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Perché l’estetica deve governare una società degna di libertà politica?

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A metà degli anni ’90, una serie di rivelazioni pubblicate sul London Independent e altrove hanno portato alla luce un oscuro segreto.

 

Molti sono rimasti sorpresi dalla rivelazione che l’intera evoluzione dell’arte moderna del XX secolo è stata diretta in larga misura dalla CIA!

 

Molti sono rimasti sorpresi dalla rivelazione che l’intera evoluzione dell’arte moderna del XX secolo è stata diretta in larga misura dalla CIA!

Ciò non includeva solo il finanziamento diretto di pittori astratti come Jackson Pollock e Mark Rothko, le cui opere ora vengono regolarmente vendute per oltre 100 milioni di dollari l’una, ma anche potenti riviste letterarie come Salon e Encounter, scuole di danza interpretativa e la musica atonale straordinariamente brutta di Arnold Schoenberg.

 

Lo strumento scelto per ridisegnare i gusti culturali occidentali sulla scia della seconda guerra mondiale divenne noto come il Congresso per la Libertà Culturale (CCF). Fondato nel 1950 con il finanziamento delle Fondazioni Rockefeller e Ford, il CCF è stato progettato per 1) promuovere la de-nazificazione della Germania e 2) combattere la guerra culturale contro il mondo comunista che era stata organizzata di recente da Sir Winston Churchill.

 

La logica della Guerra Fredda Culturale affermava che poiché il comunismo e il fascismo facevano affidamento su «iconografia rigida e realista» per avanzare, il «mondo libero» dall’altra parte della cortina di ferro avrebbe fatto affidamento su una «libertà» astratta ed emotiva.

 

La logica della Guerra Fredda Culturale affermava che poiché il comunismo e il fascismo facevano affidamento su «iconografia rigida e realista» per avanzare, il «mondo libero» dall’altra parte della cortina di ferro avrebbe fatto affidamento su una «libertà» astratta ed emotiva

Dove il comunismo era basato sul sacrificio dell’individuo per il «bene» del tutto, questa democrazia della Guerra Fredda affermava che i bisogni del tutto erano separati dalla libertà arbitraria dell’individuo di «fare tutto ciò che ti fa sentire bene».

 

Il grado in cui il nuovo modernismo ha offeso l’ordine e la logica era proporzionale al grado in cui ha difeso «la democrazia e il capitalismo liberale».

 

È interessante notare che il CCF era gestito in gran parte sotto la direzione dello stesso Lord Bertrand Russell che solo pochi anni prima aveva chiesto il  bombardamento preventivo dell’Unione Sovietica al fine di ottenere un governo mondiale . Il lavoro attivo di Russell che sovverte le arti non dovrebbe essere visto separatamente dalle sue opinioni politiche imperiali, o dai suoi sforzi per imporre un sistema di catene alle menti degli scienziati che sarebbero per sempre resi creativamente sterili a causa della convinzione che la matematica fissa governasse l’universo come delineato nei suoi Principia Mathematica  (1).

 

Dopo tutto Zeus non può tollerare la conoscenza del fuoco (scienza), la libertà di usarlo (politica) o l’istinto di usarlo bene (cultura). È solo pensando in termini di questi tre aspetti interconnessi della condizione umana, che si può comprendere il XX secolo o la storia più in generale.

 

Il grado in cui il nuovo modernismo ha offeso l’ordine e la logica era proporzionale al grado in cui ha difeso «la democrazia e il capitalismo liberale».

Descrivendo la sua visione della cultura Russell scrisse nel 1951 ne L’impatto della scienza sulla società :

 

«Penso che l’argomento che sarà politicamente più importante sia la psicologia di massa… La sua importanza è stata enormemente accresciuta dalla crescita dei moderni metodi di propaganda. Di questi, il più influente è quello che viene chiamato “educazione”. La religione gioca un ruolo, anche se in diminuzione; la stampa, il cinema e la radio giocano un ruolo sempre più importante…. Si può sperare che col tempo chiunque sarà in grado di persuadere qualcuno di qualcosa se riesce a catturare il paziente giovane e viene fornito dallo Stato con denaro e attrezzature».

 

Adorno, le cui teorie sulla musica sono ancora considerate un gold standard nel mondo accademico moderno e che ha anche ironicamente creato le basi per la «top 40 hit» come parte della creazione di una cultura per le masse distaccata da una «cultura d’élite» per l’oligarchia ei suoi gestori, aveva descritto il suo ideale di «nuova musica» nei seguenti termini:

 

«La musica moderna vede nell’oblio assoluto il suo obiettivo. È il messaggio di disperazione sopravvissuto dei naufraghi» Theodor Adorno

«Ciò che la musica radicale percepisce è la sofferenza non trasfigurata dell’uomo… La registrazione sismografica dello shock traumatico diventa, allo stesso tempo, la legge strutturale tecnica della musica. Vieta la continuità e lo sviluppo. Il linguaggio musicale è polarizzato secondo il suo estremo; verso gesti di shock da una parte simili a convulsioni corporee, e dall’altra verso un fermo cristallino di un essere umano che l’ansia le fa congelare sulle tracce… La musica moderna vede nell’oblio assoluto il suo obiettivo. È il messaggio di disperazione sopravvissuto dei naufraghi».

 

Poiché Adorno esemplificava la credenza oligarchica nell’inevitabile decadimento (entropia) di tutta l’esistenza e la convinzione associata che le arti dovessero riflettere quella realtà, Adorno scrisse nella sua Filosofia della musica moderna  che alla fine «la necrofilia è l’ultima perversità dello stile».

 

Non c’è da meravigliarsi se il nemico finale di un’oligarchia si trova nella convinzione ottimistica che la ragione morale esiste nell’essenza di tutta la natura umana come una specie unica creata a immagine di un Creatore buono e amorevole.

Non c’è da meravigliarsi se il nemico finale di un’oligarchia si trova nella convinzione ottimistica che la ragione morale esiste nell’essenza di tutta la natura umana come una specie unica creata a immagine di un Creatore buono e amorevole

 

Quali tipi di arte riflettono quel senso divino dell’umanità? Quali tipi di sistemi di filosofia politica lo esprimono?

 

Un sistema di potere ereditario è uguale a un sistema che postula che «tutti gli uomini sono creati uguali e dotati di diritti inalienabili»?

 

È vero che il Jesu Meine Freud di Bach o il Requiem di Mozart dovrebbero essere trattati in qualche modo alla stregua della musica atonale «sofisticata»  del XX secolo?

 

Un dipinto di Rembrandt o di Da Vinci dovrebbe essere considerato uguale agli schizzi di inchiostro di Pollock o agli sfocati quadrati di Rothko?

Cosa succede al potere di giudicare il bene dal male e la verità dalle bugie in una società che abbraccia un’arte animata dall’amore e dalla bellezza contro un’arte animata dalla bruttezza pessimistica? Quale tipo di società sarebbe più facile da manipolare?

 

Cosa succede al potere di giudicare il bene dal male e la verità dalle bugie in una società che abbraccia un’arte animata dall’amore e dalla bellezza contro un’arte animata dalla bruttezza pessimistica? Quale tipo di società sarebbe più facile da manipolare?

 

 

Un ritorno all’universale nell’arte: Schiller come antidoto al CCF

Il poeta tedesco Friedrich Schiller, che fu plasmato dal movimento repubblicano globale che si diffuse sulla scia della Rivoluzione americana, chiese nelle sue Lettere estetiche  (1794)  «come fa l’artista a proteggersi dalla corruzione dell’età che lo assilla su tutti lati? Disdegnando la sua opinione».

 

Se le masse sono degradate a credere che il veleno sia la loro droga, allora come potrebbe un vero artista soddisfare i loro desideri, non importa quanto popolare? Per fare questo è necessaria una disposizione morale estremamente avanzata poiché sia ​​il denaro che la fama devono essere sacrificati per sfidare una società a diventare migliore.

 

Se le masse sono degradate a credere che il veleno sia la loro droga, allora come potrebbe un vero artista soddisfare i loro desideri, non importa quanto popolare?

Schiller diceva che per essere impegnati nella verità e nel suo corollario Libertà nella più alta ricerca della Bellezza, un artista doveva trovare un modo per bilanciare l’esistenza nello spazio e nel tempo, ma sforzarsi sempre di trascendere i limiti della propria società temporale in una costante ricerca di l’eterno.

 

Nella sua sesta lettera Schiller scriveva:

 

«Senza dubbio l’artista è il figlio del suo tempo, ma infelice per lui se è il suo discepolo o anche il suo prediletto! Riceverà davvero la sua materia dal tempo presente, ma prenderà in prestito la forma da un tempo più nobile e anche oltre ogni tempo, dall’unità essenziale, assoluta, immutabile. Là, uscendo dal puro etere della sua natura celeste, scorre la sorgente di tutta la bellezza, che non è mai stata contaminata dalla corruzione di generazioni o di ere, che scorre molto al di sotto di essa in vortici oscuri».

«Senza dubbio l’artista è il figlio del suo tempo, ma infelice per lui se è il suo discepolo o anche il suo prediletto! Riceverà davvero la sua materia dal tempo presente, ma prenderà in prestito la forma da un tempo più nobile e anche oltre ogni tempo, dall’unità essenziale, assoluta, immutabile. Là, uscendo dal puro etere della sua natura celeste, scorre la sorgente di tutta la bellezza, che non è mai stata contaminata dalla corruzione di generazioni o di ere, che scorre molto al di sotto di essa in vortici oscuri».

 

I pensieri di Schiller non erano scritti in una torre d’avorio, ma erano guidati dai suoi sforzi principali come drammaturgo, poeta e fondatore di un campo di ricerca noto come la Scienza della Storia Universale. Sebbene la sua vita sia stata breve, non solo ha lasciato un’opera incredibile che ha ispirato alcune delle opere musicali più nobili come la Nona Sinfonia di Beethoven e le opere di Verdi, ma ha anche plasmato direttamente una rete di altri artisti, scienziati e statisti attraverso il Rinascimento di Weimar come entrambi i fratelli Humboldt e Wolfgang Goethe, per citarne alcuni.

 

La necessità di curare la società dalla sua tendenza a cadere sotto l’influenza di entrambi gli estremi delle questioni intellettuali astratte prive di crescita emotiva da un lato e del caos emotivo distaccato disinformato dalla ragione dall’altro era alla base dell’autosviluppo di Schiller e della sua luce guida nella creazione di una cultura capace di raggiungere la vera libertà politica (2).

 

È questo spirito che gli zombi perversi della «fine della storia» del CCF volevano distruggere attraverso la loro manipolazione degli affari globali che portarono alla prima guerra mondiale, la loro umiliazione della Germania sotto il Trattato di Versailles e il loro finanziamento di Adolph Hitler attraverso Wall Street e la Banca dei regolamenti internazionali della città di Londra.

 

Il fatto che a queste stesse forze che hanno creato le guerre mondiali e i mostri fascisti del XX secolo sia stata data anche l’autorità di offrire la «cura» sotto forma della de-nazificazione della Germania dal CCF e della nuova cultura «democratica» dell’arte astratta, la musica modernista e la filosofia esistenzialista, è simile al permettere all’assassino di fare l’elogio funebre al funerale delle sue vittime.

 

La scelta è ancora una volta posta di fronte a tutti i cittadini: vogliamo continuare a nuotare nel porcile della decadenza culturale e del pessimismo, o vogliamo abbracciare un futuro più divenire di una specie fatta ad immagine del Creatore?

(…)

 

La scelta è ancora una volta posta di fronte a tutti i cittadini: vogliamo continuare a nuotare nel porcile della decadenza culturale e del pessimismo scatenato dal CCF, o vogliamo abbracciare un futuro più divenire di una specie fatta ad immagine del Creatore?

 

 

Matthew Ehret

 

 

NOTE

1)  Fortunatamente per il mondo, l’amico intimo di Einstein Kurt Gödel, ispirato dai suoi studi su Gottfried Leibniz, mise fine a questo sforzo nel 1931 dimostrando che la fede di Russell in un sistema matematico chiuso era impossibile poiché tutti i sistemi sono intrinsecamente aperti e quindi suscettibili alla costante perfettibilità. Sfortunatamente per Gödel, Russell non lo perdonò mai e si assicurò che gli anni rimanenti della sua vita fossero un inferno, con Gödel che alla fine incontrò una tragica fine nel 1977 convinto che Bertrand Russell e le società segrete internazionali stessero cercando di distruggere Leibniz e stessero anche cercando di avvelenarlo.

 

 

 

Articolo pubblicato su gentile concessione dell’autore. 

 

 

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Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.   Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.   La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.   Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.   «Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.   Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.       Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.   In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.     L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.   Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.

 

Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.

 

A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.

 

I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.

 

Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.

 

Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.

 

A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.

 

 

Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».

 

Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.

 

Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.

 

 

Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.

 

O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?

 

Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.

 

Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.

 

Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.

 

 

Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.

 

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.

 

 

 

Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.

 

Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.

 

C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.

 

No?

 

Roberto Dal Bosco

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