noi l’editore paperone non c’è.   Roberto Dal Bosco

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