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Economia

La guerra mette in pericolo forniture di palladio e neon. Cioè tutta l’economia digitale

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I circuiti integrati composti da transistor, resistori e diodi – detto comunemente microchip – sono un elemento chiave dell’economia mondiale sempre più digitale.

 

Antenne paraboliche, automobili, computer, macchinari agricoli, telefoni cellulari e aeroplani, ne fanno uso. E non solo: ogni oggetto in vendita oggi può aver integrato un microchip, persino un bollitore. Di più: la tendenza, negli ultimi anni è quella dell’IoT, la Internet of Things: tutti gli oggetti sono collegati in rete. La prospettiva eccitava molto Gianroberto Casaleggio nei suoi libri.

 

Tuttavia, il mondo dell’informatica, il mondo del digitale con la sua economia onnipervadente, ha questa fragilità: dipende dai microchip. Cioè da un elemento materiale.

 

Materia trasformata, materia che è fatta di altra materia. Il chip è costituito da molti strati complessi di semiconduttori, rame e altri materiali necessari. Può contenere miliardi di componenti in una minuscola superficie realizzata con un materiale semiconduttore.

 

Dopo aver provocato la guerra in Ucraina, l’Occidente ha scoperto di avere un problema, dal momento che Russia e Ucraina forniscono le due materie prime chiave necessarie per produrre i chip.

 

«La guerra Russia-Ucraina potrebbe colpire le catene di approvvigionamento globali che sono già vincolate a causa della pandemia e l’impatto peggiore sarebbe sulla carenza di chip in corso perché le nazioni in guerra controllano forniture significative di materie prime chiave che servono alla produzione di semiconduttori», ha avvertito un rapporto di Moody’s Analytics.

 

«La Russia controlla fino al 44% delle forniture globali di palladio, l’Ucraina produce un significativo 70% della fornitura globale di neon, le due materie prime chiave per la produzione di chip».

 

Secondo Press Trust of India (PTI), «i mercati possono aspettarsi che la carenza globale di chip, iniziata con la pandemia, peggiorerà se il conflitto militare persiste», ha affermato l’agenzia nel rapporto pubblicato venerdì 4 marzo.

 

«Sebbene le aziende produttrici di chip abbiano accumulato risorse dalla carenza del 2015, l’elevata domanda durante la pandemia segnala che se un accordo di pace non viene negoziato presto, la carenza di chip peggiorerebbe».

 

Il palladio è quasi sempre trasportato da aerei passeggeri. Con la maggior parte dello spazio aereo europeo chiuso ai voli dalla Russia, minatori come MMC Norilsk Nickel PJSC stanno esaminando rotte alternative per rifornire i clienti.

 

Alla fine di febbraio, il metallo prezioso ha esteso il suo rialzo quest’anno al 30% poiché i trader si preparano alle difficoltà nell’assicurarsi le esportazioni. Le preoccupazioni sono particolarmente elevate poiché le scorte fuori terra sono diminuite per anni a causa della domanda che supera l’offerta.

 

«Non c’è dubbio che, a meno che la situazione non venga disinnescata rapidamente, ci saranno attriti in tutto il commercio russo e questo influenzerà il palladio», ha affermato Nikos Kavalis, amministratore delegato di Metals Focus Ltd. «Nel tempo emergerebbero modi per superarli, indipendentemente dal fatto che questo attraverso rotte sempre più complicate, spedizioni verso la Cina o altri paesi consumatori».

 

Si tratta dell’idea, che circola molto nei canali russi, per cui il risultato delle stupide sanzioni occidentali si trasformerà in una sorta di gimkana delle materie prime russe, che passeranno da Paesi buffer – come già avviene con le sanzioni del 2014, con prodotti alimentari e tessili italiani, ad esempio, spediti in Bielorussia. Il risultato: un aumento ulteriore dei costi, per la percentuale incamerata dalla terza parte e per il trasporto contorto dei materiali.

 

Vi è un altro argomento, che non possiamo ignorare: il maggior produttore di microchip, Taiwan, gode del favore degli USA proprio per la sua insuperata capacità di produrre l’elemento base dell’informatica – e da cinquant’anni.

 

Questa primazia del microchip, riconosciuta anche da Pechino che non solo non riesce a produrli allo stesso modo ma permette pure ai taiwanesi di aprire fabbriche sul suo territorio, costituisce quello che si chiama lo «scudo del microchip», cioè il principale deterrente economico-industriale alla mai sopita minaccia di invasione della Cina Comunista, considerata con paura come imminente dal 77% dei giapponesi.

 

Se Taiwan smette di produrre chip per carenza di materia prima, lo scudo scompare: e la strada per la «riunificazione» con la «provincia ribelle», solennemente annunciata dal presidente Xi Jinping agghindato da Mao al centenario del Partito Comunista Cinese, sarebbe spianata.

 

Con le conseguenze del caso: disordine e guerra nel Pacifico. Giappone, Australia allarmati. Nord Corea pronto ad approfittarne, magari con qualche missile nucleare magari perfino ipersonico.

 

Vietnam, Filippine… tutti potrebbero essere risucchiati in un conflitto più tremendo di quello che stiamo vedendo in Ucraina.

 

Tutto questo grazia a Joe Biden e alla cricca di guerrafondai che ha preso il potere a Washington.

 

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Economia

L’Ungheria avverte di un’imminente carenza di carburante

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L’Ungheria dovrà affrontare una carenza di carburante entro settembre se non verrà trovata una soluzione alla controversia sul transito del petrolio con l’Ucraina, ha avvertito Gergely Gulyas, capo dell’ufficio del primo ministro ungherese.

 

La scorsa settimana Kiev ha bloccato il transito del greggio dal principale fornitore di petrolio russo Lukoil attraverso l’oleodotto Druzhba verso i suoi vicini Ungheria e Slovacchia, citando sanzioni contro il gigante energetico russo. Le restrizioni hanno effettivamente impedito a Lukoil di utilizzare il territorio ucraino come via di transito.

 

La più grande raffineria di petrolio dell’Ungheria, situata nei pressi di Budapest, non può passare rapidamente alla lavorazione di greggio non russo, quindi il Paese rischia di esaurire le sue riserve di carburante, ha spiegato Gulyas.

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«Se la situazione non verrà risolta, potrebbe esserci una carenza di carburante, una soluzione per questo deve essere trovata entro settembre», ha detto Gulyas ai giornalisti venerdì, citato dal quotidiano Magyar Nemzet.

 

Bloccando le consegne, Kiev sembra «ricattare» Budapest e Bratislava a causa delle loro continue richieste di cessate il fuoco e di pace, ha affermato il ministro.

 

Lukoil rappresenta circa un terzo delle importazioni annuali totali di petrolio dell’Ungheria, ha affermato all’inizio di questa settimana il ministro degli Esteri Peter Szijjarto.

 

L’Ungheria e la Slovacchia sono gli unici membri dell’UE che si oppongono alla politica del blocco di fornire aiuti militari all’Ucraina nel suo conflitto con la Russia e hanno ripetutamente chiesto una soluzione diplomatica alla crisi.

 

L’UE ha proibito il trasporto di petrolio greggio russo via mare nel dicembre 2022 come parte di sanzioni di vasta portata contro Mosca. Tuttavia, a due stati senza sbocco sul mare sono state concesse delle esenzioni per garantire la loro sicurezza energetica.

 

Dopo la sospensione delle forniture della scorsa settimana, Budapest e Bratislava hanno chiesto alla Commissione europea di mediare con Kiev sulla situazione.

 

Se le consultazioni dell’UE non dovessero funzionare, il governo ungherese «si riserva il diritto di adottare ulteriori misure», ha affermato il ministro per gli Affari europei del Paese, Janos Boka, presente anche lui alla conferenza stampa di Budapest.

 

«Non c’è motivo di farsi prendere dal panico finora perché le riserve sono elevate», ha detto Gulyas, citato da Bloomberg. «Il problema non è immediato, ma dobbiamo trovare una soluzione entro settembre».

 

Come riportato da Renovatio 21, nelle ultime ore la Slovacchia ha accusato Kiev di ricatto sul blocco  delle forniture di petrolio.

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«L’Ucraina ha scelto di ricattare Slovacchia e Ungheria», ha detto il ministro degli Interni Sutaj Estok in un videomessaggio sui social media mercoledì. «Considero inaccettabile la decisione dell’Ucraina di interrompere le forniture di petrolio della Lukoil alla Slovacchia e all’Ungheria. Mi rifiuto di lasciare che la Slovacchia e il popolo slovacco servano da strumento di vendetta tra l’Ucraina e la Russia».

 

Il primo ministro slovacco Robert Fico la scorsa settimana ha avuto una conversazione telefonica con il suo omologo ucraino, Denis Shmigal, per sottolineare che Bratislava non sarà «ostaggio delle relazioni ucraino-russe».

 

Parlando ai giornalisti mercoledì, il presidente della Repubblica slovacca Peter Pellegrini ha descritto le azioni di Kiev come una «interferenza molto spiacevole nei nostri buoni rapporti».

 

«Credo fermamente che l’Ucraina sarà in grado di mettere tutto a posto il prima possibile, perché la Slovacchia, in quanto stato sovrano, alla fine dovrà prendere qualche tipo di contromisura», ha detto senza specificare la natura di una possibile risposta, aggiungendo, tuttavia, che questo «non avrebbe portato alcun beneficio né all’Ucraina né ai suoi cittadini».

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Economia

La situazione di economia ed energia in Italia. Uno sguardo ai primi mesi 2024

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Sono passati i primi 6 mesi del 2024. Renovatio 21 è tornata a sentire Mario Pagliaro, il ricercatore del CNR e accademico di Europa, che a più riprese abbiamo intervistato sui temi dell’energia e dell’industria. Pagliaro aveva prima anticipato la forte crescita dei prezzi dell’energia nell’estate nel 2021. Da tempo il professore prevede il ritorno dello Stato nell’economia e la necessità di ricostituire l’IRI, l’istituto per la Ricostruzione Industriale che fra il 1933 e il 1993 fece grande l’Italia tramite il principio di un’economia pianificata, cui il mondo pare volente o nolente dover ritornare.   La prima domanda non può non riguardare i consumi energetici in Italia. Come sono andati, nei primi 6 mesi dell’anno? Molto male. Il consumo di gas naturale nel primo semestre, pari a poco meno di 31 miliardi di metri cubi è diminuito del 4,5% sul primo semestre 2023. E questo dopo che nel 2023 il consumo di gas in Italia, pari a 61,5 miliardi di metri cubi, era stato il più basso da oltre 25 anni, con un calo del 10,1% sul 2022. Praticamente invariati i consumi petroliferi ai minimi storici – pari a 28,2 milioni di tonnellate nel primo semestre dell’anno. In leggera crescita, poco più dell’1%, i consumi elettrici che da circa 150 miliardi di kWh (chilowattora) nel primo semestre del 2023 passano a 151,6 miliardi nei primi 6 mesi del 2024, trainati dal forte calo dei prezzi elettrici.

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E per quale ragione i consumi energetici italiani sono così bassi? Perché la produzione industriale è crollata, e non fa che diminuire mese dopo mese rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Considerando l’ultimo dato mensile reso disponibile dall’ISTAT, relativo a maggio, il calo tendenziale della produzione industriale nei primi 5 mesi dell’anno è del 3,4%, rispetto ad un dato già molto basso relativo ai primi 5 mesi del 2023. Dei 16 settori di attività economica considerati dall’ISTAT, solo due mostrano un trend positivo: alimenti e tabacco (+1,2%) e raffinazione del petrolio (+3,3%). Pesantissimi i cali di tessile, abbigliamento, e pelli (-9,3%) e produzione di autoveicoli (-6,7%).   E perché le aziende italiane producono così poco? Perché la domanda interna è bassa, a causa dei bassi salari e dell’invecchiamento della popolazione. E quella estera è crollata, a causa della crisi delle relazioni internazionali deflagrata con la guerra nella ex Unione Sovietica prima, e in Medio Oriente poi. Nel 2023 le esportazioni italiane sono scese in volume del 5%: il fatto che in termini finanziari siano rimaste stabili a quota 626 miliardi di euro rispetto al 2022 è stato dovuto al forte aumento dei prezzi dei beni esportati, pari al 5,3%.   La crisi del Mar Rosso che costringe le navi portacontainer provenienti dal Sudest asiatico a circiumnavigare l’Africa ed evitare il passaggio del Canale di Suez ormai da mesi, non fa che aumentare i costi di produzione, e dunque i prezzi delle merci. Un ulteriore forte calo dei volumi di merci italiane esportati nel 2024 pertanto è inevitabile.   La guerra nell’ex Unione Sovietica non accenna a concludersi, e la situazione in Medio Oriente si aggrava di giorno in giorno. Cosa dobbiamo attenderci per l’approvvigionamento energetico dell’Italia nell’autunno ormai alle porte? Non possiamo saperlo. Se la guerra in Medio Oriente dovesse estendersi alle infrastrutture energetiche, ci sarebbero conseguenze molto serie. Il petrolio da raffinare in Italia arriva quasi tutto da Medio Oriente, Azerbaijan e Libia. Se dovessero esserci problemi con i flussi dal Medio Oriente, si andrebbe incontro a una forte carenza di combustibile.   Quanto al gas, nel 2023 il calo dei consumi energetici è stato tale che l’Italia ha diminuito le importazioni di gas naturale da tutti i Paesi che la riforniscono. In ordine, questi Paesi sono tre: l’Algeria, che nel 2023 ci ha inviato 23 miliardi di metri cubi (-2,2% su 2022), l’Azerbaigian, che ce ne ha venduti 10 miliardi (-3,2% su 2022) e l’Olanda che ce ne venduti 6,6 miliardi (-13,5% su 2022). La Russia, con 2,8 miliardi di metri cubi (in calo dell’80% sul 2022) e la Libia, con 2,5 miliardi (-3,7% su 2022) sono ormai fornitori marginali. La crescita ha riguardato il solo gas naturale liquefatto, che nel 2023 è cresciuto di poco meno del 17% arrivando a 16,6 miliardi di metri cubi.   Lei ha previsto il ritorno dello Stato nell’economia. Ci sono stati progressi, in questo senso, nel primo semestre del 2024? Certo. Le autostrade sono tornate interamente in mano allo Stato. Ad aprile è stata costituita Autostrade dello Stato. Mai più le autostrade o le strade saranno date in concessione ai privati. La produzione di acciaio è tornata nelle mani dello Stato, che a Taranto ne garantisce la continuità operativa seppure ancora con un solo altoforno in funzione.   Lo Stato è il principale azionista della compagnia di bandiera, Ita, nonostante la recente cessione del 41% delle quote alla compagnia di bandiera tedesca. Lo Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, possiede il 16,5% della maggiore impresa italiana di costruzioni.

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Inoltre, lo Stato è socio di fatto di praticamente tutte le imprese italiane cui paga ogni mese parte degli stipendi sotto forma di «Cassa integrazione guadagni». Per avere un’idea di che numeri parliamo, solo a maggio lo Stato pagherà ai lavoratori delle imprese italiane che ne hanno fatto richiesta a INPS ben 47,2 milioni di ore di lavoro: in crescita di quasi 10 milioni di ore rispetto ad aprile (38,1 milioni di ore). Moltiplichi l’importo orario di un lavoratore italiano per 47,2 milioni e avrà idea di che numeri parliamo.   È chiaro che è una situazione non sostenibile. Il sistema privato, da solo, non ce la fa più. Ed è altrettanto chiaro che occorre ricostituire immediatamente l’IRI per ricostruire l’industria italiana.   Guardando alla questione da un punto di vista complementare. Cosa accadrà dell’economia italiana se lo Stato non tornerà ad esservi protagonista non ricostituendo l’IRI? Semplicemente, non sarebbe possibile sostenere oltre il costo sociale della Cassa integrazione e degli innumerevoli «bonus» con cui in questi ultimi 5 anni sono stati evitati i licenziamenti di massa.   Ai licenziamenti di massa si accompagnerebbe il fallimento generalizzato delle imprese perché la domanda interna crollerebbe immediatamente. Questo si rifletterebbe immediatamente sulle banche, determinando una situazione simile a quella dei primi anni Trenta quando, appunto, il governo costituì l’IRI per salvare le poche imprese italiane dell’epoca e le banche che le avevano finanziate, creando le banche di interesse nazionale, cioè le banche di Stato.   Il debito pubblico è ormai a un passo da quota 3mila miliardi. L’Unione Europea avrebbe imposto agli Stati membri il ritorno all’austerità attraverso il ritorno in vigore del cosiddetto «Patto di stabilità e crescita». Ma non c’è alcun modo, concretamente, che questo possa accadare senza che in Italia la situazione sociale precipiti con il fallimento generalizzato non solo delle imprese, ma anche degli Enti locali che già oggi nel Meridione versano quasi tutti in condizioni di dissesto o «predissesto» finanziario.   In breve, il Paese è di fronte a scelte di importanza epocale che richiederanno il ritorno alle politiche industriali pubbliche con IRI, ENI e le banche di interesse nazionale che resero l’Italia una grande potenza industriale.   La forza dei fatti concreti, per sua incontrovertibile natura, si imporrà sui pregiudizi ideologici del liberismo economico: una dottrina sociale ed economica che il mondo aveva saggiamente abbandonato subito il 1945. E che adesso sarà superata ovunque in via definitiva. A partire, dai prossimi mesi, proprio dall’Italia.

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Economia

Aumento delle importazioni UE di fertilizzanti russi

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Le importazioni di fertilizzanti russi nell’UE sono aumentate del 70%, raggiungendo 1,9 milioni di tonnellate tra gennaio e maggio di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2023, ha riferito martedì Vedomosti, citando i dati di Eurostat.

 

In termini monetari, gli acquisti del blocco sono ammontati a oltre 649 milioni di euro, con un incremento annuo del 30%.

 

Solo a maggio, le importazioni sono aumentate del 5% anno su anno a 77,4 milioni di euro in termini monetari e del 17% a 238.400 tonnellate in volume. La crescita è attribuita principalmente a un aumento degli acquisti di letame potassico e fertilizzanti multi-nutrienti, ha osservato l’outlet.

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Nel frattempo, le importazioni UE di fertilizzanti azotati russi sono cresciute del 39% nei primi cinque mesi di quest’anno e hanno raggiunto il 57% degli acquisti totali di fertilizzanti del blocco europeo da Mosca, riporta RT. La Polonia è emersa come uno dei principali acquirenti di urea russa, avendo aumentato le importazioni del 25% a quasi 468.000 tonnellate. È stata seguita da Francia, Germania e Italia, che hanno aumentato gli acquisti rispettivamente del 12%, 11% e 10%.

La testata russa Vedomosti ha osservato che i costi di produzione dei fertilizzanti erano saliti alle stelle in tutta l’Unione nel 2022 a causa dell’aumento dei prezzi del gas naturale. All’epoca, il gigante energetico russo Gazprom, un tempo il principale fornitore di gas dell’UE, aveva ridotto drasticamente le esportazioni verso il blocco a seguito delle sanzioni occidentali e del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream.

 

L’aumento dei costi di produzione ha costretto i produttori di fertilizzanti azotati dell’UE a ridurre la produzione, mentre alcune aziende hanno dovuto interrompere temporaneamente le attività, costringendo gli agricoltori dell’Unione ad aumentare le importazioni dalla Russia, il più grande produttore ed esportatore di urea al mondo.

 

L’anno scorso, l’Ufficio federale di statistica (Destatis) ha rivelato che la Germania aveva aumentato gli acquisti di fertilizzanti russi di circa il 334%, da 38.500 tonnellate a luglio 2022 a 167.000 tonnellate a giugno 2023. Nel frattempo, le importazioni di sola urea sono aumentate del 304% nella prima metà del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

 

All’inizio di quest’anno, l’amministratore delegato del produttore chimico norvegese Yara International, Svein Tore Holsether, ha avvertito in un’intervista al Financial Times che la UE stava diventando sempre più dipendente dai fertilizzanti russi, proprio come accadeva con il gas naturale.

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Come riportato da Renovatio 21, a inizio anno era stato rilevato che la dipendenza dell’UE dalle importazioni di fertilizzanti russi era in aumento.

 

Come riportato da Renovatio 21la Russia è un esportatore di fertilizzante di importanza fondamentale per l’agricoltura mondiale. La filiera del fertilizzante è stata messa in stato di squilibrio dalle sanzioni seguite allo scoppio della guerra russo-ucraina, con scarsità di sostanze e aumento vertiginoso dei prezzichiusura di stabilimenti europei e conseguente rischio per la produzione di cibo globale.

 

È stato ipotizzato che il caos riguardo ai fertilizzanti sia parte di un attacco organizzato alle forniture globali. Capi di Stato africani tre settimane fa hanno chiesto alla UE la liberazione di 200 mila tonnellate di fertilizzante russo ferme nei porti europei.

 

La crisi dei fertilizzanti è dietro al fenomeno dei campi incolti che anche il lettore potrebbe aver visto con i suoi occhi nelle campagne vicino casa.

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