Pensiero
Mani pulite oscure. La realtà di Tangentopoli, dopo 30 anni, viene sempre più a galla
Abbiamo grande rispetto per Rino Formica, l’ex ministro socialista noto per le sue espressioni sintetiche («la politica è sangue e merda»; «partito di nani e ballerine»; «il monastero è povero, i frati ricchi») ma ancor più, a noi, per la sua lucidità di pensiero riguardo la cosa politica.
Come sa il lettore, Renovatio 21 ha sposato più volte le analisi fornite dal Formica, in particolare quella riguardo l’emergere dello «Stato-partito», la fusione tra partiti più o meno maggioritari (in particolare, progressisti) con spezzoni permanenti dello Stato (caste amministrative, grandi enti, servizi di sicurezza, servizi segreti, etc.), con conseguente formazione di una palude inscalfibile che riesce ad inghiottire con facilità, come si è visto con Conte e i grillini, qualsiasi sedicente forma di opposizione al sistema.
Ciò è osservabile, a nostro giudizio, in ogni Paese occidentale, quasi si trattasse di un’evoluzione naturale della democrazia, passata da essere espressione di difesa del popolo a macchina per la preservazione di una determinata struttura – anche contro il volere, o l’esistenza stessa, del popolo.
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Formica gode di quella caratteristica principale che si assegnava a quasi tutti i craxiani all’epoca: l’intelligenza. Ora a 97 anni, e racconta di essere divenuto cieco. Lo era anche un personaggio mitico della Grecia, che non è lontana dalla sua Puglia: Tiresia, il veggente, «il cieco indovino, di cui sono saldi i precordi: / a lui solo Persefone diede anche da morto, / la facoltà d’esser savio; gli altri sono ombre vaganti» (Odissea, X).
Domenica scorsa l’ex ministro-Tiresia ha concesso un’intervista ad Aldo Cazzullo, quello con la erre liquida che fa gli incontri speciali (Totti, Bergoglio, Fedez) per il Corriere.
La conversazione è lunga e densissima, uno spettacolo di giornalismo e di chiarezza di pensiero storico-politico, anche nelle parti (come l’europeismo dogmatico e forsennato) nelle quali mai potremmo concordare.
Merita una riflessione il suo severo giudizio sul premier Giorgia Meloni: «fortunata, vista la collezione di errori dei suoi contendenti, in particolare quelli della sua area. E furba. Più furba che intelligente. Ma la furbizia in politica dura poco. Molto poco». Quindi per Formica la Meloni «è debolissima. Perché incontrare un politico più intelligente o più colto di te è difficile; ma incontrarne uno più furbo è molto facile».
Tuttavia, è parlando di quel periodo opaco che oltre trenta anni fa distrusse il suo partito, il PSI, che Formica racconta le cose più interessanti.
All’intervistatore, che gli chiede conto di una sua antica dichiarazione, quando, allo scoppiare di Mani Pulite, egli disse che Craxi aveva in mano «un poker d’assi», Formica risponde che si riferiva «alle informazioni che i servizi e la polizia avevano fornito ad Amato, che era presidente del Consiglio».
«Quali informazioni? E come le avevano raccolte?» chiede il Cazzullo.
«Erano segnalazioni sul traffico telefonico dei componenti del pool» risponde con precisione Formica.
«I servizi spiavano i magistrati di Mani Pulite?» incalza l’intervistatore del Corriere.
«I servizi hanno come compito controllare tutto quello che avviene attorno al potere. Anche Mussolini era intercettato, i servizi ascoltavano le sue conversazioni con la Petacci. Certo, il confine tra la tutela delle istituzioni e l’intrigo è sottile. Dipende dall’uso che se ne fa».
«E cosa avevano scoperto i servizi?»
«Che un po’ tutti i magistrati del pool non erano stinchi di santo. Non solo Di Pietro. Ognuno aveva il suo corrispondente esterno: politico, religioso, internazionale. E ognuno aveva la sua ambizione: chi voleva fare il presidente del Consiglio, chi il presidente della Repubblica…».
«Chi voleva fare il presidente della Repubblica?»
«Ovviamente, il capo del pool».
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La rivelazione è enorme. E infatti Cazzullo cerca subito di defilarsi: «Borrelli? Non credo proprio».
«Quando un magistrato appare in tv e dà ordini al Parlamento, già agisce come un aspirante capo di Stato» dice Formica.
Quindi, chi ipotizzava che in Italia covasse un «golpe giudiziario», ossia un rovesciamento dei poteri in cui i giudici – che non solo eletti, sono parti dello Stato – ai danni dei politici – che sono eletti nei partiti – aveva ragione?
Formica non conclude il ragionamento, ma lo facciamo noi, seguendo proprio le sue definizioni: Tangentopoli è stata la prova generale dello Stato-partito, ora installato in Italia e ovunque (in Germania, in USA) come forma principale dello Stato moderno.
Realizzato questo pensiero storico e filosofico-politico, possiamo soffermarci un secondo a quell’altra cosa che butta lì il Tiresia vetero-craxiano, i «corrispondenti esterni» di tipo «politico, religioso, internazionale».
Possiamo immaginare a quale partito si riferisca quando parla dei referenti politici, del resto almeno un membro del pool si sarebbe poi candidato, venendo eletto, con un determinato partito, per poi crearne un altro nella pratica dei partiti biodegradabili utilizzati come alleati acchiappavoti dallo stesso grande partito, fino a scadenza naturale del prodotto.
Non abbiamo idea, lo ammettiamo, a cosa Formica si riferisca quando parla di «corrispondenti religiosi», anche perché ricordiamo le storie su certi cardinali «farmaceutici» che durante la Prima Repubblica prosperavano, e i cui referenti ingobbiti sarebbero stati colpiti dalla magistratura in round ulteriori con accuse spettacolari.
Tuttavia, avremmo voglia di sapere di più riguardo ai «corrispondenti internazionali» dei giudici di cui parla Formica. Ci sono tante voci, tutte più o meno sussurrate, che si sono succedute negli anni.
Nel 2010 sempre il milanese Corriere della Sera, pubblicò in prima pagine le foto di una intensa cena di Natale 1992, consumata in una data qualsiasi: era il 15 dicembre, proprio quella mattina partì l’avviso di garanzia per Bettino Craxi: Tangentopoli nella sua massima espressione.
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In questa foto pubblicata improvvisamente 18 anni dopo dal giornalone meneghino, si vede Antonio Di Pietro che pasteggia amabilmente con Bruno Contrada, allora capo del SISDE, che verrà arrestato una settimana dopo. Accanto, un dipendente della Kroll, che scatena le fantasie di giornalisti e lettori.
Il quotidiano di via Solferino non fu parco di allusioni: «la Kroll, la più grande organizzazione di investigazione d’affari del mondo fondata nel ’72 da Jules Kroll, tremila dipendenti fissi, una quantità di collaboratori, corsia preferenziale per chi arriva da CIA e altri servizi, Mossad compreso, uffici in 60 città di 35 Paesi, stando anche a una inchiesta pubblicata dal New Yorker il 19 ottobre scorso».
Di Pietro negò tutto furiosamente: «Io non ho mai venduto Mani pulite». «La Kroll? Mai avuto a che fare, nemmeno con la CIA. E chi accidenti è l’americano?»
«Si vuol fare credere, attraverso un dossier di 12 foto mie con Mori, Contrada e funzionari dei servizi segreti, che io sia o sia stato al soldo dei servizi segreti deviati e della CIA per abbattere la Prima Repubblica perché così volevano gli americani e la mafia» dice di Pietro, ma il Corriere dice che coinvolgere Mori è un errore, perché estraneo alla cena.
«Soltanto menti malate possono pensare che ho fatto quel che ho fatto per una spy story e non come umile manovale dello Stato, che quando faceva il muro cercava di farlo dritto».
Il teorema, per chi non lo conoscesse, riguarda l’Achille Lauro (la nave da crociera dirottata dove un anziano ebreo fu orrendamente scaraventato in mare dai dirottatori) e la crisi di Sigonella con i carabinieri, che su ordine di Craxi, circondano l’esercito americano che circonda l’aereo con i terroristi palestinesi – Israele, Palestina, USA, tutte cose di assoluta attualità pure in questo momento.
Gli americani, e forse non solo loro, avrebbero promesso vendetta nei confronti di Craxi e del suo atto di insubordinazione – cioè di sovranismo politico. L’uomo non obbediva più, dando adito alla rabbia che servizi e dipartimento di Stato USA avevano sempre avuto nei confronti di questo abile, elegante leader della «portaerei inaffondabile» (questo è l’Italia per il pensiero strategico angloamericano) che, pur antisovietico, non poteva dirsi filoamericano: diceva che non voleva vedere i cosacchi di Stalin abbeverarsi alle fontane del Vaticano, ma nemmeno che da queste sgorgasse la Coca-Cola.
Fu Craxi ad avviare, a livello internazionale, la normalizzazione dei rapporti con l’OLP di Arafat, che in un discorso al Parlamento italiano, per negare l’etichetta di «terrorista», paragonò a Garibaldi (discorso che troviamo doppiamente, triplamente discutibile, ma va andiamo oltre).
Possiamo immaginare quanto di questo fosse felice Israele. Come pure di certi discorsi di Formica sulla strage di Bologna e il ruolo mediterraneo dell’Italia.
È a questo punto che si può venire inghiottiti dal gorgo. Decenni di notizie strambe che si accavallano nella testa, poi smentite, sparite, ridicolizzate – o rimaste lì pronte ad essere dimenticate da tutti. Suscitò reazioni quando, sulla base di dichiarazioni del figlio di un politico mafioso siculo, si desse che il cosiddetto «Signor Franco», ossia il «pontiere tra Stato e mafia» sarebbe stato in realtà un console israeliano.
Sul lato oscuro di Tangentopoli scrisse, da subito e per i decenni seguenti, un ragazzo lombardo che, da lavoratore poco più che maggiorenne, riceveva le telefonate di Craxi, uomo lungimirante che evidentemente in lui aveva visto qualcosa, e di fatto è da ritenersi una delle maggiori penne rimaste al giornalismo nazionale: Filippo Facci.
Facci si è buttato anima e corpo nella questione di Mani Pulite, analizzando, perfino nei gusti musicali (Borrelli era uno studioso di Wagner, un habitué della Scala) i membri del pool, e raccontando una quantità di retroscena susseguitisi negli anni, anche personali, da restare senza fiato.
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A ridosso della strana pubblicazione delle foto di Di Pietro a cena, Facci scrisse di altre storie che scuotono le percezioni che il lettore può avere del magistrato divenuto parlamentare, capo-partito, ministro. In un articolo del quotidiano Libero ancora leggibile su Dagospia, parla di un viaggio di lavoro, su incarico dei vertici, che il giudice nel 1984 avrebbe fatto verso le Seychelles, all’epoca «un regime comunista appoggiato dal Cremlino», dove si era nascosto il faccendiere Francesco Pazienza, inquisito anche per il crack Ambrosiano.
Da qui parte un racconto con spie nordcoreane e sovietiche che «proposero tranquillamente di far fuori l’intruso spingendo la sua auto giù da una scarpata, ritenendolo appunto un agente della CIA del SISMI (…) Pazienza mantenne fede al suo cognome e prese tempo. Andò all’hotel San Souci, dove dimorava quello strano italiano al mare, e ne spiò le generalità: era tal Di Pietro Antonio, magistrato alla Procura di Bergamo».
Nel racconto di Facci, che dice di attingere da «atti giudiziari nonché dal racconto di Francesco Pazienza e da un libro del medesimo pubblicato da Longanesi nel 1999, Il disubbidiente», in effetti, la spy-story parrebbe esservi.
Ci stropicciamo gli occhi: ma è veramente il Di Pietro che vedevamo sui giornali, anche patinati? Il tribuno molisano a cui si chiedeva, consciamente o meno, il primo vero reset della Repubblica Italiana?
Che cosa non ci hanno raccontato, di Tangentopoli? Il socialista, arrivato a quasi cento anni, ha voglia di parlarne. Invece io adesso, in verità, voglio tirare il freno.
Capitemi: a questo punto, quella di Tangentopoli può diventare una tarantola, una cosa che ti morde e poi balli per sempre. Tanti i misteri, tanto il bisogno di verità, tanta la sete di giustizia, che fai la fine di quelli che si addentrano un attimo nella questione del Mostro di Firenze, o di tanti altri assassini seriali magari pure ufficialmente «risolti», e poi non ne escono più, pensano, parlano, scrivono solo di quello.
È il motivo per il quale ci fermiamo qua. Formica sì, tarantola no.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Amodiovalerio Verde via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
Pensiero
Verso il liberalismo omotransumanista. Tucker Carlson intervista Dugin
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Carlson chiede a Dugin cosa sta succedendo nei paesi di lingua inglese: «gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna, la Nuova Zelanda, l’Australia hanno deciso all’improvviso di rivoltarsi contro se stessi con questo grande tumulto. E alcuni comportamenti sembrano molto autodistruttivi. Da dove pensa, come osservatore, che provenga questo?» «Credo che tutto sia iniziato con l’individualismo» risponde Dugin. «L’individualismo era una comprensione sbagliata della natura umana, della natura dell’uomo. Quando si identifica l’individualismo con l’uomo, con la natura umana, si tagliano tutti i suoi rapporti con tutto il resto. Quindi si ha un’idea molto particolare del soggetto, del soggetto filosofico come individuo». Qui Dugin offre una visione in linea con quella del tradizionalismo cattolico: «tutto è iniziato nel mondo anglosassone con la riforma protestante e prima ancora con il nominalismo: l’atteggiamento nominalista secondo cui non esistono idee, ma solo cose, solo cose individuali» spiega il filosofo. «Quindi l’individuo, era la chiave ed è tuttora il concetto chiave che è stato posto al centro di un’ideologia liberale e del liberalismo poiché, nella mia lettura, è una sorta di processo storico e culturale, politico e filosofico di liberazione, dell’individuo, di qualsiasi tipo di identità collettiva, collettiva o che trascenda quella individuale». «Tutto è iniziato con il rifiuto della Chiesa cattolica come identità collettiva, dell’impero, dell’impero occidentale come identità collettiva. Successivamente si è trattato di una rivolta contro uno Stato nazionalista come identità collettiva a favore di una società puramente civile. Dopo quella guerra, nel XX secolo ci fu la grande battaglia tra liberalismo, comunismo e fascismo. E il liberalismo ha vinto ancora una volta. E dopo la caduta dell’Unione Sovietica è rimasto solo il liberalismo».Ep. 99 Aleksandr Dugin is the most famous political philosopher in Russia. His ideas are considered so dangerous, the Ukrainian government murdered his daughter and Amazon won’t sell his books. We talked to him in Moscow. pic.twitter.com/4LrO0Ufg9P
— Tucker Carlson (@TuckerCarlson) April 29, 2024
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Pensiero
Vi augurano buona festa del lavoro, ma ve lo vogliono togliere. Ed eliminare voi e la vostra discendenza
Buona festa dei lavoratori! Ve lo ripetono da tutte le parti, del resto è una festa importantissima per la Repubblica: il Venerdì Santo, il giorno in cui Dio muore per l’umanità secondo quella che in teoria è la religione maggioritaria del Paese, si lavora. Il giorno dei morti, pure. Il Primo maggio, invece, no: vacanza.
Questo basterebbe a far comprendere qual è la vera religione che lo Stato italico vuole imporre alla sua popolazione – del resto, il suo libro sacro, la Costituzione, scrive al suo primo articolo che la Repubblica stessa è fondata sul lavoro – espressione incomprensibile, se non comprendendo la smania sovietica che avevano i comunisti e la sciocca acquiescenza dei democristiani che glielo hanno lasciato scrivere, accettando pure di lasciare fuori dalla Carta la parola «Dio».
Il dio della Costituzione, il dio della Repubblica è il lavoro?
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La divinizzazione politica di un concetto astratto, di un’attività umana, non solo l’indice della volontà di laicizzazione dello Stato. Poggia, essenzialmente, nel rigetto di avere per la cosa pubblica il fondamento del Cristianesimo.
Non è un caso che la festa del dio-lavoro avvenga l’indomani della notte di Valpurga, ritenuta nei secoli un momento di vertice dell’ attività del male sulla Terra – in genere, su Renovatio 21, facciamo ogni anno un articolo sull’argomento, annotando gli eventi concomitanti. La realtà è che la festa del Primo maggio è un tentativo di inculturazione, o meglio, di reintroduzione di usanze pagane – in particolare la festa celtica chiamata Beltane, di cui parla anche J.G. Frazer nel suo studio su magia e religione dell’antichità europea Il ramo d’oro.
La prima menzione di Beltane è nella letteratura irlandese antica dell’Irlanda gaelica. Secondo i testi altomedievali Sanas Cormaic (scritto da Cormac mac Cuilennáin) e Tochmarc Emire, Beltane si teneva il 1° maggio e segnava l’inizio dell’estate. I testi dicono che, per proteggere il bestiame dalle malattie, i druidi accendevano due fuochi «con grandi incantesimi» e guidavano il bestiame in mezzo a loro.
La vulgata progressista del Primo maggio, nata nel secondo Ottocento, si attacca quindi a questo sostrato antico, non cristiano, alla guisa di come ha fatto la Chiesa con alcune festività nel corso dell’anno.
Quindi: un nuovo dio, una nuova religione. Ma il problema è che neanche i suoi stessi sacerdoti ci credono. I loro discorsi – i loro incantesimi – sono inganni, sempre più infami, sempre più ridicoli.
Abbiamo sentito ieri il segretario generale CGIL Maurizio Landini dichiarare che «il governo Meloni difende il fossile e nega il cambiamento climatico, come si può pensare di cambiare modello di produzione?». Lo ha detto ad un evento dell’«Alleanza Clima Lavoro», di cui apprendiamo l’esistenza. Stendiamo un velo pietoso sull’attacco ai combustibili fossili, che fossili non sono (no, il petrolio non è succo di dinosauro!), che dimostra un allineamento con i gruppi ecofascisti più estremi e grotteschi visti negli ultimi anni – e pagati da chi, possiamo intuirlo.
Quindi: prima il «clima», poi i lavoratori. L’intero sistema industriale va cambiato per favorire l’ambiente, non l’uomo che lavora: conosciamo questa solfa, ora condita automaticamente dal terrorismo climatico. Si tratta di un’idea che avanza da tanto tempo, e si chiama deindustrializzazione.
Come abbiamo ripetuto tante volte su questo sito, la deindustrializzazione altro non è che deumanizzazione. Cioè, riduzione non dei lavoratori, ma della quantità stessa di esseri umani che camminano sul pianeta. Ciò era chiaramente esposto nelle opere di Aurelio Peccei e compagni oligarchi, quando l’élite – la stessa che stava dietro al Club di Roma, Club Bilderberg, WWF, etc. – cominciò a lavorare decisamente alla riduzione della popolazione.
Non è possibile diminuire il numero di esseri umani sul pianeta se si continua a produrre. Perché l’industria – il lavoro – dà cibo, e il cibo dà la vita, e la vita si moltiplica. La filiera dell’essere deve essere interrotta, molto prima. Niente industria, niente lavoro, niente vita. Niente persone. Niente umanità. Ora potete capire da dove vengono la povertà e la fame, che sembrano di ritorno anche nel Primo Mondo.
In alcuni testi risalenti a più di mezzo secolo fa, la cosa era messa nera su bianco: avrebbero creato deliberatamente un concetto prima sconosciuto, quello di inquinamento, per avere uno strumento di controllo del comportamento di popoli e Nazioni. Se ci pensate, anche questa è una scopiazzatura del cattolicesimo: non il peccato, ma l’impronta carbonica. Non il peccato originale, ma l’essere umano in sé, alla cui nascita c’è già un debito ecologico personale importante. Non la Santa Trinità, non l’Incarnazione, ma Gaia, dea terrifica che si fa pianeta.
Non ci sorprende, ma nondimeno continua a riempirci di orrore, vedere che chi è pagato per difendere i lavoratori è in realtà alleato delle forze che ne vogliono l’eliminazione. Lo aveva capito, con decenni di anticipo, il filosofo marxista Gianni Collu, che nel libro Apocalisse e rivoluzione notava che il paradigma non era più quello rivoluzionario della crescita operaia, cioè industriale, ma quello di una contrazione dell’intera società produttiva.
In pratica, Collu aveva compreso che stava venendo innestato, specie presso partiti, sindacati, intellettuali di sinistra, l’odio per l’uomo – in una parola, era stata avviata la Necrocultura. Non per niente il filosofo cominciò a scoprire, e rivelare, l’interesse crescente che molti circoli goscisti cominciavano a sentire verso un tema divenuto tabù nei millenni cristiani, cioè il sacrificio umano.
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Ora, guardate celebrare il vostro lavoro da chi è inserito, con stipendio, nel disegno per togliervelo – ed eliminare la vostra esistenza e la vostra discendenza. Non dobbiamo ricordare qui gli sforzi, fatti anche in sede europea, che i sindacati hanno fatto per il feticidio.
Nessuno dei vostri lavori è al riparo dal disegno mortale che avanza: se vi hanno detto che imparando a programmare avreste avuto sempre lavoro, provatelo a ripetere alle migliaia di licenziati alla IBM, come in tantissimi altri colossi tecnologici, sostituiti dall’Intelligenza Artificiale.
Nessuno è al sicuro: i grafici, cosa pensano di fare davanti alla presenza di incredibili programmi text-to-image, dove digiti cosa vuoi vedere e ti viene servito in un’immagine perfetta?
Attori, registi, produttori cinetelevisivi, cosa potranno di fronte ai software come Sora di ChatGPT, che promette di generare sequenze video a partire da semplici richieste? Sappiamo che l’ultimo sciopero ad Hollywood verteva su questo, e che già operano società di computer grafica talmente ultrarealista da aver disintermediato regioni immense della filiera.
Domani, cioè già oggi, tocca agli insegnanti. Ai bancari. Ai lavoratori dei fast food. A qualsiasi lavoratore. Alla realtà stessa.
Tuttavia, notatelo, nessun sindacato parla di fermare l’Intelligenza Artificiale. Vi parlano di cambiamento climatico, combustibili fossili, etc.
Lo fanno dopo aver assistito all’assassinio, con il green pass e l’obbligo al vaccino genico, dell’articolo 1 del loro libro sacro, il dogma primigenio della loro religione: ve lo abbiamo detto, non ci credono nemmeno loro.
E quindi, se anche quest’anno un boss sindacale, dinanzi al milione di ebeti ammassati per il concertone del Primo maggio, dovesse d’improvviso farsi scappare di nuovo l’espressione «Nuovo Ordine Mondiale», beh, sappiamo bene di cosa si tratta.
Non c’entrano le ricorrenze druidiche primaverili, qui siamo altrove nel calendario, in un’altra festa importante: sotto sotto, negli auguri ai bravi lavoratori, vi stanno dicendo che arriva il Natale. E che voi siete i tacchini.
Buon lavoro.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo
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