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Civiltà

Hulk Hogan e il Dio che distrugge

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«In tre brevi mesi, proprio come ha fatto con le piaghe dell’Egitto, Dio ha portato via tutto ciò che adoriamo. Dio ha detto: “Tu vuoi adorare gli atleti, io chiuderò gli stadi. Tu vuoi adorare i musicisti, io chiuderò gli auditorii. Tu vuoi adorare gli attori, io chiuderò i teatri. Tu vuoi adorare i soldi, io chiuderò l’economia e farò crollare la borsa. Non vuoi andare in chiesa ed adorarmi, io farò in modo che non potrai più andare in chiesa”».

 

«“Se il mio popolo chiamato con il mio nome si umilierà, pregherà e cercherà il mio volto e si allontanerà dalle loro vie malvagie, allora ascolterò dal cielo e perdonerò il loro peccato e guarirò la loro terra”».

 

«Forse non abbiamo bisogno di un vaccino, forse dobbiamo prendere questo tempo di isolamento dalle distrazioni del mondo e avere un risveglio personale in cui ci concentriamo sull’UNICA cosa al mondo che conta davvero. Gesù».

 

Il pulpito di questa predica tagliente sorprende non poco. È un post su Facebook di Hulk Hogan, il massiccio vecchio numero uno di quella lotta fittizia super-televisiva chiamato wrestling.

 

Hogan era il la star indiscussa dello show, il suo personaggio incarnava valori nazionalisti americani (la sua canzone diceva), era quello, tamarrissimo, che arrivato sul ring si strappava la maglia gialla di dosso mostrando un torso fatto di anabolizzanti e raggi ultravioletti.

 

«Forse non abbiamo bisogno di un vaccino, forse dobbiamo prendere questo tempo di isolamento dalle distrazioni del mondo e avere un risveglio personale in cui ci concentriamo sull’UNICA cosa al mondo che conta davvero. Gesù».

Era il campione del match più importante della serata, sfidava solo i big, le buscava ma poi, con una resilienza applaudita dal pubblico sino a spellarsi le mani, resisteva ad ogni manata e pedata (Dan Peterson cercava di tradurre in italoamericano la sua gestualità di incassatore che andava alla riscossa: «nou nou, tu no puoy fare questouh», e vinceva – come da copione.

 

Hulk Hogan, all’anagrafe Terry Bollea (sì, è di origina italiana), ha avuto fama e danari ma anche una vita irta di disgrazia e di peccato. Molti dei suoi amici sono morti, e non è mai stato chiarito se è per ormoni sintetici ed affini utilizzati per le performances. Suo figlio finì coinvolto, come responsabile, in un incidente che costò la morte ad un altro ragazzo. Seguì collasso finanziario, e divorzio dalla moglie. Il Viale del Tramonto era bello che imboccato, come si conviene ad ogni oscura parabola hollywoodiana.

 

Venne poi la cosa più triste ed incredibile. Emerse in rete un filmato di lui che andava a letto con la moglie di quello che era allora il suo migliore amico, un conduttore radiofonico che non si è mai capito che ruolo abbia svolto nello scandalo.

 

Un potentissimo sito di pettegolezzi americano, Gawker, pubblicò il video. Hulk Hogan tentò di denunciare, ma non aveva abbastanza danari per mandare avanti una simile imprese tribunalizia, visto che in USA possono davvero brandire il Primo Emendamento della Costituzione – la libertà di espressione – per coprire la pubblicazione di immagini della vita intima di qualcuno.

 

Con parole del genere, il lottatore dimostra che la devastazione che ha vissuto gli ha lasciato qualcosa. La devastazione che ha vissuto ha, in verità, costruito

Qualcuno gli diede segretamente una mano: il miliardario Peter Thiel, creatore di PayPal e primo investitore in Facebook, uno degli uomini più intelligenti del pianeta, che con Gawker aveva un conto in sospeso. La storia incredibile di questo milionario complotto tribunalizio è raccontata in un libro-rivelazione di qualche anno dopo, Conspiracy.

 

Arrivò al processo Bollea vs Gawker un vero principe del foro di Los Angeles, uno studio la cui parcella sarebbe costata, solo per andare a processo, forse una diecina di milioni di dollari. La situazione si capovolse.

 

Si arrivò al verdetto. Hogan chiedeva 100 milioni di dollari di risarcimento. La giuria gliene assegnò 115. Più 25 milioni in «danni punitivi», un istituto giuridico della common law americana. Gawker andò in bancarotta; Bollea, a fine 2016, arrivò ad un accordo, se ne portò a casa 31. Circa 28,5 milioni di euro.

Dio permette la distruzione. Dio distrugge

 

In pratica, ad Hulk Hogan sono tornati i soldi in tasca. Eppure, con parole del genere, dimostra che la devastazione che ha vissuto gli ha lasciato qualcosa. La devastazione che ha vissuto ha, in verità, costruito.

 

Sì, Dio permette la distruzione. Dio distrugge

 

Sta scritto: «Anche sull’Oreb provocaste all’ira il Signore; il Signore si adirò contro di voi fino a volere la vostra distruzione» (Deutoronomio, 9,8)

 

Il Dio dei cristiani, lungi dall’essere un idolo da ONG della parrocchia moderna, è anche un Dio distruttore.

Sta scritto: «Tale condotta costituì, per la casa di Geroboamo, il peccato che ne provocò la distruzione e lo sterminio dalla terra» (1Re 13,34)

 

Non solo il Dio dell’Antico Testamento è uso a catastrofi e distruzione.

 

Dal Vangelo secondo Marco (27, 51): « Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono».

 

Il Dio dei cristiani, lungi dall’essere un idolo da ONG della parrocchia moderna, è anche un Dio distruttore.

 

La Passione, la Croce. Tutti conosciamo questa meccanica spirituale cristiana; non tutti però realizzano quanto sia necessaria. E quanto sia dolorosa

Decenni fa mi ritrovavo ad interrogarmi su questa cosa che la Chiesa moderna, né al catechismo dell’infanzia né altrove, mi aveva insegnato. Dio crea, Dio distrugge, Dio salva. 

 

Inabissatomi in India, mi ritrovai a rimirare l’abbaglio della corrispondenza con la Trimurti indù, cioè la principale terna di divinità che comandano l’induismo post-vedico. (Ne ho scritto a lungo in un libro di un paio di anni fa, Cristo o l’India, una delle mie digestioni della cultura orientale in cui mi è capitato di immergermi).

 

Qualcosa non tornava, ovviamente. Brahma, il creatore, era decisamente una divinità negletta, poco menzionata, poco adorata – e da qui è facile vedere come l’induismo si riveli una gnosi, una religione che odia la creazione, che vive il mondo fisico come un fastidio da cui liberarsi con la liberazione del nirvana (cioè, letteralmente, l’estinzione).

 

Shiva, il distruttore, era ancora più complicato. Era il dio del divenire ma anche dei ladri. La sua storia è piena di cose cose disdicevoli: taglia la testa al figlio perché non lo riconosce, e ci trapianta la testa di un elefante (e la nascita del dio Ganesh); un nano lo sfida a ballare e lui mette su uno ballo ultraspettacolare che culmina con una danza proprio sopra il corpo dle povero nano – chi la fa l’aspetti: una delle sue mogli ammazza Shiva e balla sopra al suo cadavere con una collana di teste mozzate (Kali, la dea della morte); poi c’è l’episodio non chiarissimo nel quale si sarebbe accoppiato con Vishnu, l’altro personaggio della Trimurti. Dai loro semi nasce  il Gange, ma pure un bebé, cui fu dato il nome di Arikaputtiran.

«Il Signore ti distrugge fino a che non lo lasci costruire»

 

Il quale Vishnu, il dio che conserva, il dio che salva, si incarna (la parola è «discesa», avatar in sanscrito) in creature mondane più o meno una dozzina di volte per salvare il mondo. Diventa tartaruga, pastorello, uomo leone, principe, immenso cinghiale, cacciatore, pescione cosmico. Secondo alcune scuole di pensiero, anche Buddha, Gesù Cristo e – qualcuno vagheggia dentro e fuori dell’India – perfino Adolf Hitler sarebbero suoi avatara.

 

Voi capite, niente di tutto questo poteva aiutarmi a comprendere il mistero divino della distruzione. Soprattutto quando essa riguardava la mia vita interiore.

 

Così, sempre tanti anni fa, mi ritrovai a Milano, con ospite in casa un ragazzo cattolico che era sì un bravo ragazzo, ma di cui – dall’alto della mia spocchia farisaica di sapientone –non avevo un gran rispetto sul piano intellettuale. Non apprezzavo la sua fede cieca, genuina, che mi pareva tutto sommato superficiale. Invece avevo solo da imparare da lui.

 

Parlavamo del suo gruppo cattolico, ora forse dissolto, che stava attraversando un momento difficile. Non sembrava turbato dalla cosa. «Il Signore ci distruggerà fino a che non saremo a posto». Era perentorio, sicuro.

 

«Il Signore ti distrugge fino a che non lo lasci costruire». Dio ti umilia e ti mortifica, perché quella è la via per prepararti ad accettare il suo disegno, la sua costruzione.

 

Nessun edificio sarà costruito se prima non saranno distrutte le macerie della Civiltà della Morte che ha creato e diffuso il Coronavirus

Era un momento in cui per varie ragioni non ero al massimo del mio splendore, diciamo così, ma al ragazzo non volevo certo lasciarlo vedere. Per quanto semplici, queste parole potevano non rimbombare nel mio essere. Perché, essendo una verità spirituale ultima ed incontrovertibile, parlavano dritto a me, di me, per me.

 

Sta scritto: «Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni» (Mt 26, 61)

 

Dio mi stava distruggendo – o stava permettendo che mi distruggessero, o che io mi distruggessi da solo. Il chi non aveva importanza, importava il cosa, cioè la realtà vera, predisposta dal disegno di Dio. Realtà che per me, in quel momento tetro, era  sofferenza e disintegrazione di sentimenti e certezze.

 

La Passione, la Croce. Tutti conosciamo questa meccanica spirituale cristiana; non tutti però realizzano quanto sia necessaria. E quanto sia dolorosa.

 

E così eccoci nell’era della croce pandemica. Una croce alla quale in un modo o nell’altro stato chiesto a tutta l’umanità di sottoporvisi. Alcuni hanno perso cari e conoscenti (a me è capitato), altri hanno perso la vita. Altri ancora la salute, il senso del gusto e dell’olfatto, il fatturato, la pazienza, il lavoro.

Prego solo che mi sia ridata la libertà per concentrarmi sulle cose essenziali: l’unità della mia famiglia, le sostanze per alimentarle, il cibo, forse anche la lotta contro chi ci ha fatto piombare in quest’incubo

 

Eppure tutte queste – compresa la vita – sono cose secondarie dinanzi a Cristo. Il lottatore peccatore ha ragione. La Terra desolata non potrà tornare fertile se prima non prepariamo il terreno perché la natura fiorisca.

 

Nessun edificio sarà costruito se prima non saranno distrutte le macerie della Civiltà della Morte che ha creato e diffuso il Coronavirus.

 

Prendetela un’ottava più in basso, se non ce la fate. Il wrestler ci parla dell’inutilità di stadi e sale concerti, campioni dello sport e musicisti famosi. Se penso alla mia vita, vedo quanto ha ragione: oggi non è possibile aver fiducia in nessuna celebrità, politica o musicale, scientifica o sportiva; oggi non penso nemmeno lontanamente ad intrupparmi ad un concertone o ad una partita di calcio, non penso a festoni scatenati. 

 

Il virus ha contaminato il mondo, ma la purezza del cuore è lì, disponibile a tutti quanti, così come l’amore del Dio che ci distrugge e che ci salva

Prego solo che mi sia ridata la libertà per concentrarmi sulle cose essenziali: l’unità della mia famiglia, le sostanze per alimentarle, il cibo, forse anche la lotta contro chi ci ha fatto piombare in quest’incubo. Prego per la religione, nel senso etimologico: l’unione. Il nuovo legarsi delle persone attorno non agli idoli, ma a ciò che è necessario, essenziale. I legami di sangue. Il Paese. La comunità. La vita biologica. L’umanità. E poi certo, l’unica vera Religione, quella che ci dà la comunione, quella che ci connette fisicamente a Dio.

 

Dovrei pensare più a Gesù, vero. Ai tempi del Coronavirus, scopro che ho tanto da imparare da Hulk Hogan e da quelli come lui.

 

«Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».

 

Il virus ha contaminato il mondo, ma la purezza del cuore è lì, disponibile a tutti quanti, così come l’amore del Dio che ci distrugge e che ci salva.

 

 

Roberto Dal Bosco

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Civiltà

Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

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La preside di scienze sociali della Wesleyan University Mary-Jane Rubenstein, una «filosofa della scienza e della religione» (che è anche affiliata al programma di studi femministi, di genere e sessualità della scuola), afferma di aver notato come «molti dei fattori che hanno guidato l’imperialismo cristiano europeo» siano stati utilizzati in «forme ad alta velocità e alta tecnologia».

 

La Rubenstein si chiede se «pratiche coloniali» come «lo sfruttamento delle risorse ambientali e la distruzione dei paesaggi», il tutto «in nome di ideali quali il destino, la civiltà e la salvezza dell’umanità», faranno parte dell’espansione dell’uomo nello spazio.

 

Lo sfruttamento degli altri corpi celesti, quantomeno nel nostro sistema solare, è stata considerata in quanto vi è una ragionevole certezza che su altri pianeti vicini non vi sia la vita, nemmeno a livello microbico. Quindi, che importanza ha se aiutiamo a salvare la Terra sfruttando Marte, Mercurio, la fascia degli asteroidi, per minerali e altre risorse?

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Rubenstein nota che il presidente della Mars Society Robert Zubrin ha sostenuto esattamente questo. In un editoriale del 2020, Zubrin ha attaccato un «manifesto» da un gruppo NASA DEI (diversità, equità e inclusione) che aveva sostenuto «dobbiamo lavorare attivamente per impedire l’estrazione capitalista su altri mondi».

 

Ciò «dimostra brillantemente come le ideologie responsabili della distruzione dell’istruzione universitaria in discipline umanistiche possano essere messe al lavoro per abortire anche l’esplorazione spaziale», ha scritto lo Zubrin.

 

Lo Zubrin ha osservato che poiché il gruppo DEI non ha alcun senso su base scientifica, deve ricorrere a «una combinazione di antico misticismo panteistico e pensiero socialista postmoderno» – come affermare che anche se non ci sono prove nemmeno dell’esistenza di microbi su pianeti come Marte, «danneggiarli sarebbe immorale quanto qualsiasi cosa sia stata fatta ai nativi americani o agli africani».

 

Tuttavia la Rubenstein afferma che varie credenze indigene «sono in netto contrasto con l’insistenza di molti nel settore sul fatto che lo spazio sia vuoto e inanimato».

 

Tra questi vi sono un gruppo di nativi australiani che affermano che i loro antenati «guidano la vita umana dalla loro casa nella galassia» (e che i satelliti artificiali sono un pericolo per questa «relazione»), gli Inuit che sostengono che i loro antenati vivono in realtà su “corpi celesti” e i Navajo che considerano sacra la luna terrestre.

 

«Gli appassionati laici dello spazio non hanno bisogno di accettare che lo spazio sia popolato, animato o sacro per trattarlo con la cura e il rispetto che le comunità indigene richiedono all’industria», afferma la Rubenstein.

 

In effetti, in una recensione del libro di Rubenstein Astrotopia: The Dangerous Religion of the Corporate Space Race, la testata progressista Vox ha osservato che «in effetti, alcuni credono che questi corpi celesti dovrebbero avere diritti fondamentali propri».

 

Quindi, l’ordine degli accademici è che gli esseri umani dessero priorità alle credenze dei nativi nell’esplorazione dello spazio rispetto a quelle dei cristiani europei?

 

Dovremmo rinunciare all’estrazione di minerali preziosi da asteroidi, comete e pianeti vicini, perché hanno tutti una sorta di Carta dei diritti «mistica panteistica»?

 

I limiti posti ai programmi di esplorazione spaziale sono da sempre legati a movimenti antiumanisti che odiano la civiltà – in una parola alla Cultura della Morte.

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Lo stesso Zubrin, ex dipendente NASA frustrato dalla mancanza di un programma per la conquista di Marte e il suo terraforming, ne ha scritto in libri fondamentali come Merchants of Dispair (2013), dove spiega come la pseudoscienza e l’ambientalismo siano di fatto culti antiumani.

 

Lo Zubrin era animatore della Mars Society, un’associazione dedicata alla promozione dell’espansione su Marte, quando nei primi anni Duemila si presentò ad una serata del gruppo uno sconosciuto, che alla fine lasciò in donazione un assegno con una cifra inusitata per la Society, ben 5.000 dollari: si trattava di Elon Musk.

 

Il quale, marzianista convinto al punto da realizzare razzi che dice ci porteranno sul pianeta rosso tra quattro anni, è anche uno dei più accesi nemici del politicamente corretto, della cultura woke e soprattutto dell’antinatalismo, oltre che una persona che attivamente, negli anni – lo testimonia la sua costante attenzione per la storia della Roma antica – ha dimostrato di aver compreso il valore, e la fragilità, della civiltà umana.

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Civiltà

L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

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È morto Shinpei Tominaga, l’imprenditore giapponese – ma italiano d’adozione – colpito da un pugno a Udine mentre tentava di sedare una rissa.   L’uomo è mancato in ospedale dove era tenuto in vita dalle macchine. Il giapponese, che tentava di mettere fine ad un pestaggio che si stava consumando davanti ai suoi occhi, sarebbe stato colpito da un pugno sferrato da un 19enne veneto. Secondo quanto riportato, il ragazzo avrebbe confessato.   Il giovane veneto si sarebbe accompagnato da due amici, uno con un nome apparentemente nordafricano, un altro con un cognome che pare ghanese. Si tratta, secondo una TV locale, di una «banda ben nota», che «all’inizio era una baby gang che ora non è più così baby, anzi, ed è di una grande pericolosità per tutti i cittadini». Il trio si sarebbe scontrato «con due ucraini residenti a Pescara, in città per lavoro in un cantiere edile».

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Secondo RaiNews, il GIP «ha convalidato l’arresto per rissa aggravata di tutti e cinque i partecipanti».   La dinamica dei fatti sarebbe stata ricostruita dalla Questura «grazie ai testimoni e alle telecamere, pubbliche e private», scrive il sito della radiotelevisione pubblica italiana.   «Poco dopo le 3, due dei ragazzi veneti fumano per strada, conversando tranquillamente con i due ucraini. Sopraggiunge il terzo amico e cerca subito uno scontro fisico. Seguono degli spintoni». Uno degli ucraini «viene colpito con un pugno, rovina a terra, dove viene picchiato con pugni, calci e con la sedia di un bar».   «Uno dei tre corre a prendere un coltello da cucina nel bed and breakfast in cui alloggiavano, poco distante».   «Interviene una donna di passaggio, termina la prima fase dell’aggressione. I due ucraini si rifugiano nel vicino ristorante kebab. Vengono inseguiti dai tre ventenni».   È qui che avviene l’incontro fatale con l’imprenditore giapponese.   «Tominaga chiede loro di stare tranquilli, lasciar perdere. Un pugno al volto, e il 56enne cade per terra e sbatte violentemente la testa, finendo in arresto cardiaco». Non basta: sarebbero stati «aggrediti – anche con uno sgabello – i due amici che erano con Tominaga».   «I tre avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».   Per quanto riguarda invece gli ucraini, «niente misura cautelare in carcere. Per uno di loro disposto il divieto di dimora in Friuli Venezia Giulia».   A parte il ragazzo che avrebbe sferrato il cazzotto fatale, parrebbe quindi una rissa tra immigrati. Una delle tante che si consumano, finendo al massimo in un trafiletto di cronaca locale (ma spesso neanche quello), in aree urbane oramai divenute preda della prepotenza dei «migranti» – le zone, in cui, generalmente, abbondano di kebabbari.   Stavolta però la notizia sta avendo eco nazionale, perché c’è scappato il morto, sul quale vogliamo dire due parole.

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Con Shinpei – che i giornali chiamano Shimpei, con la «m»: nella lingua giapponese il suono «mp» non esiste, ma non è escluso che se lo fosse italianizzato lui stesso – il nostro Paese non perde poco.   Innanzitutto, ricordiamo il suo lavoro: export di mobili verso il Giappone. Il mobile, in particolare la sedia, trova in Friuli un distretto di eccellenza, distrutto negli ultimi due decenni dalla concorrenza cinese. Tuttavia chi cerca la qualità della manifattura non si può far incantare dalla merce a buon mercato dei mandarini: il popolo del Sol Levante è noto per la sua appassionata pignoleria, da cui proviene il suo rispetto per l’Italia.   Shinpei, quindi, per l’Italia faceva un lavoro inestimabile: teneva in vita l’economia del prodotto di qualità, di per sé una vera resistenza alla globalizzazione, cioè alla cinesizzazione, che ha devastato la piccola e media impresa dell”Alta Italia consegnandoci all’incubo di disintegrazione della classe media e di deindustrializzante che stiamo vivendo.   Di più: Shinpei, che aveva la famiglia in Giappone, in realtà l’Italia la conosceva bene, e con probabilità l’amava davvero. Era cresciuto a Roma, dove il padre Kenichi Tominaga commercializzava i cartoni giapponesi divenuti centrali per l’infanzia di tanti italiani: con Orlando Corradi aveva fondato una casa di distribuzione chiamata Doro TV Merchandising, la cui sigla con il cagnolino è nei ricordi di moltissimi, che vendeva gli anime ai network televisivi pubblici e privati italiani. Goldrake e Conan li ha portati da noi il babbo di Shinpei.   Pezzi di storia, pezzi di relazioni vere, e profonde, tra due Paesi sviluppati, l’Italia e il Giappone, terminati dalla barbarie presente, che ora tocca senza problemi anche le città di provincia.   No, non si è al sicuro anche nella tranquilla cittadina a statuto speciale, nemmeno se sei con tre amici per strada, nemmeno se ti offri di aiutare un ragazzo insanguinato. Quello che ti aspetta, uscito di casa nell’Italia contemporanea, è la morte – un sacrificio gratuito sorto dalla fine della civiltà in Europa.   Su Renovatio 21 abbiamo adottato il concetto, introdotto nei primi anni Duemila dallo scrittore statunitense Samuel Todd Francis (1947-2005), chiamato «anarco-tirannia», cioè quella sorta di sintesi hegeliana in cui lo Stato moderno regola tirannicamente o oppressivamente la vita dei cittadini – tasse, multe, burocrazia – ma non è in grado, o non è disposto, a far rispettare le leggi fondamentali a protezione degli stessi. La rivolta etnica delle banlieue francesi della scorsa estate ne sono l’esempio lampante, lo è anche, se vogliamo, il grottesco e drammatico video in cui il poliziotto tedesco attacca il connazionale che stava tentando di contrastare un immigrato armato di coltello, il quale per ringraziamento pugnala e uccide lo stesso poliziotto.   C’èst à dire: nella condizione anarco-tirannica, il fisco ti insegue ovunque, la giustizia ti trascina in tribunale perché non portavi la mascherina o perché hai espresso idee dissonanti, ma se si tratta di fermare il ladro, il rapinatore, etc., non sembra che nessuno, viste le percentuali di reati rimasti impuniti, faccia davvero qualcosa. E qualora prenda il criminale, ben poco viene fatto perché il crimine non sia ripetuto. Nel caso presente, i tre fermati, ribadiamo, «avevano già precedenti, a vario titolo, per rapina, lesioni e minacce».   La legge, le forze dell’ordine, lo Stato non sembrano aver fatto moltissimo per fermare il crimine, e convertire il criminale, che prosegue ad agire come in assenza di un potere superiore a lui – appunto, l’anarchia. Anarchia per i criminali, tirannide per i cittadini comuni, incensurati, onesti, contribuenti. Va così.   Al di là dell’amarezza, è il caso di comprendere cosa significa materialmente – cioè, biologicamente – l’avvio dell’anarco-tirannia per le vostre vite. L’anarco-tirannide produce giocoforza la vostra insicurezza, perché minaccia direttamente i vostri corpi. Lo stato di anarchia è quello in cui, non valendo alcuna autorità, la violenza non può essere fermata.   Se ci fate caso, in tanti teorici dell’anarchia spunta ad un certo punto quest’idea del mondo che va portato verso il baccanale dionisiaco, con l’orgia e la violenza come grottesco strumento per testimoniare la supposta libertà dell’essere umano, slegato da ogni legge anche morale. Non è il caso che gli scritti di uno massimi teorici dell’anarchismo odierno, siano stati accusati di essere pedofili.

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E quindi, uscire di casa, per un bicchiere con gli amici, è di per sé un’azione pericolosa. La strada, la vita quotidiana stessa, diventa una minaccia. È già così in tante aree cittadini: circolarvi di notte è qualcosa di pericoloso. Ecco la formazione delle no-go zones, che sono – se mai ce n’era ulteriore bisogno – la dimostrazione fisica della possibilità di lasciare che si neghi la Costituzione, la nel suo articolo 16 prevede la libera circolazione dei cittadini su tutto il suolo nazionale.   Qui, nel contesto di aggressioni continue e randomatiche, non vi è solo la vostra incolumità fisica, in gioco: c’è la vostra natura morale ad essere pervertita, perché – come nella tragedia di Udine – le virtù cristiane, come tentare di terminare un conflitto o aiutare qualcuno in difficoltà, viene punita con il sangue.   È la fine dello stato di diritto, e al contempo della legge naturale, della fibra morale che unisce la società. È l’instaurazione del regime del più forte, trionfo ideale del nazismo, dove il debole deve accettare di essere sacrificato dall’aggressore vittorioso. È un’espressione che forse avete sentito dire a qualche bullo delle medie quando, oltre che l’obbiettivo, finiva per picchiare qualcun altro: «si è messo in mezzo».   Nel mondo nuovo, decristianizzato dall’immigrazione, dallo Stato e dal papato stesso, chi fa da paciere può finire ucciso. Quindi, meglio farsi gli affari propri, non intromettersi…   «Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinunzino all’azione», è un aforisma falsamente attribuito al filosofo settecentesco Edmund Burke, che tuttavia contiene una verità incontrovertibile. In una situazione di rischio fatale, chi mai ha voglia di fare la cosa giusta, e aiutare il prossimo?   Ecco raggiunto il vero scopo del processo dell’anarco-tirannide. Una società atomizzata, dove la paura costante del prossimo, dove l’ansia primaria per la sopravvivenza previene la possibilità della coesione sociale, così da lasciar liberi i padroni del vapore di far quel che vogliono senza timore di resistenza popolare.   Una società divenuta preda del malvagio è una società che può essere manipolata a piacimento. Nessun gruppo umano si oppone ai comandi del vertice, per quanto soverchianti e contraddittori: e lo abbiamo visto in pandemia. Quindi l’anarco-tirannia è, diciamo, una fase del Regno Sociale di Satana.   E quindi, cosa dobbiamo fare?   Quale politica per prevenire che le nostre vite divengano incubi?   Facciamo qualche semplice proposta.   Innanzitutto, si deve andare oltre al rifiuto più assoluto l’immigrazione: si deve chiedere, secondo una parola sempre più usata nel mondo germanofono, la remigrazione. Milioni e milioni di migranti, portati qui per infliggerci questa ingegneria sociale del male, vanno espulsi dal Paese, e questo a costo di svuotare interni quartieri.   Secondo: si deve istituire una forma di punizione dura al punto da essere considerata un vero deterrente: la galera, al momento, non lo è. Ricordiamo che, per quanto possano aver detto preti e papi postconciliari, la pena di morte non è contraria alla dottrina cattolica. E ricordiamo che i lavori forzati, che aiuterebbero economicamente il Paese, darebbero finalmente un senso all’esistenza dei carcerati: in passato si è detto che non è possibile farli lavorare davvero perché nella Costituzione, segnata dalla mentalità sovietica dei padri costituenti PCI permessa dai padri costituenti DC – c’è scritto che il lavoro va retribuito. Noi qui rammentiamo che anche quel tabù lo abbiamo perso: la Costituzione, negli ultimi anni, è stata violata in ogni modo.   Terzo: è necessario che qualcuno si intesti davvero il discorso politico sul porto d’armi inteso come nel concetto americano di carry: vi sono stati americani in cui si ha l’open carry, ossia la possibilità di circolare per strada visibilmente armati, in altri si ha il concealed carry, dove l’arma può essere portata seco quando nascosta. È inutile evitare il pensiero, nella giungla anarco-tirannica, l’unica deterrenza, e oltre l’unica forma di difesa, potrebbe divenire l’essere armati sempre ed ovunque – cosa triste ed orrenda, forse, ma anche qui, va così.   Purtroppo, causa di recenti incresciosi episodi consumatisi nel capodanno di parlamentari di Fratelli d’Italia, è difficile che il governo Meloni voglia avventurarsi in questa direzione, che pure dovrebbe essere la sua. C’è da ringraziare chi, secondo quanto ricostruito, avrebbe avuto l’idea geniale di tirare fuori una pistola in pubblico…   Quanto ai tempi che ci aspettano, abbiamo iniziato a scriverne un paio di anni fa. Quando terminerà la guerra ucraina, una quantità di veterani di Kiev, tra cui i molti tatuati neonazisti, potrebbero finire da noi. Forse esiliati, forse solo in tour a trovare la mamma, la zia, la sorella badante. Difficile che, a questo punto, quei ragazzi non si raggrupperanno in bande amalgamate da lingua, storia, esperienza (chi ha fatto la guerra insieme, non si molla mai) e credenza fanatico-religiosa nell’ideale ucronazista.

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C’è da dire che forse arriveranno anche armati, perché la quantità di armi inviate da USA e Paesi NATO – già finite a mafie in Finlandia, in Spagna, ai narcos in Messico, ai terroristi in Siria – è talmente vasta che qualcosa resterà con loro. A differenza del tranquillo contribuente italiano, la futura banda post-bellica – fenomeno cui abbiamo assistito negli anni Novanta con i gruppi di veterani della guerra di Bosnia che assaltavano le ville – sarà armata fino ai denti.   La situazione che si ingenererà per la giungla fuori da casa vostra ha un nome: gli strateghi dell’ISIS, nel loro mirabile manuale, la chiamavano Idarat at-Tawahhus, cioè «gestione della barbarie», o «gestione della ferocia».   I jihadisti teorici dello Stato Islamico concepivano il crollo di uno Stato come l’apertura di possibilità immani: dopo una prima fase che definivano «vessazione e potenziamento» – dove si estenua la popolazione di un territorio con estrema violenza e paura – si fa partire una seconda fase, dove, sulla scia del crollo dell’ordine dello Stato e l’instaurazione di una «legge della giungla» sempre più belluina, prevale tra i sopravvissuti pronti ad «accettare qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia composta da persone buone o cattive».   Appunto: «fatti gli affari tuoi». «Non ti immischiare».   Siamo davvero disposti ad accettare la trasformazione della società in un incubo satanico?   Davvero vogliamo assistere alla fine della civiltà guardando inani dalla finestra, e pregando che il caos non arrivi a trucidare anche noi ed i nostri cari?   Quali gruppi umani possono davvero opporsi a questo processo di morte e distruzione?   Domande a cui bisogna rispondere quanto prima. Nel frattempo, le brave persone, gli innocenti, i virtuosi, vengono ammazzati, sacrificati all’altare dell’anarco-tirannide progettata per sottomettervi.   Roberto Dal Bosco

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Civiltà

Tecnologia e scomparsa della specie umana: Agamben su progresso e distruzione

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.

 

Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca».

 

«Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata».

 

È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.

 

Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale.

 

Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie.

 

L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata.

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«Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».

 

È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo.

 

Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.

 

All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative.

 

L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.

 

Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.

 

Giorgio Agamben

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