Arte
William Friedkin, le crudeltà omosessuali e la paura che i vescovi hanno di Satana

È morto William Friedkin, regista che sarà rammentato dai posteri per L’esorcista (1973). Noi, tuttavia, non vogliamo ricordarlo per quello – o meglio, non solo per quello.
Chiariamoci: L’esorcista è un capolavoro, o forse perfino qualcosa di più: un’opera che è riuscita a captare e risvegliare nella società significati indicibili, altissimi, e che è riuscita a parlare alle generazioni. Mi viene in mente che ne vidi una versione restaurata forse nel tardo 1999 al cinema Excelsior – un’enorme sala a più piani che stava in un antico palazzo nobiliare in Galleria del Corso a Milano, ora sostituita da un centro commerciale che vende macarons, profumini e vestiario per fashion victim e turisti.
Il cinema era strapieno, e, paradosso, il film davvero terrificante: vederlo proiettato su grande schermo dava una sensazione totalmente differente rispetto al vederlo in VHS (all’epoca c’erano quelle: le videocassette con i nastri magnetici). Non so dire se facesse più paura o meno, ma la condivisione collettiva della visione portava l’esperienza da un’altra parte: era un rito, forse un vero esorcismo, fatto alla pluralità degli esseri umani, alla società, in qualche modo unita ancora dalla paura del preternaturale e dalla promessa della sua liberazione.
I subliminali con il volto del dominio, le apparizioni dell’effigie del demone Pazuzu, perfino il ralenti dei cani che combattono nel deserto iracheno, assumevano quella sera con la sala piena un significato ulteriore…
Con me c’era Michela, che de L’esorcista era una patita sfegatata, tanto che rivendicava il fatto di aver visto il film appena uscito in sala… dal ventre di sua madre (credo che mi abbia detto davvero una cosa così: è nata quell’anno). Il culto totale di Michela per il film mi lasciava in prima battuta perplesso: cattolica non lo era (no, e non lo ero neanche io), non so fino a che punto credesse alle storie di possessione, forse era una fan dell’horror, ma limitatamente. Per il capolavoro di Friedkin, andava fuori di testa: sapeva, e ripeteva le battute del demonio e degli esorcisti a memoria, come quella sulle attività della madre di Padre Carras all’inferno (che qui non ripeterò) o l’espressione «volgare esibizione di potenza» (in originale, «vulgar display of power»), che divenne il titolo di un fortunato album di una band metal americana, i Pantera – forse non portò tutta quella fortuna, però, visto che una sera un tizio salì sul palco armato e sparò loro uccidendo il chitarrista.
No, subito non capivo perché gli piacesse così tanto il film. Ne parlava in continuazione, chiamandolo famigliarmente L’esorciccio, come la parodia con Ciccio Ingrassia e Lino Banfi (che, a leggere la trama, tra bambini stupratori e talismani sotterrati nei campi – ricorda qualcosa al lettore di Renovatio 21? – può fare anche più paura dell’originale).
Poi, piano piano, compresi che quello che la catturava era qualcosa di spirituale ed estetico al contempo: era la perfezione che quella pellicola indubbiamente aveva nel raccontare il mistero, nel mostrare un abisso che sta accanto a noi, un livello ulteriore dell’esistenza dipinto in modo impareggiabile.
Io non posso che condividere. E come me, ci sono milioni di persone, di tutte le classi socioeconomiche e socioculturali e sociopolitiche, che vi hanno visto dentro un significato profondissimo, e tutto personale.
Un regista para-sessuale ora celeberrimo a livello internazionale (noto perché i suoi film, per usare le sue parole e la sua zeppola «fzpingono zul pedaleh della fprofvocaziòneh»), mi disse, oramai un quarto di secolo fa, che il suono del demonio era ottenuto girando al contrario l’audio dello sgozzamento di un maiale. Non so verificare se ciò sia vero, tuttavia il tono indicava non solo quanto voleva esibire le sue conoscenze cinefile («volgare esibizione di potenza», appunto), ma anche quanto, alla fine, prendesse sul serio il film, ne riconoscesse la portata misterica.
«L’esorcista è un film realista» mi disse un decennio dopo un ragazzo cattolico carismatico – nel senso cattolico di stile pentecostale, zona Medjugorje. Mentre meditavo sul concetto di un neorealismo cinematografico soprannaturale, lui raddoppiava: «anzi no, è un film che dei posseduti dà un’immagine anche troppo contenuta».
Sulla questione dell’Esorcista e delle vere possessioni diaboliche torneremo più sotto. Prima vorremo far presente qualcosa che probabilmente nessun’altra testata ricorderà nei coccodrilli su Friedkin: la sua disamina, lucida e compiuta anzitempo, del lato interiore del mondo omosessuale.
Prima del grande successo, il regista di Chicago aveva girato un piccolo film d’interni, un kammerspiel in terrazza, se si può dire, chiamato Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970), tratto da una commedia teatrale del drammaturgo gay Mart Crowley.
Il film racconta della festa che Michael, un gay, organizza per celebrare il compleanno del suo amico Harold. L’evento ospita vari membri dell’alta società intellettuale omosessuale di New York. Inaspettatamente, tuttavia, alla festa si presenta Alan, un suo vecchio compagno di università e unico partecipante eterosessuale alla festa.
La presenza di Alan provoca un cambiamento nell’atmosfera della festa, trasformandola in una sorta di sessione di analisi collettiva. Questo fa emergere sentimenti tossici e risentimenti tra i presenti, portando il gruppo a un drammatico e distruttivo gioco di rivelazioni reciproche. Alla fine del processo, ognuno scopre di essere più solo di quanto pensasse – definitivamente non gaio.
Non sappiamo se la mitica scena dello «schiantatope» nel film dei fratelli Vanzina Vacanze in America (1984) sia ispirata all’opera di Friedkin – una scena che lo stesso attore scaligero Jerry Calà ora ritiene sarebbe impossibile da girare, in quanto potenzialmente da ritenere omofoba.
Tuttavia sappiamo, per testimonianze, che il gioco delle crudeltà all’interno di un festino gay non sia qualcosa di lontano dalla realtà. Si tratta, anzi, di qualcosa comunemente accettato sotto l’etichetta dell’«acidità» di questo o di quel personaggio, di cui Friedkin nel film dà varie declinazioni: nella festicciola del film, come in quelle della realtà, c’è il gay cattolico, il gay effeminato, il gay arredatore di interni, la coppia gay con qualche difficoltà a mantenere la monogamia.
Bisogna riconoscere che a 53 anni dall’uscita della pellicola e a centinaia se non migliaia di film omosessuali usciti (scritti, diretti, prodotti, consumati da omosessuali) questo tema praticamente è stato toccato – et pour cause, visto che il senso di sconforto che comunica tende a negare la parola stessa gay.
Il film all’epoca non fu ricevuto male dalla critica, ma è accusato ancora oggi dalla comunità LGBT di ritrarre l’omosessualità con tinte pessimistiche inaccettabili.
In pratica, vedere oggi Festa per il compleanno del caro amico Harold, dopo milioni di ore di omopropaganda da Philadelphia ad ogni singola serie Netflix, potrebbe essere perfino un’esperienza liberatrice, un atto rivoluzionario. Del tipo: «ma tu lo sapevi che anche i gay sono tristi?».
Per qualche motivo, Friedkin (che ricordiamo ebbe in moglie, ad un certo punto, Jeanne Moreau) tornò a fare film controversi sui gay – pure utilizzando uno dei più grandi artisti della storia della celluloide, Alfredo James Pacino detto Al.
Cruising (1980), venne dopo l’immenso successo de L’esorcista, e quindi si può considerare un film che il cineasta davvero avesse in cuore di fare. Il film parla degli sforzi di un poliziotto, interpretato da Pacino, per infiltrarsi nel mondo dei gay nuovaiorchesi, dove stava operando uno spietato serial killer. La pellicola ha alla base un romanzo omonimo scritto da Gerald Walker, un giornalista del New York Times, che riprendeva a sua volta un insieme di articoli su una serie di omicidi irrisolti nella scena gay della Grande Mela – in pratica, siamo dalle parti di «ispirato ad una storia vera».
La parola cruising ha un doppio senso: in inglese indica sua la pattuglia compiuta dai poliziotti, che l’atto tipico del mondo omosessuale di circolare per una località in cerca di un partner sessuale casuale magari del tutto anonimo.
Nella pellicola c’è abbondanza di scene con uomini che ballano con costumi di cuoio, e Pacino che fa le mossette, anche se interiormente è divorato dall’ossessione di trovare l’assassino seriale e, lo capiamo grazie alla grandissima arte dall’attore neoeboraceno, dalla paura che gli incutono quei territori ignoti.
Quando uscì il film nel 1980 la società era molto cambiata rispetto al 1970 del Compleanno dell’amico Harold: gruppi dei «diritti gay» reagirono con proteste che erano iniziate perfino durante le riprese nel 1979. I gay furono esortati a interrompere le riprese e le aziende di proprietà di persone gay avrebbero dovuto impedire ai lavoratori del film di accedere ai loro locali.
Manifestanti omosessuali tentarono di interferire con le riprese puntando gli specchi dai tetti per rovinare l’illuminazione delle scene, fischietti e trombe d’aria vicino ai luoghi e suonando musica ad alto volume. Un migliaio di manifestanti marciò attraverso l’East Village chiedendo alla città di ritirare il sostegno al film (bei tempi: oggi, abbiamo visto, marciano dicendo «stiamo venendo a prendere i vostri figli»).
A causa delle continue proteste, l’audio del film fu in gran parte sovrainciso e ridoppiato per rimuovere il rumore causato dai manifestanti fuori campo.
Tuttavia, anche qui, pare chiaro che Friedkin stava toccando un nervo scoperto, un altro tema che oggi potrebbe suonare completamente tabù: il mondo gay può essere spaventoso e oscuro – del resto, è quello delle dark room, e se non sapete cosa siano non inquineremo la vostra mente spiegandovelo.
Chi ha visto il film non può evitare di pensarci quando, magare lungo gli argini dei fiumi o in altri luoghi di potenziale cruising, vengono trovati omosessuali morti.
Friedkin passò dalle cattiverie tra amici omosessuali del Compleanno dell’amico Harold al racconto di atrocità tetre e insondabili, di violenze maligne che vediamo in Cruising. Il pensiero di quel film potrebbe essere riaffiorato quando in Italia scoppiò l’agghiacciante caso di Luca Varani, il ragazzo ventenne torturato e ucciso da due personaggi delle notti gay romane, in quello che il procuratore generale della Cassazione descrisse poi come «un abisso umano» (la vicenda non poteva che ricordare anche il film di Hitchcock Nodo alla gola, a sua volta ispirato ad una storia vera con un omicidio di un 14enne consumatosi nel 1924, che coinvolgeva due ragazzi sulla cui omosessualità si è discusso).
A questo punto diventa chiaro che sì, l’epiteto «regista del Male», per Friedkin può starci. Tuttavia, per capire meglio dobbiamo tornare all’esorcista, o meglio al documentario che ne fu conseguenza 40 anni dopo.
Di fatto, c’è da ritenere che Friedkin, di origine ebraica, non sapesse moltissimo della possessione diabolica. Era guidato, più che altro, da William Peter Blatty, lo scrittore allevato dai gesuiti a Georgetown (realtà dipinta lucidamente nel film) che per scrivere il romanzo da cui trassero la pellicola si era con probabilità a lungo consultato con dei veri esorcisti, per poi riadattare anche qui una storia vera, l’esorcismo di un ragazzino avvenuto, a quanto pare, nel 1949 nella vicina Cottage County, un Maryland.
È difficile, credo, che il regista si stesse rendendo conto anche dell’importanza di piazzare nella storia una accenno di attacco alla tavoletta Ouija, della cui strana storia e dei cui pericoli Renovatio 21 ha scritto varie volte.
Tutte le storie per cui Friedkin sarebbe un iniziato che avrebbe messo nel film roba occulta – come suggeriscono certi blog complottari USA o il regista internazionale con la zeppola di cui sopra – sono in realtà fandonie, proiezioni dovute alla perfezione religiosa del film.
Ho trovato conferma di questo pensiero nell’ultimo documentario di Friedkin, tecnicamente il suo penultimo film (l’ultimo, The Caine Mutiny Court-Martial, sarà proiettato postumo al Festival di Venezia tra qualche giorno). Sto parlando di The Devil and Father Amorth.
A metà anni 2010, Friedkin decise che, pur essendo riconosciuto come un’autorità in fatto di esorcismo a causa del film che aveva diretto, era venuto il momento di vederne uno davvero. Così contattò il decano dell’esorcistato mondiale, l’indimenticato padre Gabriele Amorth (1925-2016), fondatore dell’Associazione internazionale degli esorcisti (AIE), che aveva forse qualcosa come 160.000 esorcismi alle spalle.
Padre Amorth è ben conosciuto in Italia: ospitate nei talk show, interviste, e poi la presenza su Radio Maria, dove la sua trasmissione con telefonate dal pubblico era spesso spiazzante: «prontooooh?» diceva lui, mentre dall’altra parte spesso vi era una voce che si esprimeva con ogni accento regionale italiano possibile, spesso per chiedere preghiere per un parente posseduto, che era talvolta possibile sentire rantolare in sottofondo, come avveniva in altre registrazioni audio di incontri di Amorth che l’emittente mariana mandava in onda.
Amorth era ritenuto come forse il più potente, esperto esorcista del mondo, tuttavia ammetteva che professionalmente era «un bambino» nei confronti del controverso vescovo zambiano Emmanuel Milingo (lo scrivente lo vide in azione, e conferma l’altissimo livello di quello che possiamo definire «talento esorcistico» del monsignore di Lusaka, con scene di possessione che, sulle prime, ad un corpo maschile anche giovane provocano reazioni somatiche non dissimili a quelle di quando ci si immerge nell’acqua fredda).
Friedkin ottenne quindi da Amorth, che era assai generoso mediaticamente, di seguirlo durante il nono esorcismo di una signora di Alatri, conosciuta come «Cristina».
Il film fu presentato all’edizione 2017 della Mostra del Cinema di Venezia. La critica lo demolì come «amatoriale». È vero. Girato con camerelle digitali tenute a braccio, forsanche dallo stesso Friedkin, l’opera è lontana anni luce dall’arte altissima de L’esorcista. Come se, incontrato un esorcista vero, Friedkin avesse perso lo stile, e fosse regredito a una sorta di forma di espressione audiovisiva infantile: il regista, truccato e col capello tinto e pettinato, si fa inquadrare per spiegare la storia, artifizio da ritenersi impossibile per un cineasta di quel livello, mentre la narrazione diventa sempre più ondivaga, mentre mostra esorcismi in grandangolo, dove padre Amorth mostra la stessa indifferenza verso i versi del maligno di cui dicevamo più sopra parlando delle trasmissioni di Radio Maria. Ab assuetis, non fit passio, mi viene da pensare: quando uno è abituato alle manifestazioni del demonio, non è che si spaventa più.
Nel punto che dovrebbe essere il climax della storia, Friedkin confessa di non avere immagini dell’accaduto: una ragazza degli esorcismi dà appuntamento a lui e a un suo assistente in un assolato Paesino dell’entroterra laziale, per poi, a quanto racconta il regista, divenire isterica, e cercare assieme al fidanzato di ricattare gli americani. Tale evento lo sconvolge al punto che ne parla come fosse un degno corollario del viaggio nel preternaturale compiuto una volta entrato in contatto con padre Amorth.
Il quale padre Amorth si vede alla fine del film mentre, entrando con un deambulatore in un ascensore, guarda l’obiettivo e fa marameo. Friedkin, fuori campo, dice che è una delle persone più incredibili mai incontrate. La sensazione di ingenuità, di dilettantismo, di infantilismo assale lo spettatore cattolico che magari oltre a L’esorcista ha visto anche qualche esorcismo vero.
Ad ogni modo, è un’altra scena del documentario che lascia il segno.
È l’intervista all’arcivescovo di Los Angeles Robert Barron, che è un ragazzotto con i pantaloni e il clergyman che lì per lì irradia un’espressione di genuina serenità. Monsignor Barron, parlando in quello che sembra un ambiente del giardino della diocesi con Friedkin, ammette che sì, ci sono cose che non possiamo capire, «c’è una dimensione di questo mondo che è strana e fuori dalla nostra capacità di controllo» e blah blah…
Poi, ad un certo punto, pressato da Friedkin che gli parla di Satana e delle possessioni, l’arcivescovo fa ammissioni sorprendenti.
«Parlando con il diavolo… hey… persone come padre Amorth possono farlo, io non potrei mai osare di farlo, non sono a quel livello spirituale… io penso che sia davvero una cosa pericolosa».
Eh?
Un arcivescovo, un discendente degli apostoli, un seguace diretto, quindi, del sommo esorcista, un alto gerarca di quei cristiani che arrivati a Roma scacciavano i demoni pagando poi la propria fede con il martirio… non si sente di fare quel lavoro?
Sì, abbiamo capito bene. È e lo stesso Friedkin che a quel punto della conversazione lo interrompe, pure puntandogli il dito: «che cosa hai detto?»
«Io non lo farei» risponde l’arcivescovo.
«Cosa non faresti?» chiede ancora Friedkin colpito.
«Parlare con il diavolo» precisa il monsignore.
«Come in un esorcismo?»
«Io penso che non sarei in grado… penso che non vorrei farlo.»
«Perché no?»
«Penso che sia un territorio pericoloso… devi essere davvero, davvero santo». Qui l’arcivescovo usa la parola «holy», che confonde un po’, perché si può tradurre più che altro con «sacro». Ora il prelato ha lo sguardo del cane bastonato, il sorrisotto yankee è sparito.
«È nelle scritture!» esclama Friedkin. «Gesù esorcizzava i demoni!»
«Lo so, lo so. Assolutamente. Ecco perché la Chiesa è attenta e sceglie persone molto sante».
«E tu non lo sei?» domanda il regista.
«Non credo di essere pronto per questo» risponde monsignor Barron cercando di recuperare lo smile. «Io avrei paura».
Rileggete. Lasciate che la cosa affondi nella vostra mente: un vescovo ha paura di Satana. E non lo vorrebbe incontrare, nemmeno per fare il suo lavoro, che è salvare le anime, e curare il suo gregge.
«Quanto più in alto puoi essere rispetto all’essere un vescovo» sbotta il cineasta sconvolto. L’arcivescovo di Los Angeles accenna ad una breve risata.
«Wait a minute… » continua Friedkin gesticolando con le mani, come se cercasse di razionalizzare quanto ha appena sentito. «Non sto scherzando, sono davvero impressionato da quello che hai detto.»
«Devi trovare qualcuno che sia ad un alto livello del team spirituale… è un affare rischioso, entrare in contatto ravvicinato con il diavolo…» cerca di giustificarsi Barron.
«Perché?»
«Perché è il demonio.»
«Ma tu hai il potere di Gesù!». Davanti a simili risposte dell’arcivescovo, l’ebreo Friedkin parla oramai come un fervente cattolico, uno di quei credenti tutti di un pezzo.
«Sì ce l’ho sicuramente… ma la Chiesa vuole qualcuno che sia personalmente santo per usare quel potere, in modo più efficace».
Lì per lì, possiamo solo pensare che sia falso, che l’arcivescovo si stia inventando tutta questa storia del «sacro esorcista» per giustificare la sua paura. Non ci risulta che nell’esorcistato ci sia una selezione effettuata con «santometri» o altre tecnologie cattoliche sconosciute. La santometria esorcistica davvero ci mancava.
L’intervista, nel dolore dello spettatore cattolico, va avanti.
«Quindi credi che sia possibile, per il demone, di entrare dentro di te…?» chiede il regista.
«Sicuramente è possibile» risponde Monsignor Barron, i cui occhi, in primo piano, a questo punto possono trasmettere tutta la paura che pure ammette.
Qui c’è da alzarsi ed applaudire il cineasta fino a spellarsi le mani. Friedkin riesce a dare una testimonianza spirituale del cattolicesimo moderno che è, a dir poco, inarrivabile. E non l’ha fatto con le luci perfette de L’esorcista, ma con questa breve conversazione, filmata male, con un arcivescovo.
Ecco finalmente una scena di vero realismo da Friedkin: non gli spruzzi di vomito verde della posseduta, ma l’ammissione del fatto che un discendente degli Apostoli, oggi, teme il demonio.
Questa è la chiesa postconciliare. Non crede al soprannaturale, figuriamoci al preternaturale. Talvolta non è nemmeno che non ci crede: immersa nei suoi pantaloni casual, semplicemente non ci ha mai pensato. E quando ci pensa, perché ad un certo punto la realtà del Male può arrivare anche loro, ne hanno paura. Scappano, si imboscano, inventano scuse.
Che il Male lo combattano altri. Che questo lavoro lo facciano i professionisti. Noi abbiamo altro da fare. Organizzare eventi, curarci dei migranti…
Se questi sono i generali dell’esercito che dovrebbe difenderci dall’Inferno, se questo è il nostro katechon, siamo finiti.
C’è, tuttavia, montata con arguzia accanto alla solare scena con l’arcivescovo, un’altra intervista. A parlare è un uomo dimesso, vecchio, con un’espressione esausta. Ha i capelli arruffati e rughe immense che gli solcano la fronte, la barba un po’ lunga, la schiena ricurva.
Gli occhi di quest’uomo tuttavia sono incredibili, indimenticabili: in realtà, il suo sguardo spiega l’intera sua figura. Non sappiamo descriverli: sono occhi di un uomo che ha sofferto, ho forse occhi di un uomo che ha visto cose inimmaginabili.
Si tratta di Jeffrey Burton Russell, uno storico del Medioevo europeo noto per il suo lavoro riguardo al demonio nelle varie ere dell’umanità, dal primo cristianesimo al mondo moderno passando per l’età di mezzo.
Russell è ripreso su uno sfondo nero, e a differenza del monsignore sembra ascoltare bene le domande, in totale silenzio, per poi rispondere senza frasi fatte.
«Io credo che un potere transumano del Male esista» dice lo studioso. Friedkin gli chiede se ha mai pensato che tutto il lavoro che ha fatto (i quattro libri principali si chiamato Satan, Lucifer, Mephistopheles e Prince of Darkness) lo abbiano per caso esposto alla possessione.
Lo storico risponde che l’anno che finì di scrivere Il principe delle tenebre ebbe un attacco di grave depressione… non so se fosse possessione… so solo che le persone non si concentrano sul diavolo… io l’ho fatto e forse non lo farei un’altra volta… non pensano abbastanza al lato maligno».
Questa piccola testimonianza, all’interno del documentario, porta nel cuore del cattolico una grande speranza. Sì, ci sono persone che, a differenza dei vescovi, ancora credono nell’esistenza del Male, nei suoi attacchi. Persone che sanno con cosa si ha a che fare, e che non si imboscano dietro alla politica da ONG pietosa per evitare la principale guerra dell’universo, quella del Bene contro il Male.
È poco, è pochissimo: davanti alla catastrofe episcopale, dobbiamo accontentarci che esista un intellettuale depresso che dice di credere al maligno? No, ma la fede sulla Terra, da qualche parte deve rimanere conservata. Qualsiasi luogo, specie se lontano dalle diocesi, oggi va bene.
Di certo, non possiamo fidarci di qualcuno perché vescovo, come noi cristiani avevamo già visto durante le persecuzioni del IV secolo: famiglie intere accettavano il martirio pur di non bruciare il granello di incenso all’Imperatore, mentre alcuni vescovi invece tradivano la fede per salvarsi la vita e magari lo stipendio.
La parola «traditore» viene da qui: da quei vescovi che consegnavano – cioè, tradivano – le scritture alle autorità pagane affinché le bruciassero, nel tentativo di eradicare la fede in Gesù.
Anche quella persecuzione, anche quell’immane progetto politico del diavolo, fallì. Con la persecuzione dell’ora presente, così simile a quella del IV secolo, ammettiamo che non sappiamo ancora come andrà a finire.
Rimane che il vero film horror, la vera pellicola diabolica non è L’esorcista. È la chiesa dopo il Concilio Vaticano II.
Roberto Dal Bosco
Immagine screenshot da YouTube, riprodotta in osservanza dell’articolo 70 comma 1 della legge 22 aprile 1941 n. 633 sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, modificata dalla legge 22 maggio 2004 n. 128, poiché trattasi di «riassunto, […] citazione o […] riproduzione di brani o di parti di opera […]» utilizzati «per uso di critica o di discussione»
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Cattedrale tedesca ospita uno spettacolo sacrilego con carcasse di pollo e ballerini seminudi

Una delle cattedrali più importanti della Germania ha ospitato uno spettacolo sacrilego con ballerini a torso nudo e una grottesca «performance» con polli crudi e senza testa, scatenando l’indignazione pubblica. Lo riporta LifeSite.
Nella cattedrale di Paderborn, in Vestfalia, tre ballerini hanno eseguito uno spettacolo in cui dondolavano, lanciavano e «facevano camminare» carcasse di pollo senza testa e con i pannolini come se fossero bambini, mentre cantavano «la carne è carne», una battuta sulla canzone pop austriaca «Life is life» («la vita è vita»).
Il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, l’arcivescovo Udo Markus Bentz e funzionari tedeschi hanno partecipato alla mostra nell’ambito di una più ampia esposizione intitolata «775 – Vestfalia», in commemorazione del 1.250° anniversario della storica regione tedesca.
Sehr geehrter Herr Bundespräsident!
In Ihrem Amt müssen Sie Toleranz haben und zeigen. Bei dieser Darbietung im Dom zu Paderborn wäre es aber die richtige Geste gewesen, die Aufführung sofort zu verlassen. Wäre ich an Ihrer Stelle gewählt worden, hätte ich das unverzüglich… pic.twitter.com/nRjKyOtCNm— Max Otte (@maxotte_says) May 30, 2025
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Alcuni hanno considerato la performance una presa in giro dell’Eucaristia, il Corpo di Cristo, e sia cattolici che non cattolici hanno denunciato lo spettacolo come una «profanazione» della sacra cattedrale.
Maria Wirth, una fervente sostenitrice dell’induismo, ha dichiarato in risposta alla manifestazione che il cristianesimo è «sotto attacco e forse minato dall’alto».
«Non si è trattato di un “errore di valutazione” come si sostiene. Si è trattato con ogni probabilità di una profanazione deliberata», ha scritto su X. «La degradazione dell’umanità è in pieno svolgimento. Chi c’è dietro? Qual è lo scopo? Si può fermare e invertire la rotta?»
Secondo quanto riportato da The European Conservative, anche la sezione regionale del partito conservatore Alternativa per la Germania (AfD) nella Vestfalia-Lippe ha condannato lo spettacolo in un video.
Oltre 21.000 persone hanno firmato una petizione all’arcivescovo Bentz chiedendogli di scusarsi per la sua presenza silenziosa e la sua «inazione» e di consacrare nuovamente la cattedrale, che consideravano profanata dall’evento.
I promotori della petizione hanno sottolineato che «rappresentazioni inquietanti e blasfeme stanno avvenendo sempre più spesso» nelle chiese di tutto il mondo, come una danza omosessuale tenutasi in una chiesa cattolica in Canada nel 2019 e una blasfema presa in giro dell’Eucaristia in una chiesa cattolica messicana nel 2023.
La cerimonia nella cattedrale di Paderborn costituisce quanto meno un atto sacrilego, in quanto trattamento profano e indegno di una chiesa consacrata a Dio. Il canone 1210 afferma che «nel luogo sacro sia consentito solo quanto serve all’esercizio e alla promozione del culto, della pietà, della religione, e vietata qualunque cosa sia aliena dalla santità del luogo».
Darf ich vorstellen? “Westfalen Side Story” im Paderborner Dom.
Wirklich spannend wird es ab 2:15min
Das hier ist der gesamte Auftritt.In Paderborn wurde das 1250. Jubiläum von Westfalen gefeiert.
Mit dabei: MP Wüst und Bundespräsident Steinmeier.UND: Hähnchen in Windeln.… pic.twitter.com/6aZCKwBxQK
— Boris von Morgenstern (@BvMorgenstern) May 28, 2025
Padre Frank Unterhalt, sacerdote diocesano tedesco e portavoce di un gruppo di fedeli sacerdoti chiamato Communio Veritatis, ha condannato l’evento nella cattedrale definendolo un «abuso abominevole» e uno «spettacolo pagano che era una presa in giro del Signore e della Sua Chiesa».
Unterhalt e il gruppo Communio Veritatis hanno quindi chiesto che «siano adottati i provvedimenti opportuni e siano compiuti atti appropriati di penitenza ed espiazione per ripristinare l’onore del Signore, al quale la Chiesa appartiene».
«La cattedrale deve tornare a essere uno spazio sacro per il culto della Santissima Trinità!», ha scritto.
Da allora, il capitolo metropolitano dell’arcidiocesi di Paderborn ha espresso «rammarico» per il fatto che la rappresentazione abbia offeso i “sentimenti religiosi”.
«Un effetto del genere non è mai stato voluto e non corrisponde alle nostre aspettative nei confronti di questo luogo, con il suo speciale significato religioso, storico e culturale», affermava il capitolo , senza alludere alla natura sacra della chiesa e al suo corretto utilizzo. «Prendiamo molto sul serio le reazioni alla performance e abbiamo già iniziato a rivedere le nostre procedure interne. In futuro, verrà rivisto il processo di approvazione degli eventi in cattedrale, garantendo una revisione più approfondita dei contenuti».
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La presenza negli ambiti ecclesiastici di opere di arta degenerata che spesso deridono e offendono il sentimento religioso è un pattern continuo della chiesa moderna.
Come riportato da Renovatio 21, l’estate scorsa un fedele cattolico anonimo ha distrutto una raffigurazione blasfema e indecente della «Nostra Signora» in una cattedrale in Austria dopo che la scultura aveva suscitato indignazione.
Si tratta di casi che possono ricordare da vicino quello di Carpi, dove un quadro definito da alcuni fedeli come osceno e sacrilego era stato esposto nella chiesa di Sant’Ignazio, chiesa del museo diocesano di Carpi. Anche in quel caso, la mostra era stata verosimilmente approvata dalla gerarchia.
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Immagine screenshot da Twitter
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Statua di Melania Trump vandalizzata in Slovenia

NEW: This is what the Melania Trump statue looks like in her Slovenia hometown now. It was chopped off at the feet and stolen – NYT pic.twitter.com/6XFG6h7JAo
— Eric Daugherty (@EricLDaugh) May 17, 2025
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Melania, nata Knavs (cognome poi germanizzato per qualche ragione in Knaus) trascorso i suoi primi anni a Sevnica prima di intraprendere una carriera da modella che l’ha portata prima a Milano e Parigi e poi negli Stati Uniti nel 1996. Da allora, la città natale avrebbe introdotto una linea di prodotti a tema Melania per celebrare la sua ex residente più nota. È riportato che il presidente abbia visitato almeno una volta la cittadina assieme alla moglie. «La mia sensazione è che abbia a che fare con le nuove elezioni, ma chi lo sa, vero?», ha detto l’artista Downey all’AFP, commentando l’ultimo incidente. Ha descritto la statua scomparsa come un «anti-monumento» e «anti-propaganda».This statue of Melania unveiled in Slovenia is literally the worst statue I’ve ever seen and I’ve been laughing at it for days pic.twitter.com/iVmupgPgMr
— Secular Talk (KyleKulinskiShow@bsky.social) (@KyleKulinski) September 21, 2020
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Morto Zurab Tsereteli, scultore di titaniche sculture

Il celebre artista russo-georgiano Zurab Konstantinovic Tsereteli, emblema della scultura russa, è morto all’età di 91 anni, ha annunciato il suo assistente.
Secondo quanto riportato, il maestro Tsereteli ha avuto un infarto all’1:30 di martedì a Mosca. Più tardi, il suo staff ha annunciato che una cerimonia di addio si sarebbe tenuta nell’iconica Cattedrale di Cristo Salvatore, ma che sarebbe stato sepolto nella sua natia Georgia.
Tsereteli, presidente dell’Accademia Russa delle Arti dal 1997, era ampiamente considerato una figura di spicco dell’arte monumentale sovietica e russa. Tra le sue opere più note c’è l’imponente statua di Pietro il Grande a Mosca. Alta 98 metri, la statua fu inaugurata nel 1997 per commemorare i 300 anni della Marina russa. Rimane una delle statue più alte del mondo.

Immagine Mos.ru via Wikimedia CC BY 4.0
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Il monumento, tuttavia, è stato oggetto di notevoli controversie. I critici ne hanno sottolineato le dimensioni sproporzionate e l’incongruenza con il paesaggio urbano storico di Mosca, descrivendolo come imponente e fuori luogo. Tsereteli negli anni Novanta aveva stretto una personale amicizia con il controverso Yurij Luzhkov, controverso sindaco di Mosca (la cui moglie, in anni successivi, avrebbe pagato Biden), dove partecipò al progetto di ricostruzione della Cattedrale di Cristo Salvatore, della Piazza del Maneggio e dello Zoo.
A livello internazionale, lo Tsereteli è noto per «Il Bene Sconfigge il Male», una scultura in bronzo installata presso la sede delle Nazioni Unite a Nuova York. L’opera raffigura San Giorgio che uccide un drago realizzato con frammenti di missili nucleari sovietici e americani smantellati, a simboleggiare la fine della Guerra Fredda e la vittoria sullo spettro dell’Armageddone nucleare.

Immagine Cancillería Ecuador via Wikimedia CC BY-SA 2.0
Un’altra opera degna di nota è la «Lacrima del Dolore» (nota anche come «Alla Lotta contro il Terrorismo Mondiale»), un monumento di 10 piani a Bayonne, nel New Jersey, dedicato alle vittime degli attacchi dell’11 settembre. La scultura raffigura una grande lacrima in acciaio inossidabile sospesa all’interno di una torre incrinata. Fu donata dalla Russia e inaugurata nel 2006.

Immagine via Wikimedia CC0
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Nel corso della sua lunga carriera, Tsereteli ha creato più di 5.000 opere d’arte che spaziavano dall’architettura alla pittura e agli affreschi. Ha ricevuto numerose onorificenze, tra cui il titolo di Artista del Popolo dell’URSS e la Legion d’Onore francese.
La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha espresso le sue condoglianze, descrivendo Tsereteli come «un artista di fama internazionale e una vera figura pubblica che non ha conosciuto confini o barriere nella causa della pace e della creatività (…) Era un vero diplomatico del popolo. Vivrà non solo nei nostri cuori, ma anche nelle sue opere: nelle vetrate e negli smalti che decorano le ambasciate, nei monumenti e nelle sculture collocati in tutto il mondo, nei fiori e nei bouquet rigogliosi che dipingeva con tanta passione. Sapeva amare e donare amore».
Il maestro negli anni sessanta soggiornò a Parigi dove conobbe Picasso e Chagall. Disegnò in seguito la riviera sovietica sul Mar Nero in Abcasia: le città di Pitsunda e Adler sono ancora ornate delle sue bizzarre fermate degli autobus. Continuò quindi il lavoro con varie cittadine delle repubbliche sovietiche, progettando poi anche ambasciate e consolati dell’URSS in Brasile, in Portogallo e in Giappone.
Nel 1980, lo Tsereteli fu nominato capo designer dei XXII Giochi Olimpici di Mosca. Nello stesso anno realizzò l’opera Inno all’uomo, posizionata in cima alla sala concerti e cinema dell’Hotel Izmailovo, costruito per le Olimpiadi, e ricevette l’Ordine dell’Amicizia tra i Popoli. Nel 1981 fu nominato professore presso la sua alma mater, l’Accademia di Tbilisi.
Nel 2005, la Russia donò a Israele l’opera Olocausto di Cereteli, installata a Gerusalemme. Tra le sue opere più significative figurano la statua di Nikolaj Gogol’ a Villa Borghese (2002), quella di Honoré de Balzac ad Agde (2003), di Marina Cvetaeva a Saint-Gilles-Croix-de-Vie (2012), il monumento ai Padri fondatori dell’Unione Europea in Lorena (2012) e il monumento a papa Giovanni Paolo II (2014) vicino alla Basilica di Notre-Dame.

Immagine di Emilia Orlandi via Wikimedia CC BY-SA 3.0
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Una statua di San Nicola Taumaturgo è sita a Bari, in piazza San Nicola.

Immagine Enric via Wikimedia CC BY-SA 4.0
Notevole anche la sua statua del presidente Vladimir Putin a Mosca.

Immagine United Nations via Flickr CC BY-NC-ND 2.0
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Immagine di United Nations via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
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