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«Battleground Melbourne»: come la città più vivibile del mondo è divenuta un incubo di violenza totalitaria

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È uscito da qualche giorno il documentario Battleground Melbourne, un’opera che dà una precisa cronaca del tremendo biennio pandemico vissuto dalla città che era stata giudicata, per setti anni di fila, come la «più vivibile del mondo».

 

L’autore del documentario è Topher Field, uno di quegli attivisti che abbiamo visto sulle strade delle incredibili, pericolosissime manifestazioni di protesta nella città Australiana.

 

Si tratta della cronaca, fedele e approfondita, dei vari momenti dell’escalation che ha trasformato Melbourne (città lodata per le sue infrastrutture, per i servizi, la prosperità economica, per gli abitanti socievoli,  per l’aria spensierata che vi si respirava) in un incubo totalitario: un vero campo di battaglia, una «zona di guerra». Le immagini mostrate dimostrano che queste espressioni non sono iperboli.

 

Si tratta della cronaca, fedele e approfondita, dei vari momenti dell’escalation che ha trasformato Melbourne (città lodata per le sue infrastrutture, per i servizi, la prosperità economica, per gli abitanti socievoli,  per l’aria spensierata che vi si respirava) in un incubo totalitario: un vero campo di battaglia, una «zona di guerra»

Molti di questi momenti erano stati raccontati in questi due anni anche sulle pagine di Renovatio 21:

 

C’è il momento dell’arresto della madre incinta, a casa sua, davanti a marito e figli.

 

Ci sono gli scontri visti in piena città, con la polizia a cavallo.

 

C’è la tensione al mercato, quando il popolo respinse la polizia urlando «Freedom! Freedom!»

 

C’è la scena del canyon, quando la polizia viene travolta dalla coraggiosa prima linea dei manifestanti, che sfidano lo spray urticante e passano lo stesso oltre i cordoni di agenti.

 

C’è la marcia contro l’obbligo vaccinale dei 20 mila manovali sul ponte di Melbourne – un ponte che hanno costruito proprio loro.

 

Ci sono le scene di violenza gratuita per strada, anche fuori dalle proteste.

 

Ci sono le pallottole di gomma improvvisamente sparate dalla polizia, e i loro effetti.

 

Ci sono immagini di persone atterrate e picchiate.

 

 

E poi, ci sono i vari «eroi».

 

C’è Avi Yemini, giornalista israelo- australiano, i cui video hanno fatto il giro del mondo – anche e soprattutto quelli, partiti quasi subito, dove viene buttato a terra ed arrestato dalla polizia.

 

C’è Rukshan Fernando, un videomaker che faceva matrimoni, divenuto la voce e l’occhio mondiale sulla repressione poliziesca di Melbourne. Come nel caso di Avi Yemini e tanti altri di questi protagonisti della pacifica rivolta, vediamo gli agenti di polizia bussare alla porta di casa sua.

 

C’è la cameriera che ha perso il lavoro, ma che ha capito tutto, che sa che la democrazia è finita davvero, e di aver perso ogni libertà.

 

C’è l’anziana immigrata dall’Irlanda del Nord, che ricorda perfettamente come sono iniziati laggiù i Troubles, gli anni di piombo dell’Ulster. Stessa cosa a Melbourne.

 

C’è l’operaio edile ancora incapace di comprendere come il suo sindacato possa averlo tradito a quel modo.

 

C’è un poliziotto che si è dimesso dopo aver visto cosa stava succedendo – e lui che apre il film, chiedendo scusa al popolo australiano che aveva giurato di difendere, e dicendo che, per correggere il torto che ha fatto, è pronto a dare la sua vita.

 

C’è Monica Smit, di cui Renovatio 21 ha parlato varie volte, la prima attivista a farsi quasi un mese di carcere perché rifiuta di cancellare quello che ha scritto sul suo sito. La Smit è dovuta fuggire dal Victoria, perché uno spiffero le ha detto che nella lista dei nemici pubblici del governo del premier Dan Andrews, lei sta in alto – e una nuova legge, tra le tante di follia pura approvate, consente l’arresto per direttissima di chi vogliono arrestare. «Sono costretta a diventare latitante perché ricercata dal mio stesso governo… per le mie idee!» sbotta la bella Smit, nonostante tutto ancora incredula.

 

C’è Paolo, senza cognome, un ragazzo alto e biondo che lavora nel campo della sanità mentale, e che racconta le cose pazzesche, orrende, strappalacrime a cui ha dovuto assistere.

 

Il lockdown australiano è analizzato anche nei suoi effetti psicologici devastanti. Un argomento che piano piano trova qualche articolo nella stampa nostrana, ma sottovoce, e con ritardo abissale.

 

Vi sono storie umane lancinanti che non potevamo conoscere, perché fanno parte del tessuto umano della comunità profonda, racconti che sui giornali non possono essere registrati.

 

C’è l’insegnante di nuoto, un passato nella droga, 5 figli, che va a suicidarsi mettendosi sul binario del treno. Viene salvato dalla sua dottoressa, che capita la situazione infrange la legge ed esce di casa per salvare il suo paziente.

 

C’è il ragazzo 20enne cresciuto dall’amata nonna, che non ha nessuno al mondo a parte lui. La nonna vive appena oltre il confine della città, un limite divenuto invalicabile durante i lockdown: nessuno poteva entrare o uscire dalla città, nemmeno per andare nei paesini della prima periferia. La nonna si ammala. Per sei settimane, il ragazzo cerca di tornare da lei. La polizia controlla ogni punto d’uscita da Melbourne. La nonna muore, sola. Il ragazzo non è riuscito a vedere per l’ultima volta la donna che lo ha cresciuto. Pochi giorni dopo, si suicida.

 

Non si tratta di casi isolati.

 

La violenza mostrata diventa, ad un certo punto, quasi insostenibile. È una violenza anche concettuale: dagli occhi dei protagonisti intervistati, sentiamo il loro stupore quando si rendono conto di come le cose stiano cambiando. Alle manifestazioni del quarto lockdown, il più lungo ed estenuante, cominciano a notare i «Bearcat», mezzi corazzati riempiti di soldati dell’antiterrorismo. È stato mostruoso, dice un’intervistata, comprendere che il tuo Stato sta usando l’antiterrorismo contro di te. Di fatto, lo Stato considera ora la dissidenza un nemico materiale.

 

Su tutto, spicca il ruolo centrale del premier dello stato del Victoria, Daniel «Dan» Andrews, un uomo capace di mentire ripetutamente, e di ordinare una delle repressioni più brutali viste al mondo – un uomo comunque, va detto, incredibilmente sostenuto da una parte della popolazione, quella che non fa lavori di fatica o che non ha attività commerciali: sono quelli che, viene detto nel documentario, hanno un laptop job, un lavoro che possono fare con il portatile. Sono i consulenti, i designer, etc. Per loro Andrews, figura odiata dalla protesta come nient’altro al mondo, assume un ruolo rassicurante, paterno. Nonostante l’aspetto sgraziato dei suoi discorsi, la preoccupante mancanza di empatia, l’incapacità di reagire con una risposta che non sia la repressione brutale, con la polizia divenuta davvero il braccio armato di una trasformazione totalista dello Stato, le «camicie brune» del regime pandemico di Andrews. (Sui motivi per cui i vertici delle forze dell’ordine del Victoria abbiano obbedito a ordini così folli – attaccare lo stesso popolo che hanno giurato di difendere – è mistero fitto ma non fittissimo)

 

Battleground Melbourne è stato prodotto grazie al supporto di migliaia di donatori. L’autore non fa mistero di dovere un ringraziamento particolare alla polizia comandata da Andrews: le donazioni si sono impennate il giorno in cui alcuni agenti si sono presentati a casa sua per portarlo via, alla Centrale, e poi metterlo sotto processo – prima udienza questo mese.

 

Il film è disponibile su Youtube – al momento. Non è improbabile che venga cancellato da un momento all’altro, quindi sbrigatevi a vederlo.

 

Mettiamo il video in embed qui sotto. È gratis.

 

 

 

 

Immagine screenshot da Youtube

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Statua di Melania Trump vandalizzata in Slovenia

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Una statua della First Lady statunitense Melania Trump, eretta vicino alla sua città natale di Sevnica, in Slovenia, è stata vandalizzata e rubata, innescando un’indagine della polizia.

 

Le foto mostrano che la statua è stata in gran parte tagliata via, con solo i piedi e le caviglie rimasti sul tronco d’albero su cui era stata eretta. La polizia slovena ha confermato ai media di aver trattato l’incidente, avvenuto il 13 maggio, come un caso di furto e di aver avviato un’indagine formale.

 

 

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La figura in bronzo a grandezza naturale, che si trovava in un campo, succedeva a una precedente versione in legno che fu incendiata un anno dopo la sua installazione nel 2019. La sostituzione in bronzo, inaugurata nel 2020, è opera degli stessi autori: l’artista concettuale americano Brad Downey e l’artista locale Ales Zupevc.

 

La statua di legno aveva suscitato reazioni contrastanti tra i residenti. Scolpita con una motosega da un tronco di pioppo, raffigurava Melania con un abito dipinto di azzurro polvere e tacchi, a quanto pare un riferimento all’abito di cashmere indossato all’insediamento del marito nel 2017.

 

L’opera d’arte è stata distrutta il 4 luglio 2020, in concomitanza con il Giorno dell’Indipendenza negli Stati Uniti.

 

 

La statua è diventata una curiosità turistica a Sevnica, una cittadina sul fiume Sava nella Slovenia orientale con circa 5.000 abitanti. Il luogo ha attirato l’attenzione internazionale dopo che Melania Trump è diventata first lady degli Stati Uniti.

 

 

Melania, nata Knavs (cognome poi germanizzato per qualche ragione in Knaus) trascorso i suoi primi anni a Sevnica prima di intraprendere una carriera da modella che l’ha portata prima a Milano e Parigi e poi negli Stati Uniti nel 1996. Da allora, la città natale avrebbe introdotto una linea di prodotti a tema Melania per celebrare la sua ex residente più nota.

 

È riportato che il presidente abbia visitato almeno una volta la cittadina assieme alla moglie.

 

«La mia sensazione è che abbia a che fare con le nuove elezioni, ma chi lo sa, vero?», ha detto l’artista Downey all’AFP, commentando l’ultimo incidente. Ha descritto la statua scomparsa come un «anti-monumento» e «anti-propaganda».

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Immagine screenshot da YouTube

 

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Morto Zurab Tsereteli, scultore di titaniche sculture

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Il celebre artista russo-georgiano Zurab Konstantinovic Tsereteli, emblema della scultura russa, è morto all’età di 91 anni, ha annunciato il suo assistente.   Secondo quanto riportato, il maestro Tsereteli ha avuto un infarto all’1:30 di martedì a Mosca. Più tardi, il suo staff ha annunciato che una cerimonia di addio si sarebbe tenuta nell’iconica Cattedrale di Cristo Salvatore, ma che sarebbe stato sepolto nella sua natia Georgia.   Tsereteli, presidente dell’Accademia Russa delle Arti dal 1997, era ampiamente considerato una figura di spicco dell’arte monumentale sovietica e russa. Tra le sue opere più note c’è l’imponente statua di Pietro il Grande a Mosca. Alta 98 ​​metri, la statua fu inaugurata nel 1997 per commemorare i 300 anni della Marina russa. Rimane una delle statue più alte del mondo.

Immagine Mos.ru via Wikimedia CC BY 4.0

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Il monumento, tuttavia, è stato oggetto di notevoli controversie. I critici ne hanno sottolineato le dimensioni sproporzionate e l’incongruenza con il paesaggio urbano storico di Mosca, descrivendolo come imponente e fuori luogo. Tsereteli negli anni Novanta aveva stretto una personale amicizia con il controverso Yurij Luzhkov, controverso sindaco di Mosca (la cui moglie, in anni successivi, avrebbe pagato Biden), dove partecipò al progetto di ricostruzione della Cattedrale di Cristo Salvatore, della Piazza del Maneggio e dello Zoo.  

A livello internazionale, lo Tsereteli è noto per «Il Bene Sconfigge il Male», una scultura in bronzo installata presso la sede delle Nazioni Unite a Nuova York. L’opera raffigura San Giorgio che uccide un drago realizzato con frammenti di missili nucleari sovietici e americani smantellati, a simboleggiare la fine della Guerra Fredda e la vittoria sullo spettro dell’Armageddone nucleare.

 

Immagine Cancillería Ecuador via Wikimedia CC BY-SA 2.0

  Un’altra opera degna di nota è la «Lacrima del Dolore» (nota anche come «Alla Lotta contro il Terrorismo Mondiale»), un monumento di 10 piani a Bayonne, nel New Jersey, dedicato alle vittime degli attacchi dell’11 settembre. La scultura raffigura una grande lacrima in acciaio inossidabile sospesa all’interno di una torre incrinata. Fu donata dalla Russia e inaugurata nel 2006.  

Immagine via Wikimedia CC0

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Nel corso della sua lunga carriera, Tsereteli ha creato più di 5.000 opere d’arte che spaziavano dall’architettura alla pittura e agli affreschi. Ha ricevuto numerose onorificenze, tra cui il titolo di Artista del Popolo dell’URSS e la Legion d’Onore francese.   La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha espresso le sue condoglianze, descrivendo Tsereteli come «un artista di fama internazionale e una vera figura pubblica che non ha conosciuto confini o barriere nella causa della pace e della creatività (…) Era un vero diplomatico del popolo. Vivrà non solo nei nostri cuori, ma anche nelle sue opere: nelle vetrate e negli smalti che decorano le ambasciate, nei monumenti e nelle sculture collocati in tutto il mondo, nei fiori e nei bouquet rigogliosi che dipingeva con tanta passione. Sapeva amare e donare amore».  
  Il maestro negli anni sessanta soggiornò a Parigi dove conobbe Picasso e Chagall. Disegnò in seguito la riviera sovietica sul Mar Nero in Abcasia: le città di Pitsunda e Adler sono ancora ornate delle sue bizzarre fermate degli autobus. Continuò quindi il lavoro con varie cittadine delle repubbliche sovietiche, progettando poi anche ambasciate e consolati dell’URSS in Brasile, in Portogallo e in Giappone.   Nel 1980, lo Tsereteli fu nominato capo designer dei XXII Giochi Olimpici di Mosca. Nello stesso anno realizzò l’opera Inno all’uomo, posizionata in cima alla sala concerti e cinema dell’Hotel Izmailovo, costruito per le Olimpiadi, e ricevette l’Ordine dell’Amicizia tra i Popoli. Nel 1981 fu nominato professore presso la sua alma mater, l’Accademia di Tbilisi.   Nel 2005, la Russia donò a Israele l’opera Olocausto di Cereteli, installata a Gerusalemme. Tra le sue opere più significative figurano la statua di Nikolaj Gogol’ a Villa Borghese (2002), quella di Honoré de Balzac ad Agde (2003), di Marina Cvetaeva a Saint-Gilles-Croix-de-Vie (2012), il monumento ai Padri fondatori dell’Unione Europea in Lorena (2012) e il monumento a papa Giovanni Paolo II (2014) vicino alla Basilica di Notre-Dame.

Immagine di Emilia Orlandi via Wikimedia CC BY-SA 3.0

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Una statua di San Nicola Taumaturgo è sita a Bari, in piazza San Nicola.     Notevole anche la sua statua del presidente Vladimir Putin a Mosca.  

Immagine United Nations via Flickr CC BY-NC-ND 2.0

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Immagine di United Nations via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0  
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Ecco il ritratto che Putin ha regalato a Trump

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Un mese fa, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ricevuto, tramite il suo inviato a Mosca Steve Witkoff, un dono dal presidente Vladimir Putin, un ritratto di Trump che fino a poco fa non era mai stato visto dal pubblico.

 

Witkoff ha affermato che Trump ne è rimasto «chiaramente colpito». Il dipinto cattura il momento successivo all’attentato di Butler, in Pennsylvania, avvenuto nel luglio 2024, quando Trump alzò il pugno in segno di sfida.

 

La CNN ora mostra il ritratto, insieme a un’intervista con l’artista.

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L’artista, Nikas Safronov, ha dichiarato alla CNN: «per me era importante mostrare il sangue, la cicatrice e il suo coraggio durante l’attentato. Non si è abbattuto né ha avuto paura, ma ha alzato il braccio per dimostrare di essere tutt’uno con l’America e che le restituirà ciò che merita».

 

Safronov ha realizzato ritratti di decine di leader mondiali, tra cui il defunto papa Francesco, il primo ministro indiano Narendra Modi e il leader nordcoreano Kim Jong Un. Ha affermato di non sapere inizialmente per conto di chi fosse stato commissionato il dipinto, ma sospettava che fosse il Cremlino.

 

«Quando ho iniziato a realizzare il ritratto, ho capito che avrebbe potuto avvicinare i nostri Paesi e ho deciso di non chiedere alcun compenso perché sospettavo a cosa servisse questo dipinto».

 

 

Alla fine, Putin ha contattato Safronov per comunicargli che il ritratto rappresentava un passo importante per migliorare le relazioni tra Russia e Stati Uniti.

 

Alcuni possono non apprezzare lo stile semplice del quadro. A costoro diciamo di tenersi il ritratto ufficiale di Re Carlo, uno dei quadri più allucinanti veduti mai, realizzato da un artista controverso.

 

 

Si tengano pure i ritratti della regina d’Olanda di Andy Warhol, negli scorsi giorni finiti, con un grande gesto simbolico involontario, nella spazzatura.

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