Geopolitica
Confini incerti dietro alla guerra «infinita» tra kirghisi e tagiki
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
I due Paesi hanno quasi 1.000 km di frontiera ancora non riconosciuti del tutto. Scambio di accuse tra le parti. Almeno 100 le vittime; ora è in vigore un cessate il fuoco. Più di 150 scontri in 10 anni. Si tenta di rilanciare una commissione congiunta per la determinazione dei confini.
È lutto nazionale in Kirghizistan, per commemorare i caduti degli scontri tra il 14 e il 17 alla frontiera con il Tagikistan.
Il problema si trascina ormai da anni, eredità delle confusioni di epoca sovietica e delle ostilità ancestrali tra un popolo di origine mongola (i kirghisi) di fronte a uno di origine iranica (i tagiki), in una regione abitata da altri popoli turanici. Si accumulano fattori etnici, economici, politici e culturali che complicano la gestione di ogni zona geografica contesa, lungo i quasi 1.000 chilometri di confine ancora non riconosciuti del tutto da entrambi i Paesi.
Più che un attacco programmato dell’una o dell’altra parte, nei giorni scorsi si è verificata un’improvvisa sparatoria, degenerata in uno scontro in tutta l’area delle vallate che si snodano nella zona di frontiera, dove è impossibile distinguere le aree di competenza dell’uno o dell’altro Stato, soprattutto per quanto riguarda le strade e le risorse idriche.
Sulle dispute influiscono anche molti micro-conflitti locali tra gruppi tribali e familiari, che spesso sono legati a fenomeni di contrabbando, e le responsabilità si scaricano sempre e reciprocamente sulla parte avversa.
Il capo dei servizi speciali del Kirghizistan, Kamčibek Tašiev, ha chiesto perdono ai genitori dei giovani soldati rimasti uccisi: «Voi ce li avete dati per servire la Patria, per me erano quasi figli miei… abbiamo perso dei veri eroi, mi inchino al loro coraggio».
Anche l’ex presidente Sooronbai Žeenbekov si è unito al cordoglio pubblico.
Biškek ha informato di 59 vittime, 140 feriti e 140mila persone evacuate dalla zona degli scontri, accusando i tagiki di «azione pianificata di aggressione a vasto raggio».
Tutto ha avuto origine il 14 settembre da uno scambio di colpi sul punto di frontiera Kekh, vicino alla città tagika di Isfar. Il capo del Consiglio kirghiso di sicurezza, Marat Imankulov, ha detto di «essere pronto a dimostrare alla comunità internazionale la premeditazione dell’assalto tagiko» con materiali foto e video.
Il vice ministro degli Esteri del Tagikistan, Sodik Imomi, ha dichiarato a sua volta la perdita di 41 soldati «come risultato dell’aggressione del Kirghizistan» in vari centri abitati il 16 settembre, senza chiarire quanti civili siano rimasti coinvolti o uccisi, ma aggiungendo che diversi feriti versano in condizioni molto gravi.
Nelle accuse ai kirghisi si parla di «crimini contro l’umanità», con violente sparatorie contro le case dei civili, in cui sarebbe stata sterminata una famiglia con bambini e una donna incinta, e anche contro le ambulanze e gli uffici dell’amministrazione locale.
Il portale Eurasianet ha peraltro diffuso dei video che non confermano le accuse da parte del Tagikistan, «dove l’informazione subisce forti repressioni statali». Alcuni soldati tagiki avrebbero effettuato i filmati, che mostrano un attacco diretto agli obiettivi kirghisi, non una difesa del territorio nazionale.
La zona più colpita sembra essere comunque la città kirghiza e il circondario di Batken, con il proprio aeroporto, dove si sarebbe concentrato l’assalto dell’esercito tagiko.
Il primo ministro di Biškek, Akylbek Žaparov, ha denunciato la distruzione nella zona di 282 obiettivi, caserme militari e abitazioni civili, strutture di mercati e negozi, e anche nove scuole e tre asili.
Tutte le scuole della zona hanno interrotto le attività didattiche, e molte persone sono state evacuate. Il presidente ha già firmato un decreto per le “misure immediate e straordinarie di ricostruzione delle unità territoriali delle regioni di Batken e di Oš”.
Il 16 settembre si sono incontrati al summit di Samarcanda i due presidenti: il kirghizo Sadyr Žaparov e il tagiko Emomali Rakhmon.
Si sono accordati per il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe che nel frattempo si erano ammassate sui due lati del confine. Sul posto si attiverà una commissione congiunta con Tašiev e il suo omologo tagiko Saimumin Yatimov per chiarire tutti i dettagli del conflitto.
Sarà rilanciata anche l’attività della Commissione intergovernativa per la determinazione delle frontiere, faticosamente approvata già da diversi mesi.
I conflitti armati su questi incerti confini hanno già superato i 150 episodi negli ultimi 10 anni, e anche il Comitato internazionale della Croce Rossa ha rivolto un appello alle dirigenze dei due Paesi, affinché non vengano più coinvolti i civili pacifici in questi scontri.
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Geopolitica
L’UNICEF denuncia come Israele ignora il cessate il fuoco ONU e continua il massacro di Gaza
In una conferenza stampa tenuta il 26 marzo a Rafah James Elders, portavoce del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), ha fornito un rapporto completo sulla devastazione a cui sta assistendo ora, dopo un’assenza di tre mesi. Lo riporta EIRN.
Elders ha riferito che i combattimenti notturni tra lunedì sera, 25 marzo e martedì 26 marzo avevano prodotto «un numero a due cifre di bambini uccisi», avvenuti «solo poche ore dopo l’approvazione della risoluzione» del Consiglio di Sicurezza.
Il funzionario UNICEF ha dichiarato che a Rafag ora si «discute infinitamente di un’operazione militare su larga scala». Questa è «una città di bambini. Ci sono 600.000 ragazze e ragazzi», ha detto, ma è «irriconoscibile a causa della congestione, delle tende agli angoli delle strade e dei terreni sabbiosi. La gente dorme per strada, negli edifici pubblici, in ogni altro spazio vuoto disponibile»
«A Rafah c’è circa un bagno ogni 850 persone. Per quanto riguarda le docce, il numero è quattro volte superiore: una doccia ogni 3.600 persone. Questo è un disprezzo infernale per i bisogni umani fondamentali e la dignità».
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«Un’offensiva militare a Rafah?» si è chiesto l’Elders. «Offensiva è la parola giusta. Rafah, sede di alcuni degli ultimi ospedali, rifugi, mercati e sistemi idrici rimasti a Gaza».
Il portavoce UNICEF ha anche visitato Khan Younis, a nord di Rafah, che secondo lui era irriconoscibile. «Esiste a malapena più. Nei miei 20 anni con le Nazioni Unite, non ho mai visto una tale devastazione. Solo caos e rovina, con macerie e detriti sparsi in ogni direzione. Annientamento totale».
L’ospedale Nasser, «un luogo così critico per i bambini feriti dalla guerra», non è più operativo. Infatti, solo un terzo degli ospedali di Gaza sono «parzialmente funzionanti». Cinque ospedali sono sotto assedio da parte delle forze israeliane.
Visitando la città di Jabalia, nel nord di Gaza, Elders ha riferito che tra l’1 e il 22 marzo, a un quarto delle 40 missioni di aiuto umanitario nel Nord di Gaza è stato negato l’ingresso nella Striscia. Ha assistito a centinaia di camion delle Nazioni Unite e di ONG internazionali, che trasportavano aiuti umanitari salvavita, rimasti indietro sul lato israeliano del confine, in attesa di entrare a Gaza.
Se il vecchio valico di Erez, a 10 minuti di distanza, fosse aperto, «potremmo risolvere questa crisi umanitaria nel nord nel giro di pochi giorni», ha detto Elders. Il portavoce dell’UNICEF ha concluso: «la privazione, la disperazione forzata, significa che la disperazione pervade la popolazione. E i nervi delle persone sono scossi da attacchi incessanti».
«L’indicibile viene regolarmente detto a Gaza. Dalle adolescenti che sperano di essere uccise; sentirsi dire che un bambino è l’ultimo sopravvissuto dell’intera famiglia. Tale orrore non è più unico qui (…) In tutto questo, tanti palestinesi coraggiosi, generosi e instancabili continuano a sostenersi a vicenda, e le agenzie sorelle delle Nazioni Unite e l’UNICEF continuano a farlo».
«Come abbiamo sentito ieri: il cessate il fuoco deve essere sostanziale, non simbolico. Gli ostaggi devono tornare a casa. Alla gente di Gaza deve essere permesso di vivere» ha dichiarato il funzionario onusiano.
«Nei tre mesi tra le mie visite, ogni numero orribile è aumentato drammaticamente. Gaza ha infranto i record dell’umanità nei suoi capitoli più oscuri. L’umanità deve ora scrivere urgentemente un capitolo diverso».
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Geopolitica
Putin: non ci sono «nazioni ostili» per la Russia, solo «élite ostili»
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Geopolitica
Il presidente serbo lancia l’allarme: minacce dirette alla Serbia e ai serbi bosniaci
La Serbia sta attraversando giorni estremamente difficili, ha dichiarato il presidente Aleksandar Vucic, aggiungendo che sono in gioco gli interessi nazionali del Paese. Lo riporta RT.
La Nazione balcanica si è costantemente opposta ai tentativi della sua provincia separatista del Kosovo di aderire agli organismi internazionali, ma la regione ha recentemente fatto progressi in questo senso.
Mercoledì il leader serbo ha pubblicato un messaggio criptico su Instagram, avvertendo che «si prospettano giorni difficili per la Serbia» e che «in questo momento non è facile dire che tipo di notizie abbiamo ricevuto nelle ultime 48 ore».
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Gli sviluppi «minacciano direttamente gli interessi nazionali vitali sia della Serbia che della [Republika] Srpska», ha osservato Vucic, senza fornire ulteriori dettagli, dicendo solo che presenterà ai suoi concittadini le sfide future nei prossimi giorni.
La Republika Srpska è una regione parzialmente autonoma dominata dai serbi all’interno della Bosnia ed Erzegovina.
«Sarà dura… Combatteremo, la Serbia vincerà», ha aggiunto Vucic.
Anche se non è chiaro a cosa si riferisse Vucic, è pronto a incontrare mercoledì alti diplomatici di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, secondo il sito web Pink.rs. Si prevede che l’ordine del giorno dell’incontro verterà sulla richiesta del Kosovo di aderire al Consiglio d’Europa, organismo internazionale di vigilanza sui diritti umani.
Secondo Pink, Vucic «non perderà l’occasione di ripetere (…) che si è trattato di una mossa perfida che ha anche un peso simbolico poiché è stata compiuta proprio il giorno che è stato scritto a lettere nere nella memoria collettiva dei serbi».
Il giornale si riferiva al 25° anniversario dell’inizio della campagna di bombardamenti della NATO contro l’ex Jugoslavia per quello che il blocco ha definito «uso sproporzionato della forza» contro un’insurrezione di etnia albanese in Kosovo.
Verrà discussa anche la decisione della commissione permanente dell’Assemblea parlamentare della NATO di elevare la regione separatista del Kosovo allo status di membro associato. La decisione finale sulla questione è attesa per la fine di maggio.
Nel frattempo Radio Sarajevo ha fatto intendere che il presidente serbo avrebbe reagito alla decisione dell’alto rappresentante della Bosnia ed Erzegovina Christian Schmidt di modificare la legge elettorale del paese. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante è un’organizzazione internazionale che sovrintende all’accordo di Dayton del 1995, che ha posto fine a una sanguinosa guerra nella Nazione balcanica.
Schmidt ha dichiarato martedì che utilizzerà la sua autorità per introdurre riforme del voto digitale come parte di un progetto pilota nel paese.
La mossa è stata accolta con il rifiuto del presidente della Republika Srpska Milorad Dodik, che ha detto che Schmidt non ha nulla a che fare con il processo elettorale, aggiungendo che «appartiene alle persone che vivono in Bosnia ed Erzegovina».
In una intervista all’agenzia russa TASS dello scorso mese il Vucic aveva dichiarato che la comunità internazionale non è più interessata a porre fine ai conflitti e vede invece la pace come un ideale «indesiderato».
Come riportato da Renovatio 21, settimane fa il presidente serbo aveva rincarato la dose accusando l’Occidente di perseguire una politica di «militarizzazione totale» per sconfiggere la Russia, che mette la regione e il mondo sull’orlo del disastro e sull’orlo della Terza Guerra Mondiale.
«Quello che sta succedendo adesso è una follia», aveva detto ai media regionali. «Tutti pensavano che Putin sarebbe stato sconfitto facilmente. Ora vedono che non è così».
Sei mesi fa il presidente serbo aveva detto che le forze di pace NATO hanno dato agli albanesi del Kosovo «carta bianca» per uccidere i serbi. «Il Kosovo vuole iniziare una guerra NATO-Serbia» aveva detto un anno fa il Vucic.
Come riportato da Renovatio 21, l’Italia pare essere già schierata nel teatro balcanico: il premier Giorgia Meloni aveva prima alzato la voce quando truppe italiane del contingente KFOR erano state ferite in un moto dei serbi kosovari, poi l’estate scorsa ha compiuto un bizzarro, enigmatico viaggio privato dal premier albanese Edi Rama, risaputo uomo proveniente dalle file dello speculatore internazionale Giorgio Soros.
In una intervista di mesi fa con Tucker Carlson il presidente ungherese Viktor Orban aveva rivelato che con il presidente serbo Vucic sarebbe d’accordo nel considerare un attacco al gasdotto South Stream, che porta il gas dalla Russia in Ungheria e Serbia, come un atto di guerra, al quale, dice, «reagiremo».
Tre mesi fa si era assistito ad un probabile tentativo di «maidanizzazione», a Belgrado a seguito delle elezioni. Alti funzionari serbi avevano descritto le proteste come un tentativo di «rivoluzione colorata» e hanno affermato di essere stati avvertiti dalla Russia: il presidente serbo Vucic aveva affermato che la protesta è stata sponsorizzata dalle potenze occidentali che volevano rimuoverlo dall’incarico per i suoi cordiali rapporti con la Russia e per il rifiuto di abbandonare le rivendicazioni della Serbia sul Kosovo, citando i rapporti dei servizi segreti stranieri.
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Immagine di European Union via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International; immagine tagliata
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