Predazione degli organi
Maiali morti riportati in vita dagli scienziati – per avere più organi per la predazione degli organi umani

Stanno andando avanti gli esperimenti estremi di rianimazione dell’organismo. Con il fine di squartare ancora più esseri umani per i trapianti, cioè per quella che è più corretto chiamare predazione degli organi.
Come riportato da Renovatio 21, tre anni fa alcuni scienziati hanno comunicato i loro studi compiuti su dei suini riguardo la possibilità di riattivare il corpo dopo la morte.
Ora alcuni scienziati israeliani del Technion- Israel Institute of Technology e Rambam Medical Center hanno cercato il modo per far rivivere le cellule negli organi dei maiali morti, ottenendo alcuni risultati significativi quanto inquietanti.
Gli scienziati hanno utilizzato un sistema chiamato OrganEx che utilizza pompe e soluzioni speciali per ripristinare l’ossigeno nelle cellule del sangue e prevenire la morte cellulare in tutto il corpo. Il team ha ripristinato la circolazione e altre funzioni in più organi un’ora dopo la morte dei maiali per arresto cardiaco , secondo il loro studio peer-reviewed sulla rivista Nature di mercoledì scorso.
È a questo punto che il team di ricercatori ha visto che il cuore aveva ricominciato a pompare.
Gli esperimenti condotti hanno anche mostrato i risultati di un diverso progetto realizzato dagli studenti di Yale tre anni prima. Coinvolgeva cervelli di maiali disincarnati. Gli scienziati hanno utilizzato questi risultati in un sistema simile chiamato BrainEx come un modo per ripristinare la circolazione nei cervelli prelevati dai maiali dopo che erano stati uccisi in un impianto di confezionamento della carne.
Lo studio è stato condotto inducendo arresti cardiaci nei suini e curandoli utilizzando la tecnologia OrganEx entro un’ora dalla loro morte. Essi sono stati paragonati ai maiali che erano in ECMO, l’ossigenazione extracorporea della membrana, una macchina che pompa il sangue ossigenato del maiale in tutto il corpo.
La ricerca quindi vuole sfidare la concezione per cui le cellule e gli organi del corpo iniziano a essere distrutti in modo irreversibile entro pochi minuti dall’arresto del cuore. Secondo lo studio, invece, il processo può essere fermato e lo stato cellulare può essere spostato verso il recupero.
Questo studio ha molto potenziale per aiutare a ridurre la quantità di danni causati al cervello delle persone dopo un ictus e forse anche al cuore dopo un infarto o un arresto cardiaco.
Il lettore può intravedere qual è il fine di questo esperimento: aumentare la disponibilità per la predazione degli organi – quello che il mondo della Necrocultura chiama «donazione».
La «donazione», infatti, può avvenire solo a cuor battente, con l’individuo dichiarato morto per «convenzione» – la cosiddetta morte cerebrale, ricordiamolo sempre, è solo un costrutto, i cui parametri pure variano da Paese a Paese, di anno in anno.
Se il cuore smette di funzionare, infatti, gli organi divengono inservibili.
Per cui, logicamente tutti gli espianti di organi vengono fatti con il cuore che ancora batte, cioè vengono fatti mentre la persona è viva – e in uno stato di impotenza, perché vittima innocente dello squartamento ordinato dal sistema sanitario (e dagli interessi che vi ruotano attorno, specie delle farmaceutiche, che acquistano clienti a vita per i farmaci anti-rigetto).
Ecco perché questi esperimenti con i porci: vogliono riattivare il cuore non per riportare le persone in vita, ma per poter rendere più proficuo il loro squartamento.
Deve esservi chiaro che, Dio non voglia, questa cosa può toccare a chiunque di noi: siamo a un incidente d’auto dallo squartamento di Stato, con i nostri organi che ci vengono rubati e rivenduti, mentre i dottori che ci hanno dichiarati morti per convenzione ci somministrano il curaro, così da impedire ci muoviamo in preda a dolori lancinanti mentre ci squartano, perché, certo, ai morti vanno dati sedativi e paralizzanti, non fa una grinza, davvero.
Sveglia.
Questo è il vero traffico di organi che avviene sotto il nostro naso ogni giorno, senza che nessuno dica niente.
Noi, qui, riguardo a questo orrore che procede ora anche attraverso la perversione del progresso scientifico, non terremo mai la bocca chiusa.
Mai.
Morte cerebrale
La Littizzetto all’anagrafe per convincere i cittadini a farsi espiantare gli organi

Abbiamo già avuto modo di raccontare al lettore di Renovatio 21 il costante aumento delle opposizioni agli espianti d’organi vitali, al netto dell’invenzione di nuove tecniche predatorie che tendono ad ampliare la platea dei potenziali donatori.
Non c’è dubbio che tale tendenza preoccupi la macchina dei trapianti, al punto che per cercare di convincere i riottosi è scesa in campo anche la celebre showgirl Luciana Littizzetto, la quale si è addirittura recata all’anagrafe di Torino per intercettare le persone in fila per il rinnovo della carta d’identità.
L’attrice piemontese ha rimarcato quanto sia importante non lasciarsi bloccare da paure immotivate: «e se non sono morto? Beh è impossibile, gli esami, gli accertamenti sono talmente sofisticati che è impossibile (…) O pensano, sono scassato non c’è niente di buono dentro di me che possa essere recuperato: non ti preoccupare ci sono i medici a valutare».
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Il livello delle argomentazioni addotte a favore della donazione è alquanto superficiale, come è possibile constatare, ma è l’unica carta giocabile da chi ha interesse ad incentivare la pratica disumana degli espianti a cuore battente: la comunicazione infatti deve necessariamente tendere ad informare il meno possibile e cercare di essere rassicurante. In altri termini, essa deve agire a livello emotivo-sentimentale piuttosto che a livello razionale.
Il fatto che gli esami e gli accertamenti (per determinare la morte cerebrale) siano sofisticati non significa che siano anche fondati. Anzi, è piuttosto vero il contrario: la morte è un evento naturale che può essere compreso da tutti, anche da chi non ha nessuna preparazione medica. E non è naturale osservare così tanti segni di vita in qualcuno che si suppone sia morto (normale frequenza cardiaca, pressione sanguigna, colorito, temperatura corporea etc).
Prendiamo ad esempio uno dei criteri obbligatori ai fini della dichiarazione di morte cerebrale: il test di apnea, di cui abbiamo più volte documentato la pericolosità.
Tale prova si propone di verificare la capacità del paziente in coma di attivare la respirazione spontanea, scollegandolo più volte dal respiratore per diversi minuti. Nel caso la prova dia esito negativo, si suppone che egli sia morto. Ma è proprio la premessa che sottostà al test di apnea ad essere priva di fondamento: l’atto della respirazione infatti non si esaurisce nell’incamerare aria nei polmoni, ma si perfeziona necessariamente a livello cellulare e biochimico. Un cadavere propriamente detto non è in grado di attivare il processo della respirazione, anche se l’ossigeno gli viene spinto a forza dentro i polmoni. In altri termini, affinché la ventilazione artificiale possa produrre gli effetti sperati è necessario che la persona sia ancora in vita.
Al contrario, per i fautori della morte cerebrale la mancata attivazione del riflesso automatico respiratorio è prova inconfutabile del fatto che il paziente sia deceduto. Ma sulla base di quale principio logico e biologico si fondi tale presunta certezza non è dato sapere. E’ così e basta e come dice la Littizzetto non serve preoccuparsi troppo, tanto ci pensano i medici a valutare …
Del resto, anche volendo supporre che la mancata attivazione del respiro costituisca la prova che le funzioni cerebrali siano definitivamente compromesse, in quanto non più in grado di dirigere e coordinare l’organismo nel suo complesso, non si riesce a capire come possano funzionare correttamente tutte le altre funzioni, le quali richiedono un alto livello di integrazione (pensiamo all’attivazione delle difese immunitarie, ad esempio).
Insomma, il criterio della morte cerebrale fa acqua da tutte le parti e più si approfondisce l’analisi più si scopre che esso si regge su un vero e proprio castello di menzogne, spacciate per scienza.
Pertanto, l’unica carta giocabile dalla propaganda è far leva sulle emozioni e sul desiderio, connaturato all’essere umano, di essere utile a qualcuno: la prospettiva di «donare» i propri organi o quelli di un congiunto per salvare la vita di un malato terminale è seducente, soprattutto per chi vive un trauma improvviso (pensiamo ai genitori di un ragazzo che si trova in rianimazione a causa di un incidente o di un malore improvviso).
C’è anche da sottolineare che viviamo in un’epoca in cui il senso del trascendente si è molto affievolito, anche a livello religioso, per cui le persone sono più sensibili a certi richiami che rimandano a generici ideali di solidarietà e condivisione.
Malgrado ciò le opposizioni non accennano a diminuire ma anzi tendono ad aumentare. Con buona pace dei professionisti dell’informazione, dei VIP televisivi e degli inviti a non riflettere, che difficilmente riusciranno a convincere molti italiani a lasciarsi squartare vivi.
Alfredo De Matteo
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Immagine di Luca Boldrini via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic; immagine modificata nel taglio e nel colore
Predazione degli organi
Aumentano le opposizioni all’espianto degli organi. Gli italiani stanno comprendendo la realtà della predazione?

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Predazione degli organi
Se la cardiologa parla della possibilità di un «obbligo» per la «donazione» degli organi

Checché ne dicano i fautori della fantomatica e tanto sbandierata libertà di scelta (pensiamo allo slogan femminista-abortista «l’utero è mio e lo gestisco io» e a quello dell’associazione per l’eutanasia legale «Per essere tutti liberi, fino alla fine», solo per fare alcuni esempi), i nostri corpi e le nostre esistenze sono di fatto proprietà dello Stato già da molti decenni.
I finti ribelli costituiscono, volenti o nolenti, la manovalanza che serve al sistema per farci credere di avere la possibilità di scegliere. In effetti, grazie alle loro «battaglie» pilotate dall’alto, l’individuo ha conquistato il «diritto» di uccidere l’innocente con l’aborto e la fecondazione artificiale, di togliere la vita a se stesso ad altri con le varie pratiche eutanasiche.
Sappiamo che abbiamo ottenuto anche la possibilità di farci squartare vivi e di permettere che lo si faccia ad un nostro congiunto tramite la predazione degli organi.
In altri termini, siamo liberi di scegliere come farci ammazzare ma non certo di vivere e soprattutto di vivere da figli di Dio. Ovviamente, il fine dichiarato è sempre buono: i nostri aguzzini possiedono la maschera degli inguaribili filantropi che vogliono solo ed unicamente il nostro bene e, udite udite, la nostra libertà.
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Tale macabra messinscena è stata particolarmente evidente nel 2020 con l’imposizione del siero genico sperimentale, prodotto con cellule di bambini uccisi nel grembo materno, praticamente a quasi tutta la popolazione mondiale per salvarla da un’epidemia probabilmente programmata e pianificata.
Tuttavia, conserviamo ancora un certo margine di capacità decisionale che da molto fastidio a chi vuole e brama il nostro totale asservimento. Proprio per tale motivo assistiamo, ogni giorno di più, al tentativo di toglierci anche quel poco margine che ci rimane di decidere sulle nostre vite: la cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano dedicato ai pazienti con insufficienza cardiaca avanzata e ai trapiantati di cuore, in un’intervista pubblicata dal Corriere della sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.
Abbiamo già avuto modo di relazionare i nostri lettori sul fatto che una considerevole percentuale della popolazione italiana continua ad opporre un netto rifiuto alla possibilità di essere sottoposto all’espianto degli organi, malgrado la pressante propaganda massmediatica a favore della cosiddetta donazione.
C’è anche da tenere presente che la nostra possibilità di scelta è già decisamente coartata visto che l’alternativa alla predazione è il distacco dai sostegni vitali e l’abbandono delle cure.
Eppure, secondo la cardiologa, ormai in pensione, tutto ciò non è sufficiente: «la percentuale di opposizioni alle donazioni, nel nostro paese, è fissa al trenta percento da trent’anni. Al netto di un lieve miglioramento registrato nel 2024 [dovuto esclusivamente all’utilizzo di nuove procedure per l’espianto degli organi, ndr] vuol dire che ogni 7 trapianti fatti avremmo potuto farne 10, una differenza enorme. Il rischio è che si trapianti il paziente solo quando è in fin di vita. È devastante anche per noi medici osservare questi pazienti deteriorarsi e non poter fare niente. Per questo la donazione potrebbe diventare un obbligo».
La Frigerio parla poi dei «cuori in transito», che sono «un pezzo di noi che continua a vivere e che lasciamo lì per qualcun altro, un po’ come si lascia libera una camera d’albergo». Il cuore ci serve per vivere, continua la cardiologa, «ma non pensiamolo in termini di proprietà (sic) anche se nella nostra cultura è un organo molto personale».
È evidente come la dottoressa giochi di sponda, attraverso un’accurata scelta di termini e metafore che tendono a veicolare un’immagine romantica e suggestiva del nostro corpo, che puà aiuarci a digerire meglio ciò che diventeremo (almeno nei progetti di chi tira i fili delle nostre esistenze) e che in parte già siamo, ossia dei meri contenitori di organi prelevabili a piacimento.
L’intervista si presenta comunque ricca di spunti che ci consentono anche di focalizzare la nostra attenzione su una questione molto importante relativa ai trapianti che non viene quasi mai presa in considerazione: le reali aspettative di vita, nonché la qualità della stessa delle persone che hanno ricevuto un organo.
La cardiologa milanese accenna al suddetto problema in maniera alquanto criptica e contraddittoria: «un paziente deve curarsi per vivere, non vivere per curarsi, anche se per sopravvivere a un trapianto di cuore è meglio essere ossessivi che trascurati».
In realtà, sappiamo che la vita di un trapiantato è, nella stragrande maggioranza dei casi, un vero e proprio calvario, fatto di frequenti visite ed esami, di medicinali presi per sempre nonché segnata dall’elevato rischio di prendersi una lunga sfilza di malattie, non di rado mortali.
Il fatto che l’esistenza delle persone che hanno ricevuto un organo sia tutt’altro che una «passeggiata di salute» tende a venir fuori molto raramente e in alcuni casi anche in maniera non del tutto voluta: è molto recente la notizia della morte della giovane Michelle Trachtenberg, divenuta famosa per aver interpretato ruoli da protagonista in alcune serie tv di successo come Gossip Girl e Buffy l’ammazzavampiri.
La sfortunata attrice, trentanovenne, è deceduta in maniera improvvisa all’interno della sua abitazione. Probabilmente, nel tentativo di smontare l’ipotesi del malore improvviso dovuto ai motivi che tutti conoscono ma che è vietato riportare, i media si sono affrettati a ragguagliare il pubblico circa le possibili cause della morte della ragazza, ossia i pesanti problemi di salute insorti a seguito del trapianto di fegato a cui è stata sottoposta di recente.
Dunque l’ipotesi più plausibile è legata al rigetto dell’organo. Sembrerebbe infatti che gli ultimi anni di vita dell’attrice siano stati molto difficili, come riferisce una sua cara amica: «Mi spezza il cuore. Le volevo bene. Negli ultimi anni ha lottato. Vorrei averla potuto aiutare».
Ma quali sono i problemi a cui vanno incontro i trapiantati?
L’elenco delle complicanze post trapianto è piuttosto lungo e include:
- rigetto
- infezioni varie e spesso insolite
- tumori
- aterosclerosi
- problemi renali
- gotta
- malattia del trapianto contro l’ospite
- osteoporosi
L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali. Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, come il carcinoma a cellule squamose (SCC), il carcinoma basocellulare (BCC) e il melanoma-carcinoma a cellule di Merkel (MCC), tutti potenzialmente letali.
Per rendere l’idea dell’incidenza di tali patologie nei trapiantati basti dire che il rischio di contrarre l’SCC è 100 volte più alto rispetto alla popolazione generale, quello di sviluppare il BCC è di sei volte mentre è di 24 volte per l’MCC. Dal momento che il cancro della pelle non può essere prevenuto nei soggetti trapiantati, quest’ultimi devono sottoporsi a screening regolari, ancora più frequenti nelle persone con una storia personale di tumori della pelle.
Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.
Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64 %in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari. Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50%dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo; un problema che riguarda anche i soggetti senza una storia pregressa di accumulo patologico di tessuto adiposo.
L’elenco delle patologie e del calvario sanitario che subiscono i pazienti trapiantati è decisamente lungo e meriterebbe un approfondimento che esula dalle nostre competenze. In ogni caso, è lecito supporre che le persone riceventi un organo possano diventare dei malati cronici con una bassa qualità e un’altrettanto bassa aspettativa di vita.
Non è poi così infrequente che i trapiantati diventino a loro volta soggetti da espiantare o da eutanatizzare, secondo una spirale di malattia, sofferenza e morte voluta e pianificata a tavolino. Nel 1993, il fratello, racconta la cardiologa, fu colto da un ictus a 41 anni e il suo cuore trapiantato su un paziente che visse solamente una settimana. Lo stesso cuore venne impiantato in un terzo soggetto che visse per vent’anni.
«Aveva ragione la moglie», suggerisce la cardiologa, «non era più il cuore di mio fratello ma quello di suo marito (…) C’è sempre un rischio nel trapianto di un organo che ha già subito una manipolazione. Non è il pezzo di un’automobile, insomma», chiosa la specialista.
E se è la scienza dei trapianti ad affermare che non siamo pezzi di ricambio possiamo certamente dormire sonni tranquilli…
Alfredo De Matteo
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
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